La poderosa biografia che Peter Longerich – ben 890 pagine – ha dedicato a Joseph Goebbels è un tutto fuorché un mattone noioso. La minuziosa ricostruzione della vita del ministro della propaganda del Reich è, innanzitutto, un viaggio per comprendere come, un piccolo borghese con evidenti insicurezze al limite del patologico, è potuto diventare, insieme an accozzaglia non meno disturbata, uno dei padroni della Germania. Un viaggio nella mente di Goebbels che però non è un trattato di psichiatria ma un libro di storia con un imponente apparato critico ed una adeguata bibliografia. Certo è che la gioventù di Goebbles, complice anche la pressoché totale assenza di fonti, è indagata dall’autore molto più sui probabili processi psicologici che lo muovono che sulla semplice ricostruzione dei fatti. Per l’autore i complessi di inferiorità, fisica ma soprattutto sociale, sono la molla che spingono il neo laureato, scrittore fallito, a intraprendere la via della politica. Una strada che lo porta a trovare la sua guida, il suo idolo, in Adolf Hitler. Goebbels, questa la tesi, è sempre stato alla ricerca di un redentore – della sua posizione sociale, delle sue aspirazioni intellettuali che finisce per identificare in quelle dell’intera nazione tedesca – provando a immaginarsi egli stesso in tale posizione, per poi abbandonarsi alla figura di Hitler che riuscirà a mitizzare con la sua propaganda proprio perché lui per primo, lo considererà indispensabile.
Un processo di ricerca dell’approvazione del Fuhrer che segnerà e determinerà la vita privata del ministro della propaganda che, dopo una gioventù sentimentalmente tormentata, finirà per sposare Magda e con la quale instaurerà un ménage di cui Hitler sarà parte integrante e nel quale il dittatore finirà per prendere le decisioni significative (matrimonio, possibile divorzio) e che sosterrà anche economicamente.
Una simbiosi così profonda e perversa che porterà al tragico epilogo finale in cui i Goebbles, compresi i sei bambini, si toglieranno la vita dopo che Hitler avrà posto fine alla propria esistenza.
Ma la biografia, soprattutto dalla nascita del Goebbles politico sino alla tragica fine è una preziosa ricostruzione storica in cui si racconta dall’interno l’ascesa del nazismo, le lotte di potere, la frantumazione e il conflitto tra i gerarchi per finire con la condotta di guerra. Utilizzando i voluminosi diari del Ministro della propaganda, altro segno del suo egotismo, Longerich riesce a ricostruire e demolire l’immagine di potenza di Goebbles mostrandoci come almeno prima della fase finale del regime, Hitler giocasse con lui come il gatto col topo, lo escludesse dalle decisioni importanti convincendolo però del suo, successivo, ruolo fondamentale. O di come Goebbles provasse a sistematizzare posizioni autonome – la visione sociale del nazismo, il no all’alleanza con i conservatori per andare al governo, la sopravvivenza delle SA o la guerra totale – che venivano demolite dal Fuhrer facendo diventare il Ministro il più fervente sostenitore delle tesi a lui, fino a quel momento, opposte.
C’è poi Goebbles convinto antisemita nella suo progressivo passaggio da un antisemitismo borghese ad una ferocia non solo comunicativa indescrivibile; tuttavia cosciente che quegli atti, quelli della soluzione finale, significavano anche l’impossibilità per i nazisti e la Germania di tornare indietro, di salvarsi in qualche modo. Oppure il Goebbles che prova a imporre la propria idea di cultura nazionalsocialista finendo poi per ammettere, seppur nel solo privato dei diari, il fallimento nel creare una letteratura, un teatro, una musica e soprattutto, un cinema rispondente al regime.
Ne esce il ritratto di un uomo debole, tutt’altro che infallibile e onnipotente, incapace di una propria autonomia di pensiero, concentrato anche mentre tutto intorno rovina a ottenere l’approvazione del mondo e del suo capo. Una visione molto diversa da quella che il ministro era riuscito a conservare, nonostante il disastro finale, e che ci restituisce un altro pezzetto, non certo il più piccolo, della banalità del male e dei maligni.
