E’ terminata la spinta propulsiva delle facce nuove?

Alla fine gira e rigira il vecchio principe di Salina la spunta sempre. Che tu sia un paludato funzionario di partito o un innovatore/rottamatore devi sempre fare i conti con quello che l’intorno a te ti offre e da quello muovere le tue scelte. Tigri, gattopardi o sciacalletti: le scelte le fai con quello che la savana ti offre e con la certezza che tutti si sentiranno sempre il sale della terra.

Dopo tre anni di facce nuove al potere anche Matteo Renzi, di fronte al primo vero rimpasto politico della sua giunta, deve guardarsi indietro e ignorare bellamente i dettami del politicamente corretto che avevano sinora dettato la scelta dei “suoi” uomini al governo cittadino.

Le prima vittime del gioco che si è fatto improvvisamente duro, sono genere ed età anagrafica. Due uomini (anche se la parità complessiva di genere è mantenuta) e non proprio due ragazzini (sia detto con il dovuto rispetto). Il secondo è quello del rinnovamento, pardon rottamazione, con il vecchio regime dominiciano. Le facce nuove per l’appunto.

Certo Givone e Petretto non hanno mai ricoperto incarichi di governo nell’amministrazione Domenici né in quella regionale Martini prima e Rossi poi. Tuttavia il loro ruolo di “consiglieri”, tecnici, in quelle amministrazioni non è mai stato un mistero. Anzi sia nella loro funzione istituzionale (Prorettore l’uno, Direttore dell’IRPET l’altro) che in quella di commentatori sulla stampa e convegni hanno avuto molto spesso modo di dire la loro (certo anche criticando) sul governo fiorentino.

Due uomini di indubbia qualità analitica e di grande competenza nei loro campi che hanno certamente tutte le carte in regola per ben figurare nel nuovo mestiere di amministratori, ma che non avresti sinora annoverato tra i rottamatori delle precedenti amministrazioni.

Ricordo personalmente il contributo di Petretto al gruppo per il programma del PD alle scorse amministrative e se certo quanto scritto in quel programma non può certo dirsi responsabilità diretta sua, io che coordinavo quel gruppo posso testimoniare quanto le sue riflessioni (non solo in ambito economico) siano state poi recepite nel lavoro finale. Un lavoro che, sinora, Renzi ha dimostrato di non aver apprezzato fino in fondo.

Forse, scherzando, possiamo dire che la spinta propulsiva delle facce nuove a Palazzo Vecchio sia terminata e si apra un fase di rilettura del passato cittadino diversa, in cui non ci sia bisogno di rinnegare (almeno in termini di comunicazione perché sull’amministrare altro alla fine è stato fatto) quello che la precedente amministrazione (peraltro di stesso segno politico) di buono aveva fatto. Lo si fa ripescando due ottime persone e due ottimi tecnici; per ora non lo si fa ricostruendo un rapporto di squadra coi partiti e più in generale coi soggetti di intermediazione sociale. Tuttavia c’è un cambio, anche simbolico, di atteggiamento che non va ignorato, anche nel rispondere alla domanda (che se fossimo Renzi ci avrebbe decisamente rotto) se alla fine Renzi andrà via o resterà qui.

I due polli di Renzi e De Magistris

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 19 gennaio 2012.

Tempi duri per i polli dei sondaggi, quei due pennuti che, secondo la famosa definizione di statistica, se io ho in sorte di mangiarne due e il mio vicino nessuno, le statistiche rilevano che ne abbiamo comunque mangiati uno a testa.

Indici, spread, serie annuali ormai segnano la nostra vita quotidiana e sono ormai argomento di conversazione comune come una volta lo erano il pressing, il fuorigioco o la moglie dell’arbitro. Dati che entrano e che escono (a proposito i CDS, le assicurazioni sul rischio di fallimento degli Stati che fine han fatto non li cita più nessuno?) che ci mettono di buono o cattivo umore e che ci fanno comunque sentire tutti un po’ esperti di economia, finanza.

Non bastasse l’interpretazione dei dati passati, ci si mettono anche i vaticinatori di futuro, le agenzie di rating, che svolgono l’ancestrale funzione assolta nei tempi antichi da oracoli e sacerdoti senza sgozzare capretti o interpretare il volo degli uccelli.

