Dal Nuovo Corriere di Firenze del 16 febbraio 2012.
L’immagine di un Paese la si coglie anche nelle sue manifestazioni, nel suo apparire. In questo senso il Festival di Sanremo è stato per lungo tempo l’immagine dell’Italia democristiana e rassicurante. Non certo uno spaccato sociologico del Paese, piuttosto una rappresentazione scenica di quello che, la classe dirigente italiana al potere, avrebbe voluto che il Paese fosse. Retorica, buoni sentimenti, poca politica, un po’ di impegno sociale e qualche guitto (cantante o ospite) a far divertire sovrani e popolo. Dunque una celebrazione di un modello piuttosto che una fotografia dell’Italia che cambia. Se dunque questo era il tema e lo scopo del festiva dei fiori, la prima puntata andata in onda martedì, preoccupa alquanto. Televisivamente parlando uno spettacolo senza tempi, senza professionalità, con microfoni aperti sempre troppo presto e chiusi troppo tardi, vallette di rimpiazzo più fuori luogo del solito e una scrittura che tendeva al turpiloquio e all’eccesso (inteso come troppo parlare) anche senza l’intervento di Celentanoo l’incapacità di votare le canzoni che poi dovrebbe essere il cuore della manifestazione. Per non parlare delle canzoni stesse. Aldilà dei gusti personali e musicali, non c’era un testo non dico votato all’ottimismo ma almeno una vecchia rima cuore, sole, amore. Crisi, disoccupazione, Spiritualità, Dio e religione tanto per citare qualche tema comune a molti cantanti. Nemmeno si fosse al Tenco, piuttosto che a Sanremo. Inutile parlare di Celentano e il suo sermone, come notava Massimo Bordin, trattandosi di deliri non vale nemmeno la pena commentarli.