Il partito radicale, come dimostra la storia dei suoi eredi negli ultimissimi anni, è stata (inevitabilmente) legata alla biografia del suo esponente più autorevole e ingombrante. La stessa diaspora radicale dopo la scomparsa di Pannella pare dimostrare a posteriori questa tesi ed è oramai impossibile capire (e forse è pure inutile) se l’ultimo Pannella fosse la maschera che celava e impediva la separazione o l’unico artefice di un programma e un destino politico comune. Gianfranco Spadaccia, che fu dirigente radicale e parlamentare per quel partito, ha pubblicato, poco prima della sua scomparsa, quella che ad oggi, a memoria di chi scrive, è l’unica storia “organica” del partito radicale. Un testo che non scade mai nella memorialistica ma non si dimentica mai di dichiarare la sua partigianeria, il punto di vista “interno” e “interessato”.
Anche per questo il libro, pubblicato da Sellerio, è un testo davvero importante, necessario si potrebbe dire, per inserire il percorso radicale non come la biografia di un uomo, per quanto eccezionale, ma come un percorso politico collettivo (seppur non di massa) che trae origine nella goliardia universitaria del dopoguerra, da “il Mondo” di Pannunzio e da quella piccola galassia laica fatta di azionisti, repubblicani e liberali di sinistra.
Un percorso che matura, si trasforma, assorbe come una spugna quello che di nuovo la società italiana fa affiorare.
Un percorso dall’esterno forse incoerente, sicuramente complicato, incredibilmente esteso per modi e interessi, scambiato spesso come protagonismo, eccentricità per attirare attenzione. Cose che pur presenti, nel racconto di Spadaccia riacquistano logica, senso, impegno, forse soltanto poca critica rispetto alle scelte, le battaglie intraprese e a quelle perse. Questo almeno fino alla fine della cosiddetta prima repubblica, quando le scelte radicali, di Pannella in particolare, paiono non chiare, non giuste fino in fondo all’autore. Eppure, radicalmente, in Spadaccia non c’è ripicca, rivincita ma anzi il dubbio che, come spesso gli capitava, Pannella avesse capito prima (e meglio) il tempo in cui viveva e a sbagliarsi fosse Spadaccia e chi scrive con lui.
Quasi pietosamente, Spadaccia si ferma al 2013 evitando di raccontare la fine di Pannella e dell’unità radicale. In fondo non avendo l’autore, dichiaratamente, l’ambizione dello storico riesco a capirlo e, da vecchio frequentatore collaterale dei radicali, anche a me, parafrasando il poeta, piace ricordarli com’erano, pensare che ancora vivono; e magari è proprio così.
Gianfranco Spadaccaia, Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia, Sellerio, 2021.
« Lombroso è un emerito coglione». Il compagno Ossipon sostenne l’urto di questa bestemmia con un impressionante sguardo vuoto. E l’altro, i cui occhi spenti e offuscati facevano apparire più nere le ombre profonde sotto la fronte ampia e ossuta, mugugnò, afferrandosi ogni due parole la punta della lingua fra le labbra come se la masticasse con rabbia: «Ma voi un idiota simile lo avete mai visto? Per lui, il criminale è il detenuto. Semplice, no? E quelli che lo hanno messo in prigione, che lo hanno costretto ad entrarvi? Proprio così. Costretto a entrarvi. e il crimine, che cos’è? Lo sa lui cos’è, quest’imbecille che si è fatto strada in questo mondo di idioti rimpinzati di cibo guardando le orecchie e i denti di un mucchio di poveri diavoli sfortunati? Sarebbero i denti e le orecchie a imprimere il marchio al criminale? Ma davvero? E la legge allora, che gli imprime il marchio ancora meglio, questo grazioso strumento per marcare a fuoco inventato dai supernutriti per proteggersi dagli affamati? Applicazioni col ferro rovente sulla loro pelle vile, eh? Non lo sentite anche da qui l’odore e il rumore della pellaccia del popolo che brucia e sfrigola? Ecco come si fabbricano i criminali, perché i tuoi Lombroso ci possano scrivere su le loro baggianate.»
