Berlinguer l’ambizione cinematografica

Esce nelle sale questa settimana Berlinguer la grande ambizione di Andrea Segre. Abbiamo avuto l’opportunità di vederlo in anteprima alla cineteca di Bologna all’interno della Biennale dell’economia cooperativa organizzata da Legacoop alla presenza dell’autore e del protagonista Elio Germano. È stata dunque l’occasione per una riflessione non solo sul film ma sulla “presenza” di Berlinguer nel dibattito politico e storiografico e di come si trasmetta la sua memoria.

Joseph Buttiegieg che fu il traduttore dei Quaderni dal Carcere di Gramsci in lingua inglese scrisse che non bisognava fare del pensatore comunista una “reliquia intoccabile”. Per Gramsci, anche grazie alla fortuna oltreoceano del suo pensiero che la traduzione di Buttiegieg ha aiutato, probabilmente questo rischio è stato in parte evitato mentre il timore è stato e rimane altissimo per un altro comunista sardo: Enrico Berlinguer.

Erano già gli anni 2000, infatti, quando ancora bastava nelle riunioni del partito che già si discostava dal PCI di 10 anni e di due cambi di nome e ragione sociale, citare il nome del segretario comunista per ridestare un uditorio un po’ distratto o ottenere un applauso su un passaggio delicato. Ed è storia, e giusto omaggio, dei nostri giorni lo sguardo di Berlinguer sulla tessera del partito democratico.

In questi anni poi si sono moltiplicati i libri anche pregevoli, compreso quello di due redattori di questa rivista, i documentari, una bella e partecipatissima mostra e tante altre iniziative dedicate ad una delle figure più importanti non soltanto per la sinistra italiana. Una mole di produzioni che ha amplificato, talvolta stuzzicato, sia l’effetto nostalgia, sia il rischio “vita dei santi”.

Un rischio che anche il film di Andrea Segre Berlinguer la grande ambizione, si trova di fronte e prova a evitare da un lato con un rigore “citazionista” quasi filologico, lasciando al minimo le parti di pura invenzione drammaturgica, e dall’altra con un ritratto di Berlinguer che mischia l’uomo politico, l’uomo pubblico, con il Berlinguer privato quello della dolcezza con i figli e la moglie.

Un’operazione, quella di Segre, rischiosissima e coraggiosa e che non aveva avuto, almeno a memoria di chi scrive, precedenti in campo di opere cinematografiche non documentaristiche e che ci restituisce un ritratto del politico negli anni centrali della sua segreteria, quelli che vanno dal colpo di stato cileno del settembre 1973 all’assassinio di Aldo Moro nel maggio 1978. La grande ambizione del titolo (che si rifà a una citazione di Gramsci) è infatti quella dell’approdo del PCI al governo del Paese attraverso da un lato libere elezioni (in continuità con l’impostazione che dal rientro di Togliatti da Mosca nel 1944 aveva caratterizzato il PCI come gli altri partiti comunisti dell’Europa occidentale) e dall’altro la partecipazione di tutte le forze democratiche e popolari al governo, DC compresa. Ed è proprio questo secondo punto il centro della novità e del disegno berlingueriano che, attraverso il cosiddetto “compromesso storico” (Moro più enigmaticamente parlava invece di “convergenze parallele”) doveva portare prima ai governi della “non sfiducia” e poi alla partecipazione al governo dei comunisti.

Questo disegno, interrotto dal sequestro e dall’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse, è l’ambizione interrogata e raccontata nel film di Segre, che accompagna Berlinguer, interpretato con grande delicatezza da Elio Germano, tra riunioni del comitato centrale del PCI, assemblee con la “base” del partito, viaggi a Mosca, gli incontri “clandestini” con Moro ma anche i momenti di intimità con la famiglia del segretario.

Segre fa muovere Germano e gli altri attori su un sentiero rigido, reinterpretando al minimo passi di diari dei protagonisti o dei verbali delle riunioni conservati all’Istituto Gramsci e dunque restituendoci una ricostruzione storicamente appurata anche se tutta proveniente da una delle parti in causa, quella del gruppo dirigente del PCI.