Infine mai vanno in pensione i sondaggi, che rilevano intenzioni di voto, percezioni e umori e che, tecnici o non tecnici al governo, affollano le agende e i pensieri dei nostri politici, tanto che molto spesso si è avuta l’impressione (e non solo quella) che fossero queste rilevazioni statistiche a campione a dettare l’agenda e a muovere le decisioni degli attori politici nazionali o locali. Ecco perché fa rumore la classifica del gradimento degli amministratori locali che ogni anno pubblica il sole 24 ore. Un’indagine che non rileva la qualità di un sindaco o presidente di regione o provincia ma solo il suo gradimento, categoria ben difficilmente quantificabile in numeri.

Spiegato quindi perché capita, come è capitato quest’anno, che il primo cittadino di Firenze, crolli dal primo al 51° posto di tale classifica. In termini calcistici un tonfo paragonabile soltanto a una retrocessione dalla finale di Champions alla terza divisione. Eppure se guardiamo l’azione amministrativa svolta nel 2011 da Renzi, non si scorgono, pur in presenza di una conflittualità sociale più elevata e di alcune decisioni meno condivise, azioni che per numero e portata dovrebbero evidenziare un tale tonfo. Se poi si gira per la città la popolarità del sindaco non appare crollata, per non parlare della stampa locale dove gode, seppur in maniera minore, di un’ottima popolarità.

Verrebbe quindi da pensare che o fossero troppo ben disposti con lui nell’anno passato i fiorentini intervistati o troppo astiosi quelli sondati quest’anno e che, in questo caso, non abbia digiunato Renzi nel 2011 lasciando a De Magistris i due polli, ma che comunque almeno una coscia l’abbia mangiata pure lui e che non avesse nel 2010 rischiato l’indigestione nemmeno lui.

Il razzista al nostro fianco

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 dicembre 2011.

Non so se ha senso disquisire della follia di Casseri, come quella di Breivik, o dei tanti, troppi, omicidi che popolano questo mondo. Di sicuro però ha senso ragionare, conoscere, estirpare, l’odio che li muove che ne nutre la follia omicida. Sia quell’odio organizzato, militante, di cui Casseri era espressione, sia quello latente che serpeggia in tanti cittadini comuni, che di Casa Pound conoscono l’esistenza solo per i manifesti che inzozzano i nostri muri. Ai primi, peraltro più facilmente rintracciabili, si risponde applicando le leggi che il nostro Stato si è dato a partire da quell’apologia di fascismo o alla legge Mancino oggetto di una rivisitazione culturale e politica nefasta negli ultimi anni. E’ di qualche anno fa la bella inchiesta di Paolo Berizzi Bande Nere (Bompiani 2009) in cui vengono descritte le decine di movimenti della nuova destra sempre meno legata ai vecchi miti del ventennio e molto più in grado di calarsi nelle realtà sociali delle nostre città, nell’odio che serpeggia, nel bisogno, umano e ancestrale, di trovare un nemico (di solito l’altro) a cui dare la colpa. Ed è indubbio che si è avvertito un lassismo nei confronti di questi movimenti, sia per sottovalutazione politica sia per una società civile non più adusa a pensarsi come una comunità, un tutto interdipendente. E’ in questo terreno che sorge il razzismo latente, quello di solito che ha in premessa espressioni come “io non sono razzista però…” oppure “io ho molti amici ebrei, gay, neri…” E anche le cronache dei giornali di ieri sono tristemente piene di queste espressioni. Dai commercianti di piazza Dalmazia (tra i quali segnala un amico barista qualcuno non ha avuto nemmeno il cuore di rispettare i 10 minuti di lutto cittadino) al consigliere regionale Donzelli (chi altro altrimenti?) che ha emesso un delirante comunicato in cui alla fine dava la colpa dei fatti di sangue di martedì ai senegalesi e alla sinistra che governa la città. Un comunicato in cui è assente una qualsiasi forma di pietas nei confronti di persone uccise in mezzo a una strada, una cassa di risonanza non certo ai facinorosi neonazisti (almeno lo speriamo nelle intenzioni) ma a quell’odio sordo del razzista che abita accanto a noi. Che, fortunatamente, non armerà la mano come Casseri ma sempre più tollererà e dimenticherà anche la violenza e l’odio. Ieri tutte le istituzioni, comprensibilmente, hanno dichiarato che Firenze non è razzista. Purtroppo non è così anche se ancora si tratta di minoranza ma non certo isolate, occorre allora agire e anche in fretta, con le armi della conoscenza e della giustizia.