Peter Longerich, Goebbles. Una biografia, Einaudi, 2016. Traduzione di Valentina Tortelli.
Come ogni anno gli auguri per l’anno nuovo li faccio con i libri che più mi hanno segnato nell’anno che sta per finire. Come sempre un’opera di narrativa ed un saggio, tra i numerosi libri letti per piacere e per CulturaCommestibile. Va detto che per il 2023 è stato molto difficile scegliere ma alla fine ha prevalso il cuore per Martin Amis e il suo libro testamento, e il cuore per un saggio storico, ahimè non tradotto in Italiano, sulla solidarietà, il mutuo soccorso del primo movimento operaio.
Il futuro si diceva una volta ha radici antiche e, aggiungo io, per affrontarlo serve un po’ di cattiveria alla Amis. In ogni caso vi auguro un 2024 da passare insieme a chi vi vuol bene e in compagnia di ottimi libri, ottima musica e begli spettacoli.
En attendant, toujours, la prochaine révolution, qui di seguito le recensioni ai due volumi uscite sulla rivista.
L’ultimo applauso per Martin Amis
Dovessi definire La storia da dentro, ultimo romanzo di memorie di Martin Amis, uscito nell’edizione italiana Einaudi appena tre giorni dopo la notizia della scomparsa dell’autore, direi che si tratta di un libro di fantasmi.
Certo non siamo di fronte a quelle ghost stories che raccoglievano le edizioni Oxford e una cui vecchia edizione campeggia fiera nella mia libreria. Quello di Amis è una autobiografia attraverso la perdita di alcuni amici e autori che hanno accompagnato la sua vita. Persone che nel libro diventano fantasmi perché l’autore ne racconta il percorso verso la morte: il poeta Larkin, il saggista Hitchens e il romanziere Bellow.
Amis indaga il rapporto con il decadimento, fisico per Larkin e Hitchens, mentale per Bellow. Impossibile non pensare che mentre scrive quelle pagine sta anche egli affrontando quel destino, peraltro anche lui come Larkin e Hitchens, scomparirà per un tumore all’esofago.
Figure paterne quelle di Larkin e Bellow, amicale (nel senso emblematico dell’amicizia) quella Hitchens. Larkin è il padre per contrasto al padre reale Kingsley. Uno poeta, l’altro romanziere. Uno impacciato, misogino attorniato da poche donne prepotenti, l’altro istrionico, grande conquistatore, infedele seriale, sempre insieme a donne bellissime. Bellow è invece il padre supplente, quello che forse non solo letterariamente Amis avrebbe voluto (affiancato all’altro fantasma che aleggia nel libro, quello di Nabokov), un modello letterario ma anche umano, a cui alla morte dell’ingombrante genitore naturale, confessa il bisogno di considerarlo padre eriditario.
Infine Hitchens l’amico geniale. Il compagno di sbornie, il fratello scelto. Quell’alchimia che solo chi ha avuto in sorte di trovare un amico così, comprende. L’amico che pensi di avere sempre al tuo fianco e che non ti capaciti, non vuoi credere, che perderai presto.
Sono pagine struggenti. Dolorose. Non fatico ad ammettere che più volte ho dovuto interrompere la lettura perché mi faceva male quello che trovavo sulla pagina, per poi tornare avidamente con il bisogno di avere ancora e ancora pagine scritte in quel modo bellissimo e affilato che era una delle cifre dell’autore. Eppure non c’è mai pietismo, mai retorica. Amis rimane il cattivo di sempre, il cinico spietato che abbiamo sempre amato, ma in questo romanzo autobiografico la gravità supera la maestria anche se quest’ultima rimane ai livelli altissimi di sempre.