Questo rigore se ha il pregio di rendere “solido” il film pone però almeno due problemi: da un lato piega alcuni avvenimenti al raggiungimento della grande ambizione; questo avviene in almeno due momenti: nella ricostruzione del referendum sul divorzio che viene raccontato come un’occasione per i comunisti di dimostrare alla DC che il Paese era pronto a uno sviluppo progressista che poteva portare all’alleanza tra le forze popolari. Se è vero che questa sarà la pronta lettura che il gruppo dirigente comunista darà dell’esito della consultazione referendaria, non va però dimenticato che il PCI era assolutamente contrario al fatto che si tenesse il referendum e Berlinguer in particolare, questo dicono i verbali del comitato centrale, era convinto che il voto si sarebbe rivelato in un trionfo del sì e della DC. Questa parte nel film è invece affidata ad una piccola scena di passaggio in cui Nilde Iotti convince il segretario della bontà del referendum criticando il “maschilismo” dei quadri del partito. Problema che era certo presente nel partito e che la Iotti conosceva bene anche per le proprie vicende personali.

Il secondo punto in cui il film piega la ricostruzione degli eventi al fine della grande ambizione è in una scena “moscovita” in cui Berlinguer parlando con il responsabile dei rapporti col PCUS, Gianni Cervetti fa intuire che il momento sia propizio per interrompere i finanziamenti “straordinari” di Mosca al partito. Così lo spettatore meno preparato può pensare che quella riflessione portò effettivamente all’interruzione di quel canale di finanziamento che invece proseguì e per molti anni, come ricorda lo stesso Cervetti nel suo “l’oro di Mosca”.

L’altro problema che questa impostazione filologica e rigida pone è che il Berlinguer di Germano non ha mai un dubbio, né nella parte pubblica (cosa che vista l’aura del segretario ci può stare) né nella parte privata. Ora è improbabile che, per esempio, di fronte alla volontà di autonomia dei comunisti italiani rispetto a Mosca, non fosse altro che per il prestigio dei comunisti sovietici agli occhi di chi aveva vissuto la Rivoluzione di Ottobre e la sconfitta del nazismo, non venisse nella solitudine della propria cameretta il dubbio di aver fatto la cosa giusta. Dubbio che in un’opera di fiction poteva ben essere rappresentato, rendendo più completo, più umano il personaggio. E invece anche il Berlinguer/Germano privato risponde sempre fermamente ai dubbi dei figli difendendo la propria posizione, pur “senza perdere la tenerezza”.

È questa la parte del film in cui il rischio agiografico non viene del tutto risolto ed è un peccato perché il film complessivamente si muove bene, non appare un prodotto pensato per la generazione dei “berlingueriani” (e dunque creato per l’effetto nostalgia) ma molto di più per chi Berlinguer non l’ha conosciuto e ne racconta la fase cruciale più innovativa e coraggiosa. Per questo non hanno senso le critiche come quella di Giuliano Ferrara sul Foglio di una passione per Berlinguer in quanto “perdente di lusso”. Quantomeno per questo film tale critica non si pone perché Segre, a mio avviso intelligentemente, sceglie di raccontare il Berlinguer che non si è ancora “spento” quello che avrebbe potuto farcela, seppur nel film la responsabilità della sconfitta non sia mai, nemmeno in parte, sua ma sempre di agenti altri: dalle BR, ai Russi o agli americani.

Scegliendo però l’arco narrativo 1973-1978 Segre si sottrae al giudizio storico su Berlinguer: la deriva “morale” dopo il fallimento del compromesso storico e la lunga apnea del PCI negli anni ottanta che la prematura morte nel 1984 sottrarrà al pensiero e all’azione di Berlinguer.

In questa sospensione temporale e di giudizio il film consente quindi, magari anche furbescamente, di non doversi esprimere, lasciando allo spettatore e alla sua inclinazione di declinare quello che dopo accadrà, limitandosi, si fa per dire, a una ricostruzione didascalica di un’intuizione, di un’azione e di un primo risultato negativo.

