L’uccellino Italia e la volpe BCE

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 6 ottobre 2011.

La pubblicazione della lettera che la BCE ha inviato all’Italia mi ha ricordato la storiella dell’uccellino che cade nel nido e viene messo al calduccio nel fresco sterco di una vacca per poi esserne tolto dalla volpe per mangiarselo; con la morale che non sempre chi ti toglie dal letame lo fa per il tuo bene.

La ricetta infatti di Draghi e Trichet è infatti la ricetta che piace alla BCE, cioè a quell’organismo che ha per statuto la difesa dell’Euro e del sistema finanziario legato a questo. Non ha per compito quello di definire politiche economiche, linee di sviluppo e men che meno la sostenibilità sociale dei Paesi dell’Europa.

Se letta attentamente infatti quella lettera suggerisce misure tipicamente liberiste  che risentono fortemente dell’ideologia mercatista che in questi ultimi venti anni è stata egemonica e che, però, è in buona parte, anche causa della crisi che viviamo. Un‘ideologia che non è automaticamente di destra ma che può essere (ed è stata) declinata anche a sinistra talvolta con buon profitto.

Naturalmente il nostro governo ha pensato bene di non far niente o quasi di quanto scritto nella lettera, nonostante a parole si professi debitore di quell’ideologia e liberale oltre ogni dove. La verità è che lo stato dell’attuale maggioranza è tale che chi ha capito cosa quella lettera diceva non ha modo e potere di attuarla mentre il restante pezzo (maggioritario) o non l’ha capita o ha altri interessi ben più spiccioli a cui pensare.

Nemmeno stupisce la reazione contraria delle forze delle forze a sinistra del PD: da quelle parti si porta avanti, talvolta con convinzione molto spesso per moda, un ragionamento sulla felicità della decrescita e del non-sviluppo che, quando fatto dignitosamente, pone un modello alternativo a quello pensato dai vari Draghi e Trichet.

Quello che invece colpisce è la reazione delle forze che si dicono riformiste. Basta pensare che il povero Fassina, responsabile economico del PD, per aver mosso qualche critica alla lettera è stato subissato di critiche da buona parte del suo partito che, evidentemente, rimane succube del modello neoliberale. Niente di male si potrebbe dire se non fosse che, di quel modello, o se ne prendono pezzetti alla bisogna (l’amore per il primo blairismo, la nuova razza padrona del D’Alema a palazzo Chigi, ecc…) per poi scaricarli con eguale facilità, applicandolo solo alla convenienza immediata mantenendo però in vita comportamenti, azioni e proposte di segno completamente opposto.

E stupisce ancora di più che di fronte a esponenti dichiaratamente debitori di tale ideologia, Matteo Renzi per tutti, che ne portano avanti coerentemente e (dal loro punto di vista) giustamente le idee facendone discendere proposte politiche,  chi li avversa e dice, a parole, di proporre un modello alternativo oppure una loro declinazione più legata alla coesione sociale e all’eguaglianza, non apra su questo un vero confronto e una riflessione. Unico modo, peraltro, per risolvere il problema dell’identità e del futuro del partito.

Chi quindi nutre ancora una qualche speranza di potersi ritrovare in un pensiero riformista, socialdemocratico deve ancora attaccarsi all’apporto di grandi vecchi che continuano a riflettere, come faceva ieri su La Repubblica, Giorgio Ruffolo e spera davvero che il rinnovamento generazionale sia magnanimo almeno con loro.

Se Matteo lanciasse Emma

dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 settembre 2011

Scriveva l’Ariosto: “forse era ver, ma non però credibile / a chi del senso suo fosse signore”. E così pare accadere in queste settimane a Matteo Renzi quando, intervistato per ogni dove, dichiara che prima di candidarsi alle primarie del centrosinistra preferirebbe trovare qualcuno di più adatto, preferibilmente una donna. Se dunque volessimo dar ragione al poeta e inseguire il vero celato dall’inverosimile, dovremmo iniziare a pensare che il Sindaco di Firenze abbia già in mente una donna pronta a guidare il Paese nei prossimi anni, non legata all’establishment democratico (e politico in generale), dinamica e capace di un agenda di riforme in sintonia con la rottamazione renziana.