E’ con questa riflessione sulla giustizia di Joseph Conrad tratta da “l’Agente segreto” che vi faccio i miei migliori auguri per queste festività e per il 2020. Un anno che in quanto a giustizia e potere si preannuncia preoccupante. Senza, per noi, nemmeno il conforto delle parole, della voce e dell’intelligenza di Massimo Bordin. Quanto manca ancora Direttore…
Accendere la radio, prima del solito, attendendo le note del
Requiem di Mozart nell’esecuzione di Von Karajan e i Berliner come al solito,
anche se oggi quel requiem ha un senso diverso; domandarsi a chi sarebbe
toccata la rassegna “che non avremmo mai voluto fare”. Probabilmente al
direttore, che infatti c’è ma in coppia, perché Alessio Falconio bravissimo
direttore di Radio Radicale sa che la voce potrebbe rompersi e quindi ha
chiesto – suppongo – di farsi
accompagnare da Roberto Spagnoli. I due iniziano a leggere; la notizia, l’unica
che daranno dalla lettura dei giornali, è quella che tutti noi sappiamo: ieri,
mercoledì 17 aprile, Massimo Bordin ci ha lasciati. Portato via da un tumore,
una malattia che aveva trattato con riservatezza, come tutte le cose della sua
vita. Mi trovo a piangere mentre i due leggono il ricordo dell’uomo che mi ha
svegliato per gli ultimi 15 anni, che mi ha fatto da faro nell’editoria e nella
politica italiana. Mi pare che se ne sia andato via lo zio bello (ché Bordin
era pure bello) e intelligentissimo, quello a cui avresti chiesto qualunque
consiglio. Nell’etere le due voci, emozionate, sofferenti, leggono le parole
dedicate a Bordin a partire da il Foglio, giornale dal quale dispensava una
rubrica, rapida, affilata, mai banale. Le parole di Adriano Sofri, Giuliano
Ferrara, Guido Vitiello, colleghi, amici, tutti nipotini lasciati spiazzati
dalla morte dello zio bello.
Nelle parole che lo ricordano, nei giornali, nei comunicati
delle istituzioni e dei politici, nei post dei semplici ascoltatori, c’è
emozione vera, sconforto e sofferenza, ammirazione. Tutti gli schieramenti si
ritrovano nel lutto, perfino Crimi, definito da Bordin Gerarca minore, quello
che si è issato a vessillo della morte dell’emittente per la quale Massimo è
stato bandiera e simbolo, sente il bisogno di esprimere cordoglio.
In un Paese che fa polemica su tutto, che si divide sulle
morti come sulla vita, per Bordin piovono lacrime tutte uguali e basterebbe
questo a far comprendere la grandezza dell’uomo. Chi non ho lo ha conosciuto
potrebbe pensare che fosse un paraculo e per questo tutti ne portano
simbolicamente il feretro a spalla, niente di tutto questo: se c’era un uomo di
parte questo era Bordin, di parte ma non fazioso. Talmente convinto delle sue idee
da tenere testa a Pannella, talmente galantuomo da dedicare più tempo alla
lettura delle idee a lui più distanti che a quelle a lui comuni. Magari
contrappuntandole con sospiri, qualche “vabbè” o quel “figuriamoci” che era una
sentenza di cassazione.
Oggetto di culto per un manipolo di adepti, una piccola coorte
che si autoproclamò in un gruppo chiuso su Facebook – riservato come lui –
melomani bordiniani, che facevano a gara a trascrivere le migliori
punteggiature di Bordin nella rassegna appena sentita, spesso quasi in tempo
reale, beandosi tutti di quello che tutti stavamo contemporaneamente sentendo.
Culto della personalità? Può darsi ma dipendeva dalla personalità.
Se la cosa facesse piacere a Bordin non è dato sapere;
riservatissimo, della sua vita personale si sapeva pochissimo e sempre per
racconti di altri. Mai una volta ha letto nella rassegna uno dei suoi corsivi,
si limitava se il punto di vista da lui trattato non era stato preso in
considerazione da nessun altro a dire che “pure un piccolo corsivo ne parla
oggi sul Foglio”. Modesto ma consapevole del suo talento.
Tifoso della Roma, si sarà chiesto come mai gli era capitato
un figlio juventino, ed evitava con cura di trascinare il calcio nella rassegna
o negli altri programmi, sgarrava pochissime volte, spesso in prossimità del
derby, quelli stravinti o quelli strapersi. Si concedeva solo qualche rimbrotto
a chi appellava “capitano” altri da Totti. Romano, amava Roma, come la amano i
romani veri, con un amore disincantato ma enorme, che in parte condivideva per
Napoli e Palermo.
Un talento immenso, una capacità di analisi finissima che si
combaciava con una memoria storica incredibile. Probabilmente una maledizione
per lui, che confrontava le mutevoli posizioni di questo o quell’esponente
politico con quelli del passato e con le giravolte che la politica di questo
paese riserva. Ma Bordin era anche una cultura storica, politica e filosofica
notevolissima, capace di tenere testa, di ribattere sul punto, di smentire
persino, uno che era “memoria e verità” come Marco Pannella. Le loro
conversazioni domenicali erano epiche, smisurate, incommensurabili.
Bordin contrappuntava, smitizzava, facendo incazzare
Pannella e incazzandosi a sua volta, seppur con altro stile. Perché Bordin era
anche incazzoso, probabilmente focoso: rimaneva in lui eco del militante
trozkista nella Roma degli anni ’60, fermato da Pannella in Piazza Venezia prima
di strappare uno striscione del MSI.