Non mancano infine alcune chicche della politica politicienne come dicono i francesi, come quando Berlinguer giubila Cossutta da responsabile dei rapporti con Mosca promuovendolo agli enti locali o quando spiega a Ingrao, il dirigente più critico alla politica di governo con la DC, che l’accordo con Moro aveva come primo risultato la presidenza di una camera per i comunisti e che il nome che il PCI avrebbe fatto era proprio quello di Ingrao. Inquadrando quindi il “grande idealista” nel contesto della sua professione di segretario e non “solo” di pensatore, raccontandoci che la politica era fatta da persone di livello, di pensiero ma anche di mestiere. Ed è anche questo uno dei meriti, non marginale, del film.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 551 del 2 novembre 2024

Tra Roma e Mosca, le tante sfaccettature dei comunisti italiani

Il percorso del Partito Comunista Italiano dalla sua nascita a Livorno nel 1921 fino alla sua fine nel 1991 ha sempre rappresentato un unicum di difficile collocazione nella storia del comunismo mondiale. Anche se questa “diversità” è stata fortemente narrata dal gruppo dirigente di quel partito, soprattutto a partire da secondo dopoguerra e nella fase di ricerca del “compromesso storico”, è indubbio che molti caratteri originali abbiano attraversato la storia del PCI.  

Questo vale anche (e forse soprattutto) nel campo delle relazioni internazionali ed in particolare nel rapporto con Mosca che Silvio Pons indaga in un bel volume “i comunisti italiani e gli altri”. Il lavoro di Pons parte dalle origini per mostrare i caratteri prima di ammirazione per quello che accade in Russia dal 1917, da parte sia del gruppo torinese dell’Ordine Nuovo di Gramsci e Togliatti, che da quello napoletano di Bordiga; per passare poi agli anni del fascismo, del gruppo dirigente a Mosca che sopravvive meglio di altri esuli, l’esperienza allineata a Mosca della guerra di Spagna e poi il ritorno in Italia dopo il 25 luglio del 1943. A partire da allora le differenze con Mosca si ampliano non tanto nella scelta della svolta di Salerno (processi analoghi di partecipazione dei comunisti ai governi di unità nazionale avvennero infatti anche in Francia e Belgio in ossequio ad una linea decisa e condivisa da Stalin) ma nella costruzione del partito massa a partire dallo statuto uscito dal congresso di Firenze che vedeva cadere la “pregiudiziale” marxista per aderire al PCI. Un modello organizzativo che, per gli italiani, rappresenta anche una garanzia di indipendenza (in potenza anche economica) da Mosca.

Posizioni, quelle italiane, che portarono poi alla reprimenda che Jugoslavi e Polacchi inflissero agli italiani prima di finire, i primi, a rappresentare la maggiore eresia del comunismo europeo. Un’eresia con la quale il PCI non chiuse mai i rapporti ma che anzi usò per affermare la propria autonomia da Mosca e per affermare una propria politica estera nei confronti dei movimenti di liberazione coloniale che si andavano sviluppando.

Certo nel rapporto travagliato tra Botteghe Oscure e Mosca mai si arrivò alla rottura, mai si sconfessò del tutto la patria del socialismo. Anzi si appoggiò convintamente l’invasione Ungherese del ’56, mentre la sconfessione di quella Ceca del 1968 non comportò mai un’abiura del socialismo reale. Anche Berlinguer che fu il più netto a prendere le distanze da Mosca, ipotizzava una terza via tra socialdemocrazia e soviet ma senza sconfessare il valore della rivoluzione. Questa aveva perso la spinta propulsiva ma non era da tutta da buttare e il gruppo dirigente italiano continuava a proporsi non in rottura con l’esperienza russa ma come portatore di un contributo, primariamente intellettuale, alla riforma del socialismo reale. A partire dall’inserimento di processi democratici e del riconoscimento del dissenso.