Dietro a quella facciata c’è molto di più.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 4 agosto 2011.

La vicenda del rifacimento della facciata della basilica di S. Lorenzo sollevata dal sindaco Renzi ha un altro aspetto, oltre a quelli artistici culturali, da non sottovalutare. Sui primi le sorelle Marx di sabato scorso sulla prima pagina dell’inserto di questo giornale, Cultura Commestibile, han già perfettamente detto, sul secondo forse è il caso di spendere ancora qualche parola.

Il tema è quello del referendum per decidere se procedere o meno al rifacimento della facciata o più in generale se Firenze sia patrimonio disponibile dei soli fiorentini o sia dato a questi in custodia per tutti gli altri. Lungi da me invischiarmi in un dibattitto procedurale sulla liceità dello strumento, sulla titolarità di sindaco e comune e tutte le beghe da costituzionalisti che son solite accompagnare questi dibattiti in Italia. Quello che a me interessa è il metodo politico che tale impostazione presenta.

Ancora una volta Renzi dimostra di non aver bisogno dei corpi intermedi, dei soggetti di rappresentanza degli interessi: la sua legittimazione popolare gli è sufficiente per rapportarsi al popolo per il popolo. Tuttalpiù questi soggetti possono tornare utili, se alleati, nella mobilitazione e nelle eventuali campagne; se inutili possono essere sostituiti da strutture più snelle e più riconducibili all’obiettivo. In fondo così ha legittimato (e vinto) la propria azione politica prima nelle primarie, poi con le liste civiche a suo sostegno e successivamente nella sua azione amministrativa.  Un’azione di rottura e di scardinamento dei vecchi schemi che la città, ingessata da troppi anni, ha dimostrato di apprezzare e che ha contribuito certamente a smuoverla e a rinnovarla.

Tuttavia in questo caso si parla di un’operazione che non consente retromarcia e soprattutto che tocca un aspetto che, ripeto, riguarda solo in parte i Fiorentini. La logica del bene è mio e lo gestisco io, in particolare nei beni artistici, ha limiti che qualche secolo di politica liberale ha conferito (almeno nell’Europa occidentale) a poteri non elettivi, tecnici, per sottrarli, all’inevitabile bisogno di ottenere consenso da parte dei poteri politici. Certo questo ha in molti casi ingessato alcune cose ma ha anche consentito di preservare centri storici e monumenti inestimabili. Dire oggi che le sovrintendenze sono orpelli inutili che non devono occuparsi di questo (tanto varrebbe allora dire che non debbano proprio esistere) non è, almeno in questo caso, una battaglia di rinnovamento del Paese ma mostra piuttosto una volontà di non aver freni e contrappunti al proprio operare.

 

Nel Pd facebook contro ficattole

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 7 luglio 2011.

Sono passati quasi tre anni dalle primarie fiorentine ma il PD locale non pare aver ancora metabolizzato quel passaggio. Quella che semplicisticamente sui giornali viene spesso descritta come una lotta tra renziani e antirenziani nasconde in realtà una diversa visione della politica e del rapporto di questa con la società.

Da una parte, volendo semplificare parecchio, c’è una parte del PD fiorentino, quella più legata alla tradizione dei vecchi DS, che considera quelle primarie e Matteo Renzi un accadimento temporaneo, un anomalia che prima o poi terminerà e tutto tornerà, se non proprio uguale, molto simile a prima. Dall’altra parte, quella meno legata ai vecchi partiti, assistiamo a una specie di fervore iconoclasta tutto volto all’innovazione, al nuovo e al superamento (spesso acritico) di quelle che una volta avremmo chiamato strutture e sovrastrutture.

Ficattole contro Facebook se vogliamo trovare un immagine anche delle polemiche di questi giorni tra partito “tradizionale” e Officine democratiche. Eppure se una cosa poteva insegnare l’esperienza di Matteo Renzi era che i due aspetti potevano e dovevano trovare una sintesi. Per il momento la sintesi il solo ad averla trovata è stato proprio l’attuale sindaco che però (ed è difficile dargli torto) ha esercitato questa capacità sempre in ambito amministrativo e mai in quello partitico, neppure quando ne guidava uno.

