Il sindacato di Grillo

La fine dell’intermediazione sindacale proposta dai grillini rischia di essere qualcosa di peggio dello slogan seppur minaccioso apparso sui quotidiani in queste settimane.

E’ infatti apparso sul sacro blog il secondo punto del programma del lavoro del movimento cinque stelle, che non elimina l’intermediazione sindacale, ma la declina in modo grillino e di fatto la trasforma. Per sintetizzare il programma grillino non prevede la fine dei sindacati tout court ma la fine dei sindacati confederali.

Il punto infatti messo alla votazione del blog è la possibilità da parte dei lavoratori di eleggere le proprie rappresentanze sindacali anche di al di fuori delle sigle che abbiano firmato accordi con la controparte datoriale (a livello nazionale, territoriale o aziendale).

Di fatto questo significa legittimare e sdoganare il fenomeno delle sigle sindacali autonome (Cobas, Usb, ecc…) all’interno di fabbriche e luoghi di lavoro, indipendentemente dalla loro capacità negoziale ma soltanto in funzione della loro capacità di interdizione e di protesta.

E’ evidente che il fenomeno Cobas non può oggi essere trattato col solo approccio “normativo” appellandosi all’art.19 dello Statuto dei Lavoratori e alle sue successive interpretazioni. Intanto perché questo approccio è stato smentito dalle stesse categorie sindacali confederali quando ad essere escluse dalle fabbriche erano loro stesse. E’ il caso della FIOM contro la Fiat di Marchionne che ha portato il tema in Corte Costituzione. La suprema corte infatti, dando ragione alla sigla di Landini, ha di fatto reso vana la modifica all’art.19 dello Statuto dei Lavoratori, voluta proprio anche dalle sigle sindacali con un referendum, per arginare il fenomeno delle sigle sindacali autonome.

Vi è poi il tema dell’analisi concreta del fatto concreto, per dirla con il compagno Lenin, cioè del fatto che in interi settori o in alcune aree geografiche le forze sindacali autonome rappresentano l’unica controparte che si trova nei luoghi di lavoro. Penso ad esempio al settore della logistica nel nord Italia.

Dunque il tema esiste ma la risposta grillina è una risposta possibile o che migliora le cose? La fine o la trasformazione della intermediazione sindacale non è un tema nuovo. Una larga parte delle associazioni datoriali hanno in questi anni, più o meno inconsciamente, teorizzato una riduzione se non un azzeramento del fattore politico, generale, nelle trattative sindacali. L’accentuazione portata sulla contrattazione decentrata rispetto ai contratti collettivi nazionali ha, tra gli altri aspetti, anche quello di eliminare il generale rispetto al particulare dell’azienda o addirittura del singolo stabilimento.

Non appaia strano che questo approccio non dispiaccia ad alcune delle sigle sindacali autonome che si professano all’arco opposto delle forze datoriali. Per scopi diversi anche le sigle autonome ambiscono alla fine della componente confederale della rappresentanza sindacale e alla gestione del conflitto nell’ambito aziendale o al massimo settoriale.

Non sfugga poi che tale situazione ha responsabilità sindacali, naturalmente. Da un lato l’eccesso del ricorso ai tavoli politici da parte delle sigle confederali su molte, troppe vertenze aziendali (complici naturalmente le aziende che in questi anni, pur professandosi liberiste, non hanno lasciato cadere nessuna opportunità di socializzare le perdite), dall’altro lato una lentezza congenita nel comprendere e adattarsi alle mutate condizioni lavorative e sociali (in buona compagnia sia chiaro di tutto il Paese).

La mossa dei cinque stelle dunque va in due direzioni, contrarie ma che tatticamente potrebbero convergere, come spesso accade a quel movimento politico. Da un lato accreditarsi come soggetto rappresentativo delle istanze dei sindacati di base, pur non ponendosi con essi come “cinghia di trasmissione”; un semplice veicolo, un compagno di strada, del sindacalismo di base. Una possibilità rappresentata dalla presenza, sempre sul blog di Grillo a supporto del tema messo in votazione, di un video messaggio di Giorgio Cremaschi, ex Fiom uscito a sinistra dalla CGIL anche in disaccordo con il sindacato di Corso Italia proprio sui temi del rapporto col sindacalismo di base.

Accanto a questo però, il tema sollevato dai grillini, strizza l’occhio a tutti quegli imprenditori convinti che un sindacato confederale debole sia preferibile all’attuale stato delle relazioni industriali e che la conflittualità del sindacalismo di base sia arginabile (o estinguibile) o comunque sia localizzata in settori marginali per le forze produttive del Paese.