Un ruolo da guide intellettuali che l’ultima fase sovietica, quella di Gorbacev, riconoscerà al PCI ma che non avrà modo di svilupparsi (ammesso e non concesso che vi fossero spazi di riforma in un tale sistema) per il rapido crollo dello spazio delle democrazie popolari e dell’URSS stessa.

Tutto questo è raccontato nel libro di Pons con rigore e seppur privilegiando il punto di vista degli italiani, senza dimenticare i ritardi, le incoerenze e gli errori che tutti i gruppi dirigenti comunisti nazionali incontrarono. Il quadro che emerge è quello di un’assoluta continuità, almeno dal 1945 in poi, di una certa “furbizia” e di un’alta considerazione della propria elaborazione intellettuale da cui derivava un’alterità che, fino alla deriva morale dell’ultimo Berlinguer, era ancorata ad un disegno politico concreto che fu capace, sul piano interno, di orientare anche la politica estera italiana e di dialogare con i governi democristiani favorendo la politica del paese nel mediterraneo e nel medio oriente.

Infine il PCI fu, a partire da Berlinguer, capace di cambiare idea rispetto alla Comunità economica europea andando oltre la propaganda e la visione critica moscovita, immaginando Bruxelles come uno spazio tra i due blocchi e capace di dialogare con il cosiddetto terzo mondo in modo autonomo rispetto a Washington e Mosca. Un percorso che con l’eurocomunismo, il riconoscimento del valore dell’atlantismo e la fine della spinta propulsiva rende maggiormente coerenza al percorso del compromesso storico e della ricerca della partecipazione al governo del PCI, facendo apparire, aldilà dei giudizi su quell’esperienza, parte di un percorso politico coerente di ricerca di una via democratica al socialismo.

Una via che fu largamente incompleta, non capita dalle socialdemocrazie europee, non solo dal PSI italiano comprensibilmente preoccupato della competizione elettorale del PCI, ma nel caso dell’SPD o dei partiti scandinavi limitato dalla pregiudiziale anticomunista.

In definitiva il libro di Pons rende giustizia ad un percorso complesso e aiuta a comprendere le tante complessità e contraddizioni di un partito che fu di massa ma con a capo un élite intellettuale e consapevole.

Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel modo del novecento, Einaudi 2021.

Articolo uscito su Cultura Commestibile, n. 467 del 45 novembre 2021

“Quando il mondo intero tremava al rumore dei nostri razzi”

Dal trailer dela serie For All Mankind – AppleTv+

Pochi anni fa è uscita una serie Tv – in onda su Apple TV – che si apre con le immagini della discesa, nel luglio del 1969, da parte del primo essere umano sulla Luna. Un sovietico.

La serie, For All Mankind, racconta una storia distopica della corsa nello spazio, tra USA e URSS, in cui il vantaggio iniziale dei Sovietici, conquistato con lo Sputnik, Laika e Gagarin non fosse stato recuperato dagli americani ma anzi fosse incrementato ancor di più dallo sbarco sovietico sul satellite terrestre.

Finzione a parte, pochi oggi ricordano o conoscono, quanto sullo spazio si sia giocata una parte, non certo trascurabile, del confronto tra superpotenze nella cosiddetta guerra fredda. Un confronto che ebbe luogo anche da noi, il paese con il più potente partito comunista dell’occidente, che dunque visse quella stagione riproponendo, sui giornali e nella politica quel confronto.

Un confronto che, nella fase iniziale, continuava ad alimentare il mito dell’URSS anche da noi, come esperimento vittorioso di costruzione di un mondo nuovo, capace di vincere il nazismo prima e conquistare lo spazio poi.

Il progresso tecnologico sovietico, era dunque visto come conferma della supremazia del socialismo e della sua inevitabile vittoria dalle colonne de l’Unità o di Rinascita, mentre veniva visto come pericoloso e minaccioso dalla stampa democristiana o comunque legata all’alleanza con gli USA.