Seguendo tali tracce non potremmo che imbatterci in Emma Marcegaglia. Non politica, dinamica, in allontanamento palesemente sonoro dal centrodestra e da Berlusconi; capace di calamitare su di sé le aree liberal dei democratici e i montezemoliani ben felici di superare così il ben poco appeal che il loro candidato perenne  suscita fuori e dentro il palazzo e probabilmente rispondente agli standard di moralità indicati dai Vescovi.

Appare dunque più chiaro forse, il senso dell’iniziativa dei giorni scorsi che proprio a Firenze ha visto l’intervento più politico della presidente di Confindustria, giocato di sponda con quel Mussari, presidente ABI e MPS da sempre perno della finanza rossa DS prima e democrat oggi e che ha avuto come padroni di casa i fratelli Bassilichi da sempre legati a Renzi e tramite di questo col mondo senese.

Infine come dimenticare il legame tra il presidente dei giovani industriali, il fiorentino Morelli, e il giovane Sindaco; legame che si data dai tempi della presidenza della provincia da parte di Renzi. Ed è proprio il presidente dei giovani industriali uno dei suggeritori più ascoltati della Marcegaglia come dimostra l’insistenza sul sistema pensionistico a favore dei giovani che la presidente di Confindustria cita quasi ad ogni intervento.

Una comunanza di programmi che si sposa benissimo con quelle che il tink tank montezemoliano elabora da diversi mesi, grazie a esponenti provenienti in larga parte dalle aree più dinamiche del partito democratico veltroniano e che fa spesso rima con le proposte immaginifiche di Renzi.

Certo rimane un punto non di poco conto. Marcegaglia sarebbe perfetta per guidare un partito o forse anche un’alleanza di centro, ma sarà pronta la sinistra italiana a farsi guidare dalla presidente di Confindustria?

Dietro a quella facciata c’è molto di più.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 4 agosto 2011.

La vicenda del rifacimento della facciata della basilica di S. Lorenzo sollevata dal sindaco Renzi ha un altro aspetto, oltre a quelli artistici culturali, da non sottovalutare. Sui primi le sorelle Marx di sabato scorso sulla prima pagina dell’inserto di questo giornale, Cultura Commestibile, han già perfettamente detto, sul secondo forse è il caso di spendere ancora qualche parola.

Il tema è quello del referendum per decidere se procedere o meno al rifacimento della facciata o più in generale se Firenze sia patrimonio disponibile dei soli fiorentini o sia dato a questi in custodia per tutti gli altri. Lungi da me invischiarmi in un dibattitto procedurale sulla liceità dello strumento, sulla titolarità di sindaco e comune e tutte le beghe da costituzionalisti che son solite accompagnare questi dibattiti in Italia. Quello che a me interessa è il metodo politico che tale impostazione presenta.

Ancora una volta Renzi dimostra di non aver bisogno dei corpi intermedi, dei soggetti di rappresentanza degli interessi: la sua legittimazione popolare gli è sufficiente per rapportarsi al popolo per il popolo. Tuttalpiù questi soggetti possono tornare utili, se alleati, nella mobilitazione e nelle eventuali campagne; se inutili possono essere sostituiti da strutture più snelle e più riconducibili all’obiettivo. In fondo così ha legittimato (e vinto) la propria azione politica prima nelle primarie, poi con le liste civiche a suo sostegno e successivamente nella sua azione amministrativa.  Un’azione di rottura e di scardinamento dei vecchi schemi che la città, ingessata da troppi anni, ha dimostrato di apprezzare e che ha contribuito certamente a smuoverla e a rinnovarla.

Tuttavia in questo caso si parla di un’operazione che non consente retromarcia e soprattutto che tocca un aspetto che, ripeto, riguarda solo in parte i Fiorentini. La logica del bene è mio e lo gestisco io, in particolare nei beni artistici, ha limiti che qualche secolo di politica liberale ha conferito (almeno nell’Europa occidentale) a poteri non elettivi, tecnici, per sottrarli, all’inevitabile bisogno di ottenere consenso da parte dei poteri politici. Certo questo ha in molti casi ingessato alcune cose ma ha anche consentito di preservare centri storici e monumenti inestimabili. Dire oggi che le sovrintendenze sono orpelli inutili che non devono occuparsi di questo (tanto varrebbe allora dire che non debbano proprio esistere) non è, almeno in questo caso, una battaglia di rinnovamento del Paese ma mostra piuttosto una volontà di non aver freni e contrappunti al proprio operare.

