Siamo sommersi dalle informazioni. Numeri, tabelle, grafici. Andamento dei casi, diffusione dell’epidemia, numero dei morti. Sui social ci scopriamo tutti virologi, come reazione alla nostra paura di non sapere.
Io in questi casi mi rifugio in quelli che sono stati i miei studi e quello di cui dovrei, ma non è necessariamente detto, capire qualcosa di più. Così mi sono letto il volume di Laura Spinney, 1918 L’influenza spagnola, la pandemia che cambiò il mondo, Marsilio editore.
Dalla storia non si apprende niente, mi dicevano i miei maestri, se pensiamo che questa si ripeta sempre uguale. Aggiungo io, nonostante l’affetto per il vecchio Karl, anche se pensiamo che si ripeta due volte sotto forma di tragedia e di farsa.
La storia può darci però un’indicazione sulle persistenze e sulle rotture. Su cosa rimane immutato (o cambia con lentezza estrema) e cosa muta, magari drasticamente, di fronte all’incalzare del tempo.
Vale anche per le epidemie e cercare nell’influenza che falcidiò il mondo tra il 1918 e il 1920 un modello ripetibile oggi sarebbe l’equivalente di affidarsi al volo delle rondini per predire il futuro.
Il mondo di oggi è completamente diverso, la tecnologia, la medicina, il fatto che non ci sia in Europa una guerra mondiale devastante in atto sono modificazioni gigantesche che rendono impossibile una comparazione.
Tuttavia, le linee di persistenza rimangono e forse aiutano a capire o magari consolano. Sapere che l’umanità è passata da qualcosa di simile potrebbe aiutarci. Sapere che siamo sopravvissuti a pandemie devastanti da Uruk a Perinto, da Ippocrate all’OMS, ci dona una speranza e un conforto di fronte alle nude cifre dei bollettini serali.
Ci dà anche un’idea se le misure in atto hanno una qualche efficacia e beh, spoilerando un po’, posso dire che sì, storicamente hanno avuto un senso. Mentre la tesi di Boris Johnson sull’immunità di gregge contrasta con il fatto che l’epidemia spagnola ebbe tre fasi acute e drammatiche e che le successive due colpirono gli stessi luoghi della prima. Questo in condizioni di contenimento dell’epidemia ben peggiori delle nostre e quindi con un contagio stimato tra il 70 e l’80 per cento della popolazione, ben sopra quelle che gli scienziati ci dicono essere le percentuali dell’immunità di gregge. Immunità che, probabilmente, si raggiunge davvero con un vaccino.
Nel 1918 la scienza e la medicina si presero, almeno nel mondo occidentale, la scena e contribuirono a far passare nelle persone l’idea della vaccinazione, dell’igiene, della profilassi; queste misure anche se non strettamente connesse alla battaglia contro l’influenza, contribuirono decisamente al miglioramento delle condizioni di vita delle persone. A New York questo si tradusse in un miglioramento della vita dei nostri emigrati che uscirono da una condizione di ghetti insalubri e pochi anni dopo arrivarono persino ad eleggere uno di loro sindaco, Fiorello La Guardia.
Ma lo studio dei comportamenti durante l’epidemia della spagnola ci aiuta anche a capire che ci sono alcune istintività contrastanti in noi da una parte scrive la Spinney “i numeri [illustravano] quello che le persone avevano compreso con l’istinto; un accadimento comincerà a esaurirsi quando la densità di individui suscettibili sarà scesa sotto una certa soglia”. Cioè stiamo a casa, isoliamoci, e il contagio terminerà prima. Dall’altra parte però “anche se i medici ripetono di tenerci lontani dagli individui infetti durante un’epidemia noi tendiamo a fare il contrario. Perché? Una risposta, valida soprattutto nei tempi antichi, potrebbe essere la paura di una punizione divina. […] Un’altra risposta potrebbe essere la paura dell’ostracismo sociale una volta passato il pericolo. O forse è semplicemente inerzia. [..] Gli psicologi suggeriscono una spiegazione ancora più interessante. Sono convinti che la resilienza collettiva nasca dalla percezione di sé stessi nelle situazioni di pericolo: non si identificano più come individui, ma come membri di un gruppo”.
Il che non giustifica quelli che vanno a fare passeggiate nei parchi cittadini invece che stare a casa ma forse ci aiuta a comprenderne le ragioni e convincerli che, secondo me, rimane sempre – anche durante una pandemia – preferibile al mandare l’esercito per le strade.
Naturalmente anche durante l’epidemia della spagnola non mancarono le polemiche sulle misure adottate e sul loro rispetto. Chiusure di esercizi commerciali, bar, teatri e cinema erano considerate a ragione essenziali dalla scienza ma malviste dalle autorità politiche che tardarono o evitarono del tutto di adottarle. Laddove, come a New York, furono adottate l’epidemia fece molti meno danni cha altrove. Sul mancato rispetto si distinse, soprattutto in Spagna, invece la Chiesa Cattolica che non rinunciò a riti e enormi processioni di massa per scacciare il contagio, che ebbero invece l’effetto di propagare il morbo. In questo la decisione di Francesco I di chiudere da subito le Chiese ha l’indubbio merito di aiutare la prevenzione del virus ma rappresenta, a mio avviso, uno degli elementi di rottura più epocali di questa pandemia.
Infine più controversa fu allora la decisione di lasciare aperte le scuole, ritenute più sicure e più salubri delle abitazioni per i fanciulli dell’epoca e naturalmente non mancarono anche allora forti polemiche e tensioni sull’uso delle mascherine. Fu tuttavia in quell’occasione che nacque la consuetudine per i Giapponesi di indossarla anche per il comune raffreddore. Chissà se lo faremo anche noi d’ora in poi.
Insomma ci siamo già passati, il che non elimina la paura, non cancella il lutto e non lenisce il dolore ma magari aiuta a passare più speranzosi il tempo.
Articolo apparso su Cultura Commestibile n.346 del 21 marzo 2020