I missili che solcavano i cieli erano dunque un segno di progresso per una parte, non trascurabile, del Paese e un pericoloso presagio di Apocalisse (se pensati come vettori di testate nucleari) per l’altra Parte.

E’ questo il contesto in cui Stefano e Marco Pivano, collocano il loro I comunisti sulla Luna, un libro che affronta, in due parti, la corsa per lo spazio, vista dal nostro Paese. Se la prima parte è un racconto dell’influenza delle conquiste spaziali sovietiche in Italia, con alcuni divertentissimi cascami sul mito tecnologico sovietico che porta, soprattutto militanti, a credere che un Paese che invia il primo uomo sullo spazio sia in grado di produrre anche auto e trattori altrettanto avanzati (spoiler, non sarà così); la seconda parte del libro è un racconto di storia della scienza che sta dietro gli iniziali successi e l’incapacità successiva di reggere il confronto con il modello scientifico statunitense. In grado di primeggiare non solo per capacità di spesa, ma per meriti legati alla collaborazione e la fiducia che erano più difficili da ottenere in URSS anche rispetto al propellente dei razzi.

Un libro piacevole, a tratti divertente, certamente divulgativo e capace di incuriosire rispetto a un piccolo pezzo della storia del nostro paese e del confronto, politico e sociale, in corso tra i due campi e che ha segnato le storie di molti.

Stefano Pivato, Marco Pivato, I comunisti sulla Luna. L’ultimo mito della Rivoluzione russa, il Mulino, 2017.

Apparso su CulturaCommestibile, n. 430 del 15 gennaio 2022

Un giallo per raccontare la guerra a sinistra negli anni ‘80

È tornato, dopo “La provvidenza rossa” Lodovico Festa e il suo detective probiviro comunista Cavenaghi per un altro giallo ambientato nella Milano Rossa. È uscito dunque, sempre per Sellerio, “La confusione morale” ambientato questa volta nella Milano degli anni ’80, quella in cui il PCI litigava con Craxi a livello nazionale ma governava con i socialisti nella capitale lombarda con la giunta Tognoli (Bagnoli nel libro). Ed è proprio questa dualità, questa alterità del comunismo meneghino la vera protagonista della storia. Come nel primo libro o forse ancor di più, l’intreccio noir e poliziesco sono un pretesto. Ne la provvidenza rossa era il pretesto per raccontare il mondo parallelo dei comunisti milanesi rispetto ad una società “secolarizzata” che li escludeva e da cui si autoescludevano. In questa seconda opera l’alterità è tutta fra compagni: tra quelli che vorrebbero inseguire la modernità del riformismo craxista e quelli, romani in larga parte, che lo vogliono contrastare trascinati dalla “questione morale” che Berlinguer, appena scomparso nella narrazione, aveva lanciato. A differenza però del primo volume, l’autore qui prende decisamente parte, schierandosi con i riformisti milanesi, e nel farlo da un lato (anche per esigenze narrative) traccia confini tropo netti tra i due campi ma soprattutto, conoscendo come andranno i fatti (per sé e per il PCI) dà ai compagni riformisti doti di preveggenza un po‘ troppo ampie, soprattutto per quanto riguarda cosa sarebbe accaduto in URSS dopo il 1989. Eppure, il libro rimane godevole, proprio per l’analisi di quella frattura tra le due sinistre che si compì in quegli anni, e per come “mani pulite” sarebbe nato e sviluppatosi. Anche in questo caso, l’autore forza un po’ la mano, e traccia una linea troppo netta, un destino ineluttabile, alla saldatura tra ambienti della magistratura e una parte, importante, dell’apparato comunista. Quello che è del tutto assente è il giudizio sul PSI di quegli anni, lasciato troppo sullo sfondo, concedendo troppo alla tesi assolutoria del craxismo costretto a determinate azioni, politiche e non soltanto politiche. Altrettanto godibile è il fatto che i personaggi seppur mascherati da nomi fittizi siano altamente riconoscibili e credibili, nonostante qualche dialogo un po’ troppo protocollare; così come la ricostruzione dell’ambiente milanese rimane la parte migliore dello scrivere di Festa, insieme alla descrizione dell’urbanistica e dell’architettura milanese, che già si intravedeva nella prima opera. Meno accurato – come nota Giuliano Ferrara recensendo il libro su il Foglio – nel ricostruire le vicissitudini della sinistra milanese di quegli anni il fatto che per tutto il libro nessun comunista non scopi mai; col risultato che da un lato ci si assolve per l’aver peccato coi craxiani e contemporaneamente ci si assolve pure dai peccati della carne.