 

Grand. Uff., Lupett. Mann.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 21 luglio 2011

Maria Antonietta pare ebbe a rispondere a chi la informava che il popolo non aveva il pane: “che mangino  le brioches”; qui da noi al popolo che viene chiamato in ogni modo a sacrifici e costi, tra manovre, tassi dei mutui e investimenti che valgono ogni giorno meno, non si offre nemmeno un cornetto. Di tagli alla politica ognuno parla e poi, quasi tutti, rimandano o pontificano di quello che dovrebbe fare il vicino ma poi in casa propria nulla o poco si muove.

 Anche a Firenze il dinamico Renzi propone, come dice lui da anni, il dimezzamento dei parlamentari e consiglieri regionali ma nulla dice sul dimezzamento degli incarichi dei suoi consiglieri comunali. Vicenda sulla quale il giovane segretario del PD Mecacci vuol veder chiaro. Nobile intento e prassi assai apprezzabile ma che speriamo porti velocemente anche a qualche esito. Peraltro Mecacci avrebbe sulla questione tutto da guadagnare in termini di visibilità e autonomia politica e sicuramente metterebbe in sintonia il PD col suo elettorato e buona parte della sua base.

Ma viviamo tempi complicati dove non solo Cesare ma persino l’autista di Cesare, deve essere specchiato e dunque l’auto con cui viaggia il segretario regionale del PD, auto piuttosto performante non c’è dubbio ma pagata dal partito e non dalle istituzioni, diventa tema di confronto politico decisamente inelegante all’interno degli stessi democratici. Certo ha vita facile la polemica in un partito che tiene in garage l’Audi e licenzia al primo piano i dipendenti.

Nel frattempo il solito Renzi da’ di Fantozzi ai propri dipendenti perché fanno la fila al badge confrontandoli con quelli di Google che il badge non l’hanno proprio e hanno persino la parete per l’arrampicata. Magari potrebbe provare a montare simile attrezzo anche nel cortile della dogana per vedere se aumenta la produttività degli stessi e rimuovere anche lui il badge. Naturalmente i dipendenti non l’hanno presa bene ma in molti hanno risposto con l’ironia modificando la propria foto del profilo Facebook con quella dei ragionieri Fantozzi e Filini e, per le donne, con l’immortale signorina Silvani. Inutile dire che ruolo sia toccato a Renzi: “Duca Conte, Lupett. Man., …”

Nel Pd facebook contro ficattole

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 7 luglio 2011.

Sono passati quasi tre anni dalle primarie fiorentine ma il PD locale non pare aver ancora metabolizzato quel passaggio. Quella che semplicisticamente sui giornali viene spesso descritta come una lotta tra renziani e antirenziani nasconde in realtà una diversa visione della politica e del rapporto di questa con la società.

Da una parte, volendo semplificare parecchio, c’è una parte del PD fiorentino, quella più legata alla tradizione dei vecchi DS, che considera quelle primarie e Matteo Renzi un accadimento temporaneo, un anomalia che prima o poi terminerà e tutto tornerà, se non proprio uguale, molto simile a prima. Dall’altra parte, quella meno legata ai vecchi partiti, assistiamo a una specie di fervore iconoclasta tutto volto all’innovazione, al nuovo e al superamento (spesso acritico) di quelle che una volta avremmo chiamato strutture e sovrastrutture.

Ficattole contro Facebook se vogliamo trovare un immagine anche delle polemiche di questi giorni tra partito “tradizionale” e Officine democratiche. Eppure se una cosa poteva insegnare l’esperienza di Matteo Renzi era che i due aspetti potevano e dovevano trovare una sintesi. Per il momento la sintesi il solo ad averla trovata è stato proprio l’attuale sindaco che però (ed è difficile dargli torto) ha esercitato questa capacità sempre in ambito amministrativo e mai in quello partitico, neppure quando ne guidava uno.

Dunque ai democratici fiorentini sarebbe necessario, almeno a parere di chi scrive, pensare di trovare una sintesi non tanto in un uomo solo ma in un modo di intendere il partito, anche perché il modello di riferimento, sociale e politico, antecedente alle primarie non potrà mai tornare, mentre il solo efficientismo che si volge alla società civile, rischia di non essere sufficiente a una forza politica che intende governare per davvero e non solo fare accademia.