Tuttavia i fantasmi del libro non sono solo quelli che scompaiono fisicamente, sono una vecchia fiamma o ossessione, personaggio di fantasia che racchiude le donne del passato o forse più correttamente la dissolutezza dell’autore. La madre, bellissima e forse fedifraga, contrappunto non solo del “pesantissimo” padre (al cui rapporto dedica l’altro romanzo autobiografico Esperienza del 2000) ma anche del poeta Larkin, e ancora di più la matrigna Elizabeth Jane Howard che Amis riconosce come la vera dante causa del suo essere scrittore. C’è anche un tentativo di riconciliarsi con lei, il dimostrarle riconoscenza e devozione, persino amore, il chiederle perdono per la sua, infantile, reazione all’abbandono da parte di lei del padre.
Solo le mogli e i figli in questo libro paiono non essere fantasmi. La seconda moglie di Amis, Isabel Fonseca e la moglie di Hitchens Carol Blue, personaggi destinati a salvarsi rispetto ai loro sposi. Presenze “normali”, numi tutelari, figure quasi senza macchia come mai se ne trovano nei romanzi di Amis. Testimoni dell’amore, quello che dimostrano e quello che i loro compagni testimoniano nonostante tutto. Di fronte a queste figure le maschere dei cinici due amici, tornano quelle di due imbranati qualunque, di due uomini normali con le loro paure e le loro incertezze.
Infine, come poteva essere altrimenti, la vita da dentro è anche un libro sulla scrittura, sulla tecnica, sull’uso della lingua, sull’essere intellettuali, impegnati, schierati. Quasi un manuale per lo scrittore, nella pagina ma anche nelle note (che sono a loro volta un romanzo nel romanzo), ma forse ancor di più un manuale per il lettore. Una guida consapevole del valore degli esempi citati, Bellow e Nobokov su tutti, ma anche dei propri mezzi. Amis sa, o almeno afferma sapere, della sua bravura, della sua tecnica eccellente. Non la nasconde, come l’attore che consapevole della sua bravura, mette una pausa giusto per aspettare l’applauso.
Amis probabilmente era consapevole che quello che gli avrebbe tributato il suo fedelissimo pubblico, sarebbe stato l’ultimo applauso; nel nostro caso l’applauso è arrivato, per pochi giorni postumo, ma ciò non toglie che si meritasse, non solo per questo libro, un’ovazione.
Martin Amis, La storia da dentro, Einaudi, 2023. Traduzione di Gaspare Bona.
Proletari di tutto il mondo aiutatevi tra di voi!
C’è stato un tempo in cui la classe operaia non si opponeva alla globalizzazione ma pensava di poterla sfruttare per il suo riscatto, per avere migliori condizioni di vita e di lavoro e per sviluppare la solidarietà di classe oltre le frontiere delle nazioni.
Si muove da questa premessa l’opera di Nicolas Delalande La Lutte et L’Entraide (la Lotta e il mutuo soccorso) che ha per tema la solidarietà operaia ai tempi delle due prime Internazionali fino al primo conflitto mondiale con una breve escursione finale fino agli anni 70 del novecento.
Fondata nel 1864 l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (poi passata alla storia come prima Internazionale) aveva per scopo quello di unificare il neonato movimento operaio aldilà delle frontiere nazionali. Le successive tensioni tra anarchici e socialisti la faranno poi scomparire negli anni ’70 dell’ottocento per poi rinascere come Seconda internazionale (questa volta soltanto socialista) nel decennio successivo.
Uno degli obiettivi delle due organizzazioni era per l’appunto, la solidarietà operaia che Delalande in questo libro ci fa scoprire attraverso non tanto i proclami e i grandi discorsi ma le azioni pratiche, dalla raccolta fondi, la gestione delle sottoscrizioni, gli scandali. Scopriamo così come si esercitava in concreto quella solidarietà, quali limiti (taluni ideali, talaltri molti pratici) erano posti nell’inviare denaro, nel decidere, in base anche alla possibilità di riuscita, quali scioperi erano da assistere e quali invece non meritavano il supporto. Uno studio che mostra anche i rapporti di forza nella prima Internazionale tra i potenti sindacati inglesi e le organizzazioni più movimentiste (ma anche molto più povere) del continente, per poi raccontare il progressivo dispiegarsi anche economico dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi al tempo della seconda internazionale.