Dunque ai democratici fiorentini sarebbe necessario, almeno a parere di chi scrive, pensare di trovare una sintesi non tanto in un uomo solo ma in un modo di intendere il partito, anche perché il modello di riferimento, sociale e politico, antecedente alle primarie non potrà mai tornare, mentre il solo efficientismo che si volge alla società civile, rischia di non essere sufficiente a una forza politica che intende governare per davvero e non solo fare accademia.

E’ proprio in tempi in cui la politica subisce il maggior discredito presso la pubblica opinione che i partiti avrebbero necessità di ripensare sé stessi per svolgere, di nuovo, un ruolo di portatori e mediatori di interessi collettivi in sintonia però con la società che si ambisce governare.

Subalterni e contenti

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 marzo 2011.

La rivoluzione si sa, non è un pranzo di gala. Nemmeno quella, col sorriso, di Matteo Renzi a Firenze sfugge a questa regola, e se uno dei tratti più innovativi del nuovo corso è la messa in discussione delle vecchie liturgie dei partiti e delle istituzioni e un riacquistato rapporto diretto tra governati e governante, questo a giudizio di molti osservatori è avvenuto a spese dei partiti e delle istituzioni quali giunta e consiglio. Così assistiamo, aldilà della promessa elettorale, a una giunta di facce nuove sì ma incompleta da quasi un anno di un membro (peraltro di genere femminile) per l’avvenuta promozione dell’assessora Scaletti (IdV) al soglio regionale. Un anno è un tempo che, nella vecchia politica, sarebbe stato impensabile, oggi appare naturale, e nemmeno il partito “sacrificato” sbraita più di tanto e si accontenta di annunci di rimpasto fatti dal sindaco che assomigliano alla Tempesta di Shakespeare, di cui in tutto il dramma si parla ma in scena mai si vede.

Non appare difficile dunque che David Allegranti possa, nel suo bel libro su Renzi, descrivere un quadro della giunta (e più in generale del renzismo) fatto di Matteo Renzi e di consiglieri fedeli posizionati principalmente al di fuori dalle istituzioni e dai gruppi dirigenti dei partiti, e dunque se non sorprende che qualcuno possa essersi risentito di questa analisi, questi ultimi abbiano però confuso il cronista con l’agente.

Altra rottura della liturgia istituzionale appare anche la recente vicenda della presidenza del consiglio comunale che, dopo la nomina di Eugenio Giani a consigliere regionale, presenta un caso di triplo incarico per lo stesso: presidente del consiglio comunale, consigliere comunale e consigliere regionale.

Seppur disponibile a lasciare il primo dei tre incarichi, Giani, ha rimesso tale decisione alla volontà del Sindaco il quale  pare abbia rinviato il tutto al solito rimpasto.  Un mix di stili politici vecchi e nuovi che, a modesto parere di chi scrive, indebolisce ancor di più il consiglio comunale e rafforza l’immagine di subalternità di questo non più rispetto ai partiti ma al sindaco stesso. Si badi bene è un modello, che deriva dalla legge elettorale, che Renzi sfrutta benissimo ma che certo non è sua invenzione.

Questo però avviene anche perché, evidentemente, al consiglio (e in particolare ai consiglieri di maggioranza) tutto ciò alla fin fine sta bene, perché nel caso dei comuni essi avrebbero non solo la sovranità formale ma anche quella sostanziale essendo eletti con le preferenze e non nominati come, per esempio, i loro colleghi regionali.  Un tema che sarà bene che si tenga a mente quando si riproporrà la cosiddetta frustrazione dei consiglieri rispetto all’esecutivo.

Dall’ordinario all’emergenza

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 23 dicembre 2010

Nella ricerca delle responsabilità per il caos neve dello scorso fine settimana è tutto un fiorire di ipotesi e “colpevoli”.

Si definisce fenomeno la neve a dicembre, si contestano i centimetri previsti rispetto a quelli veramente caduti, è colpa degli autobus, no è colpa degli spargisale, non c’era il sale, il sale c’era ma non serve e tutti si improvvisano ingegneri, meteorologi o dirigenti della protezione civile, con la stessa disinvoltura con cui si trasformano in allenatori della nazionale di calcio.

Uno dei punti più sottolineati, e non a torto, da amministratori e commentatori è stato la congestione del traffico privato che ha paralizzato i mezzi pubblici e quelli di soccorso.

Un problema che, però, è ben presente anche senza la neve. Soltanto il mercoledì precedente alla nevicata la città era infatti stata paralizzata da un incidente sui viali e, complice il freddo e il Natale, il traffico era e rimane sostenuto in città.