E’ proprio in tempi in cui la politica subisce il maggior discredito presso la pubblica opinione che i partiti avrebbero necessità di ripensare sé stessi per svolgere, di nuovo, un ruolo di portatori e mediatori di interessi collettivi in sintonia però con la società che si ambisce governare.

Le vie dell’acqua di Vendola e Renzi

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 30 giugno 2010.

In Puglia la remunerazione del capitale investito del 7% è un costo: quello che pagheremo ogni anno fino al 2018 sul bond in sterline pari al 6,92%”. A parlare è Fabiano Amati, assessore alle Opere Pubbliche della Regione Puglia commentando le decisioni dell’assemblea dell’Acquedotto Pugliese.  Scopriamo così che l’Acquedotto Pugliese, totalmente pubblico, paga di interessi sul prestito (invero preso dalla giunta Fitto di centrodestra) praticamente la stessa cifra (il 6,92%) della remunerazione garantita ai soggetti industriali privati (il 7%) che investivano, prima del referendum, in altre società di gestione delle acque.  Morale della favola? Nonostante la massiccia vittoria del sì al quesito sull’eliminazione della remunerazione del capitale non si prevede, né in Puglia né altrove, alcuna diminuzione delle tariffe. Anche perché, l’alternativa per restituire i soldi o alle banche che li hanno prestati o alle società che li hanno investiti è o l’aumento impositivo o l’aumento del debito pubblico. Dunque nemmeno Vendola, che tanto si è speso nella narrazione del ritorno all’acqua pubblica, si sogna di abbassare le tariffe. Tariffe che ha invece, negli ultimi anni, innalzato del 18% ed ha anzi appena approvato un piano di investimenti da 674 milioni di Euro che porterà l’indebitamento complessivo dell’acquedotto pugliese da 219 a 402 milioni di Euro, sui quali naturalmente,  pagherà gli interessi. Almeno dal punto di vista economico la gestione pubblica rispetto a quella privata non pare portare significativi miglioramenti per il cittadino/utente visto anche che l’utile di esercizio dell’Acquedotto Pugliese, di quest’anno, 37 milioni, andrà nelle casse degli azionisti (pubblici).

Singolare poi la giustificazione di Vendola a chi chiedeva perché non avesse detto queste cose durante la campagna referendaria: “nessuno me lo ha chiesto”. Un narratore a richiesta dunque, un po’ come i cantastorie siciliani che a seconda della piazza in cui si esibivano davano più enfasi nei loro “cunti” alla battaglia tra paladini o alla storia  d’amore tra questi e le belle principesse.

Una soluzione alternativa per la ripubblicizzazione dell’acqua arriva invece dal sindaco di Firenze Matteo Renzi. Una holding dei servizi che si quoti in borsa e con il capitale raccolto ricompri le quote di Acea in Publiacqua.  Il progetto, bisogna ammetterlo, può avere un senso:  un’unica avvertenza non è una cosa immediata.  Il sindaco ha parlato di sei mesi per la creazione della holding finanziaria, un tempo non impossibile per la nascita della holding stessa, che però è ben lungi dalla sua possibile quotazione in borsa visto che i requisiti della CONSOB richiedono almeno 3 anni di bilanci oltre al fatto che l’attivo e i ricavi non devono essere per la maggior parte rappresentati da partecipazioni in altre società.

Nel frattempo, si spera, il Parlamento avrà legiferato per superare il vuoto normativo derivante dal referendum e evitare così che le nostre amministrazioni continuino ad affogare in un (carissimo) bicchier d’acqua.

Alemanno e Renzi; due sindaci due stili

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 7 aprile 2011

Due sindaci due stili. Il primo è il Sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Come sindaco ha sempre costituito la città parte civile nei processi che si sono aperti e che riguardavano l’urbanistica. E lo ha fatto nonostante in quei processi fossero implicati ex amministratori, dirigenti e funzionari dello stesso comune.  Una scelta di tutela della città, saggia, di fronte a ipotesi accusatorie che, se provate, dimostrerebbero un danno reale e pesante per la città. Naturalmente, giova sempre ricordarlo, i processi sono in corso ed è tutta da dimostrare la tesi accusatoria della procura come prevede saggiamente il codice.