Un lavoro minuzioso che segue il corso del denaro raccolto dai lavoratori, donato ma molto più spesso prestato (poiché il prestito impone una responsabilizzazione del ricevente), in occasioni di scioperi, manifestazioni e serrate padronali. Un sforzo mondiale che vede coinvolto non solo il continente europeo ma anche le organizzazioni nordamericane e australiane.
Naturalmente il volume mostra anche come le divisioni, tra socialisti e anarchici, tra sindacati di mestiere e organizzazioni orizzontali dei lavoratori, influiranno non soltanto sull’elaborazione teorica del movimento operaio ma avranno ricadute concrete sulla vita degli operai in lotta e sulle loro famiglie che, in occasione degli scioperi, potevano contare soltanto sugli aiuti internazionali o, laddove sviluppate, sulle prime cooperative operaie.
Analogo destino, di aiuto ma anche di diffidenza e contrasto, sarà riservato anche agli esuli della Comune parigina, prima oggetto dell’aiuto indiscriminato, per poi diventare, in alcuni casi e in particolare per alcuni sindacati inglesi, un peso o comunque “poco riconoscenti” visto che non modificavano le loro posizioni per renderle più vicine ai modi di lotta dei loro benefattori.
Un libro decisamente originale nel suo campo di ricerca che mette in luce certo le contraddizioni del movimento operaio, ma contemporaneamente dimostra la sua “potenza” e capacità di stare nelle dinamiche economiche dell’epoca provando a piegarle a proprio favore invece che di opporsi sterilmente ad esse.
Nicolas Delalande, La Lutte et l’Entraide. L’age des solidarités ouvrières, Seuil, 2019.
Se nel proprio nome (o cognome in questo caso) risiede una parte del proprio destino, Ottavio Fatica intraprendendo la traduzione del Signore degli Anelli ha molto probabilmente compiuto il suo.
Già perché le vicende editoriali di questi tre volumi, in Italia, non sono mai state facili e anche questa volta si confermano tali. Credo c’entri anche un’appropriazione politica del testo tolkeniano da parte dell’estrema destra e del neofascismo dagli anni ’70 del tutto incomprensibile all’estero e a chi ha davvero letto (e mi si permetta capito) la saga dei Baggins.
Ma le critiche al lavoro di Fatica non sono arrivate solo dai nostalgici, c’è infatti una moltitudine di ex adolescenti (come chi scrive) che sono cresciuti forgiati da quel libro che circolava con la sua copertina agreste dai contorni beige e apriva mondi che poi spesso portavano a pomeriggi di giochi di ruolo.
Ma facciamo un po’ di ordine e proviamo a ricapitolare in estrema sintesi le vicende del libro nel nostro paese. La prima traduzione del volume è quella, in realtà mai arrivata alle stampe, che la piccola casa editrice l’Astrolabio commissiona ad una allora giovanissima Vittoria Alliata di Villafranca. La Alliata che non era (e non sarà) una traduttrice fa, va detto, un lavoro enorme e per i suoi mezzi egregio, tuttavia fu poi affiancata da Quirino Principe che ne corregge molta parte per l’edizione Rusconi che uscì nel 1970.
Quella traduzione è quella sulla quale generazioni di lettori sono cresciuti e si sono affezionati. Tuttavia nel 2003 Bompiani proporrà, alla ripubblicazione dei volumi sull’onda del successo dei film tratti dagli stessi, quella traduzione, però corretta su indicazione della Società Tolkeniana Italiana.
Sì perché nel frattempo il Signore degli Anelli e più in generale l’opera di Tolkien stava uscendo dalle fogne del neofascismo e dall’underground di cosplay e nerd ed entrava di diritto nei canoni letterari e nelle aule universitarie. Da qui, all’approssimarsi della scadenza dei diritti della traduzione dell’Alliata, la pressione sull’editore per una nuova traduzione.