Il tema quindi chiederebbe qualcosa di più dell’attenzione ad un titolo ma l’apertura di una riflessione più ampia e complessa sul tema dei corpi intermedi come funzioni di base, mattoni, di una democrazia economica compiuta che supera il concetto basilare della rivendicazione puntuale per dare diritti e dignità generali ai lavoratori e alle imprese.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.213 del 15 aprile 2017

Oltre Marchionni e Landini

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Il paradosso della vicenda che ha visto Fiat, ora FCA, contrapporsi ai sindacati ed in particolare la FIOM sta nel fatto che nel momento in cui l’azienda esce dal sistema confindustriale e si fa un contratto di lavoro per sé, per la prima volta nella sua storia aziendale, diventa l’elemento trainante dell’intero sistema delle relazioni industriali italiane. Questo è uno dei punti che il libro di Paolo Rebaudengo, Nuove Regole in fabbrica (il Mulino 2015), affronta raccontando la vicenda che, dalla fabbrica di Pomigliano, ha portato la fabbrica torinese a creare un nuovo modello di rapporto con i sindacati e i lavoratori. Una delle tesi del libro, per tornare al paradosso, è che la FIAT neanche con la marcia dei 40.000 aveva mai davvero cambiato regole e liturgie del confronto sindacale e che soltanto la vicenda Marchionne Landini ha smosso un moloch tutto italiano. Paolo Rebaudengo non è un soggetto neutro della vicenda essendo stato per anni il direttore delle relazioni industriali di FIAT e il suo è un racconto dichiaratamente di parte. Proprio questo lo rende, forse, ancora più utile. Perché la vicenda FIAT è stata letta dalla grande stampa spesso in modo strumentale (di entrambe le parti a differenza di quanto afferma l’autore per il quale tutta la stampa sarebbe stata schierata con la FIOM) e mai nel merito delle vicende. Tuttavia il libro, pur essendo molto utile agli addetti ai lavori, è pensato anche per un pubblico più vasto perché indaga quello che molto probabilmente sarà lo scenario, quanto meno di confronto, tra lavoratori e imprese. Il dato di partenza infatti del libro e della vicenda viene posizionato non in un bisogno di risparmi e di contrazione dell’occupazione ma dal bisogno di FIAT di diventare un soggetto globale. Per farlo, l’organizzazione del lavoro, era e resta un elemento imprescindibile a partire, dice l’azienda, dalla misurabilità e comparabilità dai dati della produzione. Insomma la globalizzazione entra in fabbrica, pesantemente, ridefinisce uno dei terreni di scontro classici tra capitale e lavoro: l’ufficio tempi e metodi. Da questo oltre che da un bisogno di risposte quasi in tempo reale dell’impresa alle sollecitazioni di mercato discende la riforma delle relazioni industriali che diventano da accessorio delle risorse umane, parte integrante delle strategie di investimento dell’impresa e del gruppo internazionale. Su questo il confronto coi sindacati e con un certo sindacato in particolare non può essere più distante. E’ distante per cultura e, verrebbe da dire, per dimensione di riferimento. Non è un caso che la battaglia da sindacale si sposti quasi subito sul piano legale, dove le fortune dell’azienda sono molto meno certe che in fabbrica e, va detto, tra i lavoratori che hanno sempre approvato i vari accordi. Dunque un sindacato che, da parte aziendale, viene visto come un elemento non capace di capire i tempi attuali della produzione ma attaccato soltanto al diritto e alla sua funzione politica generale. Senza sposare in pieno la tesi aziendale (il sindacato deve essere anche agente politico/sociale e il conflitto esiste e dunque va governato) appare evidente una difficoltà esplicita del movimento sindacale a entrare in contatto in primis con gli strumenti culturali di questi tempi, apparendo come legato a logiche e manifestazioni non più rispondenti al proprio scopo sociale e finendo in alcuni casi, come quello della FIOM, a far sembrare prevalente l’aspetto politico orizzontale su quello della difesa e dello sviluppo dell’occupazione e della qualità del lavoro. Non sono però lesinate critiche anche alle organizzazioni datoriali in particolare Confindustria, dalla quale FIAT per firmare un proprio contratto è costretta ad uscire, vista comunque come un elemento conservativo e ritardante del processo di espansione del gruppo. Un libro interessante, infine, per la sua visione di prospettiva; perché lo scenario che si intuisce al termine di questa stagione vertenziale in FIAT è un modello sul quale si discuterà nei prossimi anni, un modello fatto di meno rappresentanza nazionale, di maggiore contrattualità aziendale, forse di contratti unici di “cornice” e di un nuovo rapporto tra aziende e sindacati fatto meno di principi e più di tecnicalità e dell’espansione di rapporti e interlocutori internazionali. Trovarsi pronti a questa stagione, da ambo i lati, sarà utile alle imprese e ai lavoratori.

Articolo apparso su www.culturacommestibile.com n.137 del 19 settembre 2015