L’altro sindaco è quell’Alemanno, riconquistatore per la destra del Comune di Roma, dopo i mandati di Rutelli e Veltroni. Ieri all’apertura del processo sugli appalti per i mondiali di nuoto il Comune di Roma non si è costituito parte civile. E ciononostante le ipotesi accusatorie della Procura romana parlino di diversi milioni di euro sottratti alle casse dello stesso comune. Anche in questo caso totale presunzione d’innocenza nei confronti dei 33 imputati, tuttavia ci si sarebbe potuti aspettare un principio di precauzione da parte del Comune e dei soldi dei suoi cittadini.

E non è la prima volta che il sindaco Alemanno non “schiera” la propria amministrazione al fianco della magistratura. Era accaduto per esempio nel processo contro Don Ruggero Conti condannato recentemente in primo grado a 15 anni e 4 mesi per abusi su sette minori. Parroco che si era molto speso nella campagna elettorale dello stesso sindaco.

Ecco, tra le piccole e grandi differenze di intendere e praticare il mestiere di Sindaco, c’è anche questa e non ci pare che sia una cosa da poco.

P.s. Oggi sono anche su Labouratorio 2.0 con una lettera aperta al segretario generale delle Nazioni Unite a cui chiedo di invadere l’Italia.

Subalterni e contenti

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 marzo 2011.

La rivoluzione si sa, non è un pranzo di gala. Nemmeno quella, col sorriso, di Matteo Renzi a Firenze sfugge a questa regola, e se uno dei tratti più innovativi del nuovo corso è la messa in discussione delle vecchie liturgie dei partiti e delle istituzioni e un riacquistato rapporto diretto tra governati e governante, questo a giudizio di molti osservatori è avvenuto a spese dei partiti e delle istituzioni quali giunta e consiglio. Così assistiamo, aldilà della promessa elettorale, a una giunta di facce nuove sì ma incompleta da quasi un anno di un membro (peraltro di genere femminile) per l’avvenuta promozione dell’assessora Scaletti (IdV) al soglio regionale. Un anno è un tempo che, nella vecchia politica, sarebbe stato impensabile, oggi appare naturale, e nemmeno il partito “sacrificato” sbraita più di tanto e si accontenta di annunci di rimpasto fatti dal sindaco che assomigliano alla Tempesta di Shakespeare, di cui in tutto il dramma si parla ma in scena mai si vede.

Non appare difficile dunque che David Allegranti possa, nel suo bel libro su Renzi, descrivere un quadro della giunta (e più in generale del renzismo) fatto di Matteo Renzi e di consiglieri fedeli posizionati principalmente al di fuori dalle istituzioni e dai gruppi dirigenti dei partiti, e dunque se non sorprende che qualcuno possa essersi risentito di questa analisi, questi ultimi abbiano però confuso il cronista con l’agente.

Altra rottura della liturgia istituzionale appare anche la recente vicenda della presidenza del consiglio comunale che, dopo la nomina di Eugenio Giani a consigliere regionale, presenta un caso di triplo incarico per lo stesso: presidente del consiglio comunale, consigliere comunale e consigliere regionale.

Seppur disponibile a lasciare il primo dei tre incarichi, Giani, ha rimesso tale decisione alla volontà del Sindaco il quale  pare abbia rinviato il tutto al solito rimpasto.  Un mix di stili politici vecchi e nuovi che, a modesto parere di chi scrive, indebolisce ancor di più il consiglio comunale e rafforza l’immagine di subalternità di questo non più rispetto ai partiti ma al sindaco stesso. Si badi bene è un modello, che deriva dalla legge elettorale, che Renzi sfrutta benissimo ma che certo non è sua invenzione.

Questo però avviene anche perché, evidentemente, al consiglio (e in particolare ai consiglieri di maggioranza) tutto ciò alla fin fine sta bene, perché nel caso dei comuni essi avrebbero non solo la sovranità formale ma anche quella sostanziale essendo eletti con le preferenze e non nominati come, per esempio, i loro colleghi regionali.  Un tema che sarà bene che si tenga a mente quando si riproporrà la cosiddetta frustrazione dei consiglieri rispetto all’esecutivo.