Articolo apparso su Cultura Commesibile n. 304 del 13 aprile 2019

La Milano dei Rossi

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La provvidenza rossa è come un universo parallelo che si srotola nella Milano del 1977, un universo in cui al normale vivere della città si contrappone, parallelamente convergente, un mondo regolato dai riti del Partito Comunista Italiano. Uno Stato nello Stato che replica le strutture della società borghese nei suoi pregi e nei suoi vizi. Questo mondo parallelo è il principale pregio di “la provvidenza rossa”, giallo di esordio di Lodovico Festa, che fu comunista milanese negli anni narrati nel libro. Un libro in cui il noir serve da alibi alla narrazione della vita comunista, dove la pervasività del mondo rosso si snoda tra personaggi al massimo bidimensionali che in realtà sono spesso solo maschere delle loro organizzazioni siano esse il Partito, la Lega delle Cooperative, il Sindacato (ovviamente la CGIL) o l’Arci. Un mondo non autosufficiente ma che dalla società borghese trae più che donare; un mondo capace di regolarsi da solo, quasi soffocante per i suoi iscritti che trovano in esso tutto, lavoro, divertimenti, famiglie, amori; seppure nella variante meneghina non arrivi ai tratti dominanti del comunismo emiliano. Mondi raccontati sinora o da storie sociali, come il magnifico “Maison Rouges” di Marc Lazar, o dal sarcasmo musicale di pezzi come “Robespierre” degli Offlaga Disco Pax. Quello di Festa è invece un libro, un romanzo, che ci riporta in un mondo che non c’è più ma che conserva traccia di sé nei profili degli ex militanti rossi, e in alcune prassi politiche che ci appaiono oggi tristemente ininfluenti nel mainstream populista e personalistico della politica dei leader. Invece nella Milano rossa di festa, il protagonista è il collettivo, pur se l’autore ci fa intravedere il futuro (non radioso) che si avvicina: quella Milano da bere, che sta appena scaldando i motori. Una Milano che è l’altra grande protagonista. Una città raccontata con amore, seppure di una città che non c’è più si tratti. La consolante Milano borghese, le cui architetture sono raccontate con più dettagli dei protagonisti, persino quando le architetture sono quelle razionaliste del ventennio. Una Milano che si ricostruisce e si riscatta nell’azione del Partito e nelle sue architetture non ancora appannaggio di archistar, una Milano in cui noi contemporanei forse fatichiamo a immaginare quanto abbia contato la sinistra (non solo comunista) e quanto popolo riuscisse a organizzare intorno a sé. Festa scrive questo libro con l’affetto della sua giovinezza alla quale concede però una lingua troppo da relazione al comitato centrale, soprattutto nei dialoghi, e che lo costringe a una nota finale ed a un artificio narrativo di cui non si sentiva il bisogno. Ma il pregio del realismo della vita e delle prassi comuniste ripagano ampliamente il lettore, soprattutto quello che seppur in un’altra epoca molto successiva e in altri contesti, si è trovato ad essere “l’uomo della federazione” o ad aver comunque vissuto all’interno del vasto mondo comunista e post comunista italiano. Altro grande pregio del libro è che l’autore non riversa nella storia il proprio giudizio sul PCI, un giudizio che lo porterà ad altri lidi e alla vicedirezione de il Foglio, ma anzi pare riacquistare il fuoco della passata militanza, soprattutto quella amendoliana, conservando per ingraiani e berlingueriani (ma anche per il migliorista Napolitano) le frecciate più acute.