Non senza strascichi legali, cause e velenosi articoli usciti sui giornali della destra italiana si arriva dunque all’opera di Ottavio Fatica, traduttore di grande esperienza con un gran lavoro su prosa e poesia inglese. Ma in cosa si caratterizza questo lavoro? La più evidente differenza (e quella su cui si sono concentrate le maggiori polemiche) è la traduzione diversa di molti dei nomi iconici della saga. I Raminghi che diventano Forestali, il Puledro impennato Cavallino Inalberato, Gran Burrone Valforra e molti altri. Un lavoro che il traduttore ha sempre giustificato per una maggiore aderenza alle sfaccettature e alle etimologie dell’autore. Non va infatti dimenticato che Tolkien di mestiere faceva il filologo a Oxford e tutte le sue opere sono caratterizzate per scelte linguistiche precise e mai casuali. Anche la poesia degli anelli che più o meno tutti i fan conoscevano a memoria viene riportata ad una maggiore coerenza con l’originale ma non è facile mandarla a memoria nella nuova versione.
E tuttavia a Fatica e all’editore è mancato il coraggio di utilizzare tale metro per tutti i nomi della saga (da un certo punto di vista fortunatamente) e dunque Baggins non è reso con Sacconi. Una scelta certo comprensibile che però avrebbe potuto essere adoperata per altri personaggi ed evitare che ogni volta che ci si riferisca ad Aragon come forestale non venga in mente uno in uniforme grigia intento a controllare che scoppi un incendio nel bosco.
Ma le due, a mio avviso, più importanti novità della traduzione di Fatica sono l’uso di registri diversi da parte dei personaggi e una fluidità e musicalità del testo. Il primo punto fa sì, per esempio, che le modeste origini di alcuni personaggi, Sam su tutti, si riflettano nel loro parlato. Questo fa sì che l’opera acquisti le sfaccettature che l’autore volle dargli: non una semplice saga epica fatta di eroi ma un’allegoria di una quotidianità che si trasforma in epica. Gli Hobbit non sono eroi scelti dagli dei, ma (mezzi)uomini travolti dal fato che compiono imprese eroiche. Una stratificazione di classe che era ben presente in Tolkien e che lo allontana dalla mistica del superuomo (che aveva trovato spazio quasi solo qui in Italia infatti).
Può apparire scontato, se non banale, che durante una pandemia si ripubblichi “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, non fosse che, come scrive Sciascia nella sua nota al volume per le edizioni Sellerio (nota che da sola vale l’acquisto), il testo del Manzoni sia uno dei suoi migliori quanto uno dei più misconosciuti. Come capita spesso ai testi che hanno fortuna di essere citati senza essere spesso letti o, peggio, capiti.
Testo di drammatica attualità e potenza quello di Manzoni che si interroga sull’ingiustizia della giustizia. Non sull’errore giudiziario, ma sul metodo accusatorio, sulla protezione che il giudice si costruisce da solo o come corporazione, sul bisogno di perseverare nella bugia una volta che questa è costruita per sostenere la tesi accusatoria, di piegare la legge alla consuetudine e al metodo di dover dare colpevoli alla folla.
Si parla di due untori, ma come nota Sciascia nel chiudere della sua nota, si potrebbe parlare dei terroristi degli anni ’70 e dei tanti imputati dei processi di oggi, condannati prima facendosi sfuggire intercettazioni e atti processuali che trovano ampia fortuna sulle pagine delle odierne gazzette e poi perdurando la pena del processo per anni e anni.