Sul vagone dei rottamatori

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 novembre 2010 p.1

E alla fine il treno dei rottamatori è arrivato alla Stazione Leopolda, o per meglio dire da lì è partito. Sì perché tutto nella tre giorni fiorentina, dall’assenza dichiarata di programma alla non selezione di temi e interventi, era all’insegna dell’avvio, del movimento anche, forse, fine a sé stesso.

Una tre giorni iniziata senza relazioni introduttive ma conclusa da Matteo Renzi con un discorso che ricordava più un’introduzione che delle vere e proprie conclusioni. Grandi visioni, immagini, un repertorio di brillanti battute, temi evocati, sfiorati mai morsi per davvero, lasciati lì pronti per il prossimo appuntamento. Già perché scegliere oggi sarebbe equivalso a selezionare. Selezionare temi e proposte e anche qualcuno dei presenti, sopra e sotto il palco.

Evidentemente per Renzi non è ancora il momento, gli interessa più unire e consolidare il movimento e lo spirito di Firenze insieme alla propria indiscussa e inattaccabile leadership. Una leadership che Civati non può contendere, né oggi né mai, e infatti il consigliere regionale lombardo appare in tutta questa vicenda come uno dei personaggi dei film horror americani, uno di quelli che sai fin dalla prima inquadratura che non arriveranno in fondo al film.

Quello che ti colpisce della Leopolda è lo spirito. L’entusiasmo e la voglia di esserci e partecipare. E’ una bella sensazione, soprattutto nel vedere che è diffusa in ogni ordine e grado. Quello che colpisce è anche, per dirla con le parole di un caro amico, che ti aspetteresti una gran voglia di dare calci nel sedere e scopri una gran voglia di stringere le mani.

Un modo ben strano di iniziare una rivoluzione ma forse una garanzia per provare a finirla, visto come sono andate quelle con la rabbia addosso.

Non c’è rabbia nemmeno nel chiedere (chiedere e non esigere peraltro) il ricambio e la rottamazione nei molti interventi sul tema, l’unico forse realmente condiviso e digerito di qua e di la dal palco.

Per ora l’unico vero rottamato a Firenze è il veltronismo, con Renzi che si candida a occupare lo spazio dell’immaginario, del sogno. La prova nell’intervento di Giovanna Melandri a cui i due in consolle non avrebbero dovuto dare il gong alla fine dei 5 minuti ma tre canti del gallo.

Eppure tra Renzi e Veltroni qualche differenza corre. Non solo d’età. Di Veltroni possono non piacere tante cose (e a me non piacciono) ma quel che diceva ha provato a fare, rendendo azioni le parole spese, anche se discutibili e non sempre felici. A Roma si è inventato il festival del cinema, a Firenze abbiamo avuto il festival del gelato. Ha posto il tema del rinnovamento e ha portato in parlamento (certo con risultati non tutti felici) scrittori, ricercatori e imprenditori, a Firenze si chiama in Comune un dirigente neo-pensionato e non certo la precaria magari in attesa del posto della Finocchiaro.

Sul piano locale Renzi, consolida e certifica la propria egemonia nei confronti di amministratori e partito se il cuore degli interventi del segretario regionale Manciulli e del Presidente della Provincia Barducci sono, per il primo, “il rinnovamento lo stiamo facendo” e, per il secondo, che non serve il limite di tre mandati ma due sono addirittura troppi. Segno che il tema dei rottamatori non solo era giusto ma persino da perseguire e anticipare.

Ma anche a Roma, Renzi c’è e la tre giorni leopoldina, lo fa assumere a soggetto imprescindibile in quelle che saranno le dinamiche del PD del prossimo futuro, anche se la mossa di Gianfranco Fini di accelerare la fine del Berlusconismo rischia di giocare un brutto scherzo ai rottamatori, lasciando a Bersani e al gruppo dirigente nazionale l’onere delle scelte e delle decisioni e che soprattutto in caso di elezioni anticipate vedrebbero inevitabilmente il popolo democratico stringersi al proprio partito contro il centrodestra, diminuendo lo spazio per il dissenso.

Ma il treno è appena partito e crediamo che chi vi è salito e il suo conducente abbiano tutte le risorse, di capacità e di tempo, per giocare molte partite nel futuro.