Radicale sì ma col cuore a sinistra, la sua conoscenza del
movimento operaio, della storia della sinistra socialista e comunista, tradiva
origini ma anche affinità mai nascoste. Tanto che per offenderlo Pannella, in una
domenica di Pasqua di 19 anni fa, gli diede di “stronzo dalemiano”. Lui, con
addosso una maglietta rossa con su scritte le parole “dubitare, disubbidire,
trattare” abbozzò male una risposta, scoprimmo poi che la cosa l’aveva anche
ferito, fino a portarlo poi alle dimissioni da Direttore, ruolo che per noi non
ha però mai lasciato. Ma in radio tutto questo non traspirò, imprigionato nella
nuvola azzurra del fumo di sigari e sigarette che i due consumavano in quantità
industriali e che ne hanno decretato la fine terrena. Finirono a declinare la
propria diversità a partire dalla cravatta di Pannella, un enorme pendaglio
tutto colorato su una base giallo canarino, davvero importante: “siamo diversi
– fece Pannella. Certo io non ho una cravatta così – rispose Bordin. E questo è
un tuo limite – concluse Pannella”. Poi continuarono a parlare ancora per anni,
fino alla fine di Pannella, di Gambetta dell’incontro con Croce (di cui
circolano almeno una ventina di versioni) a prendersi affettuosamente in giro:
“Marco mancano un po’ più di quaranta minuti alla fine della trasmissione, ce
la fai a chiudere la parentesi?”.
Maestro lo hanno definito in tanti e maestro lo è stato
davvero, di storia, di politica, di giustizia, di giornalismo. Ascoltare la sua
rassegna, o lo speciale giustizia o le trasmissioni sul Medio Oriente o Israele
era come seguire un corso universitario gratuito. Ma fu anche maestro
involontario dei nostri figli, costretti da noi adepti ad ascoltarlo nel
tragitto casa scuola. Mio figlio ai tempi dell’asilo riconosceva immediatamente
la sua voce e lo chiamava “Bin Bin”. Glielo scrissi, mi rispose che prima o
poi, crescendo qualcuno di quei bambini avrebbe finito per denunciarlo.
Fu però maestro suo malgrado di tanti di noi che abbiamo
imbrattato le pagine dei quotidiani. Quante volte nello scrivere un pezzo ci
siamo chiesti: lo leggerebbe Bordin? e come lo troverebbe? Quindi via a
tagliare, stringere, eliminare retroscena e sparate, anche se scrivevamo per un
quotidiano di provincia che nell’edicola di Largo Argentina non sarebbe mai
arrivato.
Tutto questo non ci sarà più e non trovo pace a questa idea;
pensare che anche la sua memoria e il suo lascito ci abbandoneranno il 21
maggio, perché questo governo criminale, spegnerà Radio Radicale è un sovrappiù
di dolore che non meritiamo. Se hanno un senso le lacrime e le parole spese per
Massimo Bordin sta nel provare fino all’ultimo a far vivere la sua radio.
Tutto il clamore sulla sua fine, fatti gli scongiuri di rito, lo avrebbe scacciato con un “un po’ esagerati” e si sarebbe rimesso al lavoro per la sua radio, puntuale alle 7,35 del mattino. “Buongiorno agli ascoltatori di Radio Radicale….”
Dal Nuovo Corriere di Firenze del 16 febbraio 2012.
L’immagine di un Paese la si coglie anche nelle sue manifestazioni, nel suo apparire. In questo senso il Festival di Sanremo è stato per lungo tempo l’immagine dell’Italia democristiana e rassicurante. Non certo uno spaccato sociologico del Paese, piuttosto una rappresentazione scenica di quello che, la classe dirigente italiana al potere, avrebbe voluto che il Paese fosse. Retorica, buoni sentimenti, poca politica, un po’ di impegno sociale e qualche guitto (cantante o ospite) a far divertire sovrani e popolo. Dunque una celebrazione di un modello piuttosto che una fotografia dell’Italia che cambia. Se dunque questo era il tema e lo scopo del festiva dei fiori, la prima puntata andata in onda martedì, preoccupa alquanto. Televisivamente parlando uno spettacolo senza tempi, senza professionalità, con microfoni aperti sempre troppo presto e chiusi troppo tardi, vallette di rimpiazzo più fuori luogo del solito e una scrittura che tendeva al turpiloquio e all’eccesso (inteso come troppo parlare) anche senza l’intervento di Celentanoo l’incapacità di votare le canzoni che poi dovrebbe essere il cuore della manifestazione. Per non parlare delle canzoni stesse. Aldilà dei gusti personali e musicali, non c’era un testo non dico votato all’ottimismo ma almeno una vecchia rima cuore, sole, amore. Crisi, disoccupazione, Spiritualità, Dio e religione tanto per citare qualche tema comune a molti cantanti. Nemmeno si fosse al Tenco, piuttosto che a Sanremo. Inutile parlare di Celentano e il suo sermone, come notava Massimo Bordin, trattandosi di deliri non vale nemmeno la pena commentarli.