È quindi il metodo dello scritto del Manzoni che stupisce e convince. In punta di piedi, non volendo offendere in alcun modo l’illustre predecessore, nella premessa Manzoni, quasi scusandosi, dice che il suo lavoro si discosta da quello del Verri perché se quest’ultimo aveva come scopo combattere la tortura come metodo d’indagine, egli si pone il tema più generale della giustizia che sbaglia. E sbaglia consapevole di sbagliare come dimostra l’autore nell’entrare, forse pedantemente, nell’analisi delle norme e delle consuetudini che regolavano l’uso della tortura come metodo d’indagine ma soprattutto, nei meccanismi che regolavano la promessa di impunità che l’autorità poteva concedere per far confessare complici e mandanti agli accusati. Dunque non era, per il Manzoni, la tortura il problema ma l’arbitrio, l’abuso del giudice per ottenere non la Verità, ma un colpevole.
Storia vecchia direte, e qui ritorna Sciascia, la sua paura della legge sui pentiti, appena varata quando l’autore siciliano ripubblica per Sellerio l’opera del Manzoni e scrive la nota che accompagna quel volume e la ristampa attuale. E quanto attuale anche oggi può essere questa paura se pensiamo a Guantanamo, o per restare a casa nostra a quando venticnque anni fa nella solita Milano si pontificava di “metterli in galera qualche giorno per farli parlare”. Nell’applauso festante delle gazzette e degli inviati infreddoliti di fronte al maestoso (ma bisognoso di chiudi per stare in piedi come racconta Giorgio Fontana in un altro bel libro pubblicato sempre da Sellerio) Palazzo di Giustizia, con sfondo mobile di tram sferraglianti. Non stupisce a ripensarci oggi che poi uno veda anche la Madonna.
C’è poi un ultimo punto, ed è sempre Sciascia a farcelo notare, che è quello del reato di cui sono accusati gli sventurati protagonisti: di causare la morte per peste attraverso unguenti velenosi. Viene da dire superstizione da antichi da cui, oramai, siamo immuni. Non pare così, se si vuol dare retta a Sciascia, che ci racconta come la storia invece che essere una palla di cannone accesa è più spesso un arabesco che procede in avanti e indietro. Se infatti tra gli antichi vigeva il pregiudizio delle pestilenze come maleficio commesso da uomini per diabolici intenti, in quello che immaginiamo come buio medioevo si tendeva ad incolpare l’influsso degli astri o il castigo divino quali cause delle pestilenze.
Per tornare nel Seicento, raccontato dal Manzoni, a ricercar l’untore come capro espiatorio della non conoscenza e delle inefficienze della sanità lombarda, rifluendo invece nello scientismo dell’Ottocento che aveva a nemico igiene e ratti. Ma non occorre arrivare ai no vax attuali o ai complottisti del 5g per vedere che questo andirivieni di colpevoli aveva, ai tempi della spagnola, trovato nei governi i colpevoli. La prima guerra mondiale – scrivevano i complottisti dell’epoca – era finita troppo presto e occorreva diminuire ancora un po’ la popolazione mondiale attraverso qualche pozione venefica. All’obiezione che anche qualche potente fosse deceduto, si trovava facilmente rimedio nel dire che si era confuso tra veleno e antidoto.
Il punto però, aldilà del consolarci o preoccuparci per la lunga durata del complottismo, è quando queste tesi trovano una Procura zelante, una inquisizione compiacente, un giudice svogliato e ti trovi a passeggiare per Milano, compiendo il tuo mestiere, con una boccetta d’inchiostro in mano, oggi magari con uno smartphone 5g, ed invece di trovare giustizia ti imbatti nella Legge.
Ci sono vite che vale la pena raccontare, quella di Jean D’Ormesson è sicuramente una di quelle, ma siccome l’uomo ha fatto della leggiadria una sua cifra, la vita che si e ci racconta è un processo a se stesso. Ma non immaginate corti ampollose, lessico da tribunale, no Malgrado tutto direi che questa vita è stata bella (Neri Pozza) è un recit da salotto, una conversazione tra i ricordi. Ricordi personali che diventano i ricordi di un’epoca e di un Paese. Una certa Francia già scomparsa prima dell’avvento del giovane Macron all’Eliseo. Guerra, resistenza, gaullismo, gli intellettuali visti attraverso gli occhi di un aristocratico, repubblicano e conservatore, peccatore mai pentito, amante di quell’attivissimo non far niente che associamo, invidiandolo, agli intellettuali francesi, per l’appunto.