Articolo apparso sabato 4 aprile 2016 su CulturaCommestibile n. 164

Perché il PD di Barca potrebbe non dispiacere a Renzi

barca e il sol dell'avvenire

Articolo apparso su Corriere Nazionale – Qui Firenze il 10 maggio 2013.

Con il pubblico che lunedì sera affollava il teatro Puccini per ascoltare Fabrizio Barca si sarebbe tranquillamente potuta convocare la direzione degli ultimi Ds fiorentini se non dell’ultimo PCI; sicuramente del PDS. Un pubblico ancora confuso dalla non vittoria elettorale, dal crollo di Bersani e dal governo Letta. Si trattasse di aderenti al PD o a SEL emergeva un bisogno, sintetizzato dal padrone di casa Sergio Staino, di un partito compiutamente di sinistra. Come questo si concili con quanto scritto e affermato dallo stesso Barca anche lunedì sera, non è molto chiaro. Barca infatti, molto onestamente, non ha mai dichiarato né di voler cambiare la natura del PD né proposto la nascita di un soggetto a sinistra confluendo magari nell’ennesimo cantiere proposto da Vendola. Quello che si propone Barca è di fornire un contributo al PD per definirne meglio la propria identità o almeno l’identità della sua componente di sinistra. In questo senso la collaborazione con Renzi, da parte di Barca, non appare episodica o tattica ma si basa sulla convivenza di tre grandi famiglie politiche nel rinnovato PD (i socialcomunisti, i liberaldemocratici, la sinistra democristiana). Il grande rischio di tale ipotesi, almeno a parere di chi scrive, è la cristallizzazione delle famiglie politiche, impedendone di fatto il superamento e la nascita di un soggetto politico veramente nuovo, e una divisione dei compiti in cui le famiglie democristiana e liberal democratica governano il Paese e le Istituzioni mentre la tradizione socialcomunista il partito. Un film già visto in questi anni che non ha portato benissimo alla componente di sinistra del PD.

Tra Papi Silvio e Mamma DC

 

 

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 13 ottobre 2011

Tempi duri quelli del segretario PdL Angelino Alfano, l’uomo che più di altri dovrebbe mettere in crisi i sociologi dell’antiberlusconismo: bruttino (sia detto con rispetto), pochi capelli, accetto marcato e tempi del parlare non certo televisivi. Insomma tutto il contrario di quello che ti aspetteresti come delfino del berlusconismo; il che dimostra, ancora una volta, che Berlusconi è molto di più di quello che ci aspettiamo da lui o della caricatura che i suoi nemici di professione ne hanno fatto in questi anni, quasi a sorta di polizza della di lui vita politica.

Ma Alfano se è figlio (politicamente s’intende) di Berlusconi ha però come mamma la buona e vecchia DC dalla cui storia e affiliazione egli proviene. E per giunta dalla DC siciliana di cui era segretario giovanile ad Agrigento. Dunque ci immaginiamo la difficoltà del delfino a barcamenarsi tra la fedeltà a Silvio, che oltre ogni pronostico lo ha nominato erede, e quel movimento di ex che tra Pdl, Pd e terzo polo punta a rimischiare il campo e definire un nuovo soggetto per il dopo Berlusconi.

Un nuovo soggetto a forte vocazione centrista a cui paiono lavorare tanti ex della prima repubblica: dai democristiani Scajola e Formigoni, ai socialisti Sacconi e Brunetta per il Pdl, il sempreverde Casini per il terzo polo e il democristiano di sinistra Fioroni sul lato PD. Spettatori interessati della partita Tremonti e Veltroni (il quale ha capito probabilmente che l’attuale assetto e la sopravvivenza del PD non prevedrebbe un suo ruolo da protagonista all’interno dello stesso) e grande vecchio dell’operazione Beppe Pisanu.

Fantapolitica probabilmente ma forse un’ipotesi di lavoro sulla quale si giocano le molte ambizioni dei tanti che si sentono pronti a raccogliere la sfida del dopo-Berlusconi.