D’Ormesson passa dai castelli di famiglia alla direzione de Le Figaro potendosi permettere di sorvolare con molta delicatezza sui dolori e sulle cose brutte della vita, trasformandole (ma non tradendole) in ricordi che comunque han fatto quella vita, malgrado tutto. Un libro pieno d’amore, per la vita anzitutto, per gli uomini e le donne incontrate. Le donne, delle quali D’Ormesson parla col pudore e l’educazione del gentiluomo, non sfiorando nemmeno lontanamente il gossip per lasciarci visioni e sprazzi, intuizioni e immaginazioni.
Ci sono poi gli intellettuali, i politici, i grandi uomini incontrati all’Università, l’école normale invece della più prosaica ENA, all’UNESCO o nei salotti della Parigi che la fantasia al potere contesta ma, per l’autore, non arriva a scalfire.
D’Ormesson passa leggero facendoci capire, con una falsa modestia, che almeno per lui tempi e uomini così non torneranno più e che per il presente sia più interessante e utile applicarsi alla conoscenza del mondo e delle sue leggi, piuttosto che ai piccoli esseri che lo abitano provvisoriamente. Così, nel finale del libro, D’Ormesson completa quella che potremo chiamare la trilogia di Aragon, visto che questo come altri due suoi ultimi libri (Che cosa strana è il mondo e Un giorno me ne andrò senza aver detto tutto entrami editi in Italia da Clichy) anche questo prende il titolo dal verso della stessa poesia di Aragon. Una trilogia verso la morte, il suo mistero, la sua inevitabilità. Un mistero che tutti accomuna e che mostra, anche nel grande uomo di cui abbiamo invidiato e amato la vita nelle pagine precedente, dubbi, paure e speranze. La speranza che titolo, ruolo, educazione e vita D’ormesson, ci lascia insieme alla sensazione di che sì, malgrado tutto, la sua vita è stata ben più che bella.
In tempi di papisti entusiasti che non ti aspetti, leggersi le vite dei Papi attraverso le storie, inventate, calunniose, apocrife, dei cronisti lungo il corso dei secoli può essere un’operazione molto utile e interessante. Per questo, Vite efferate di Papi (Quodlibet 2015) di Dino Baldi è volume attualissimo pur narrando storie da San Pietro a Pio IX, raccolte col rigore del filologo ma scritte con la penna del romanziere. Un bel tomo la cui mole non deve spaventare vista al scorrevolezza del testo e le appassionanti vicende narrate. Papi ritratti dai propri contemporanei nei loro vizi, nei loro crimini e nelle meschinità delle storie che hanno sempre accompagnato la corte pontificia. Storie inventate, romanzate, degne comunque di passare alla storia perché narrate. E si badi che Baldi, col rigore che gli è proprio, usa fonti cattoliche, mai luterane, non cede quindi alla tentazione di dar voce ai nemici della Chiesa, dando così alibi ai suoi eventuali critici. Storie di disumana bassezza, di lussuria, delle peggiori aberrazioni umane ma anche di giustizia secolare, torture e decapitazioni compiute dagli eredi di Pietro che si mischiano alle grandi e sovrumane bontà, alle mortificazioni di carne e spirito nel nome del Signore, tanto che, nella lettura si è presi spesso dal dubbio che siano proprio i cosiddetti papi “buoni” a esser passati alle cronache come i più efferati tra gli efferati.
Paul Vacca ci regala un piccolo gioiello, sì perché Come accadde che Thomas Leclerc 10 anni 3 mesi e 4 giorni divenne Fulmine Tom e salvò il mondo, pubblicato in Italia da Clichy, è un romanzo che non ti aspetti. Tom, piccolo bambino della periferia parigina alla fine degli anni sessanta, è il ragazzino strano, quello che risolve tutti i problemi di matematica, non ha amici, e non lascia trasparire emozioni. Oggi probabilmente si direbbe che Tom soffre di autismo e il suo caso non farebbe molta impressione, ma nella Francia ad un passo dal 68 tutto questo è ancora lungi da venire. Intorno a Tom, i cui unici amici e riferimenti sono all’inizio gli amati supereroi dei fumetti americani, la sua famiglia e la classe media della periferia parigina che circonda la villetta con giardino in cui, al culmine di una scala di 18 gradini, si rintana nella sua cameretta, Tom. Vacca ha uno stile di scrittura semplice ma mai banale e pur affrontando un tema e una storia in cui il rischio del buonismo, del già visto e del banale, è altissimo, riesce, ad ogni intreccio, a stupirci scegliendo sempre la soluzione che non ci saremmo aspettati. Tom che si convince che la sua diversità è la stessa dei suoi eroi dotati di superpoteri, ci commuove ma non ci impietosisce mai, anche nei momenti tragici che la storia descrive. Quello che rimane è un libro che ricorda i grandi film francesi degli anni sessanta, personaggi multiformi, a più dimensioni e una società che si scopre mista, libera o pronta a liberarsi, ma anche contraddittoria e persino cattiva. Eppure alla fine si chiude il libro con un sorriso sul volto e una lacrima che spinge per uscire.
Nell’anno del centenario della pubblicazione della Recherche di Marcel Proust, “Cultura Commestibile” pubblicherà un piccolo libro che contiene articoli brevi, interviste, materiale di facile consultazione per celebrare la ricorrenza. Il 14 novembre 1913 venne pubblicato il primo volume della Recherche, “Dalla parte di Swann”, dopo rifiuti eccellenti per un libro ritenuto troppo lungo e superficiale, tanto che uscì a spese dell’autore, per i tipi di Grasset Eppure quel libro ha cambiato il modo di scrivere, fors’anche di pensare.
In 96 pagine abbiamo raccolto gli scritti che nel corso degli anni Cultura Commestibile ha dedicato al capolavoro di Proust, il volume uscirà sotto Natale per i tipi di Clichy, offrendolo ai nostri lettori alla modica cifra di 10 euro (per ordini superiori alle 10 copie il prezzo sarà 9 euro oltre le 20, 8 euro), il prezzo di copertina è invece di 15 euro
Per prenotazioni potete scrivermi a michele@morrocchi.it
Domani pomeriggio, in Piazza della Repubblica a Firenze alle 18, all’interno della piazza dei libri, presento insieme a Vanni Santoni, Superzelda (Minimum Fax). Una grapich novel che racconta la vita di Zelda Fitzgerald.
Ballerina, pittrice, scrittrice, Zelda Sayre (1900-1948), moglie dello scrittore Francis Scott Fitzgerald, ha incarnato più di ogni sua contemporanea il prototipo della «maschietta», creando un modello di femminilità alternativa e ribelle che è sopravvissuto ben oltre gli Anni Ruggenti – grazie anche alle opere del marito, che a lei si è ispirato nel costruire le eroine più riuscite dei suoi romanzi.
Questo graphic novel ne racconta le vicende, dall’infanzia in Alabama, passando per l’incontro con Scott, il matrimonio e la scandalosa luna di miele a New York, e poi i viaggi in Europa e in Africa, le frequentazioni con Ernest Hemingway, Dorothy Parker, John Dos Passos e molti altri protagonisti della scena intellettuale e artistica dell’epoca, fino alla malattia, il ricovero per schizofrenia e la morte in seguito a un drammatico epilogo.
Sceneggiato a partire dai romanzi del marito, e disegnato utilizzando l’iconografia dell’epoca e le foto di famiglia di casa Fitzgerald, Superzelda è il ritratto a fumetti della coppia più spericolata e romantica di quella che Gertrude Stein definì «generazione perduta».
Ne parliamo domani insieme agli autori Tiziana lo Porto e Daniele Marotta. Vi aspetto.