Dunque come si può immaginare che una città che è abituata a muoversi con il mezzo privato lo lasci a casa proprio nel giorno in cui fa più freddo e l’uso di motorini e biciclette è precluso o ancor più faticoso?

Certo si può fare appello al senso civico dei propri cittadini invece che rassicurarli con frasi a  effetto sull’efficacia del proprio piano neve, ma è dura pretendere senso civico un giorno l’anno dopo aver fatto passare il messaggio opposto in continuazione.

Non deve sfuggire nella riflessione sull’emergenza il messaggio che questa amministrazione ha dato ai propri cittadini fin dalla campagna elettorale. Pur con intenzioni certamente diverse, la somma di alcuni provvedimenti ha dato il senso quasi di un invito all’uso dell’auto.

Prima l’abolizione dei vigilini che multavano le infrazioni delle ZCS, poi il ridisegno stesso delle ZCS che hanno assunto le dimensioni di interi quartieri non funzionando più da dissuasori alla mobilità interna agli stessi. Infine il ridisegno delle linee ATAF a seguito della pedonalizzazione del Duomo che ha, di fatto, reso meno comodo e pratico il servizio autobus.

Anche la discussione sulla tramvia fuori dal centro non ha, a mio avviso, contribuito a far crescere nei cittadini la voglia di mezzo pubblico.

Per contro le corsie preferenziali restano le stesse, non aumentano e non sono protette, in continuità con quanto fatto (male) in precedenza e il governo nazionale ha, sciaguratamente, tagliato pesantemente i fondi al trasporto pubblico.

Se dunque si mettono in fila tutti questi provvedimenti che presi singolarmente possono risultare persino piacevoli per il cittadino e si mischiano alla pigrizia, allo scarso senso civico e a una certa ritrosia alle norme del codice della strada, si ottiene una miscela esplosiva a cui la neve ha fatto solo da bianco detonatore.

Certezza d’innocenza

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 dicembre 2010

E’ stata depositata pochi giorni fa la sentenza con la quale il tribunale di Firenze ha assolto gli allora sindaci di Firenze, Sesto, Campi, Signa, Calenzano  e Scandicci, i loro assessori all’ambiente e l’ex presidente della Regione Claudio Martini e il suo assessore all’ambiente Marino Artusa.

Il processo è quello passato alle cronache come quello al PM10 in cui gli amministratori erano imputati di non aver messo in campo le azioni necessarie a combattere contro l’inquinamento dell’area fiorentina.  Siccome però era un processo penale agli imputati non veniva contestato di non aver adempiuto alla normativa nazionale ed europea in materia ma di aver cagionato, col loro governare, danni alla salute dei cittadini. Un accusa grave dunque.

Ora leggere le sentenze non è mai semplice ma è sempre molto istruttivo. Di solito ci si trova di fronte ai dubbi che ai giudici si sono presentati durante l’inchiesta e, soprattutto, durante il dibattimento. Affiorano perplessità e la responsabilità di decidere della vita di altri uomini. Di solito. Questa volta invece siamo di fronte, almeno a parere di chi scrive, ad una sentenza senza alcun dubbio. Gli imputati sono innocenti e senza tanti fronzoli e tutte le argomentazioni dell’accusa sono analizzate e demolite punto per punto.

Ci si potrebbe fermare alle prime pagine della stessa per capirlo. Quando il giudice estensore descrive le varie perizie resesi necessarie per stabilire se la tesi dell’accusa avesse spessore scientifico ovvero se fosse quella della difesa ad averlo, giungendo alla “presa d’atto della insanabile divergenza delle tesi e conclusioni sull’argomento, in un ambito peraltro di pari dignità scientifica” che di conseguenza, da sola, avrebbe reso gli imputati assolti.

Insomma, aggiungo io, se invece di un processo si fosse fatto un dibattito scientifico ci saremmo potuti accorgere che nessuno ha la bacchetta magica contro l’inquinamento e che questo ha poco a che fare con l’azione penale.

Ma in sintesi la tesi del giudice è che se si guarda a come sono migliorate le condizioni igienico sanitarie dei territori europei in così breve tempo dalla peste manzoniana, anche grazie alla motorizzazione di massa, “le disquisizioni sulla presenza oggi nell’aria del PM10 […] e della sua relativa nocività perdono ogni connotazione drammatica, ed evidenziano come solo popolazioni evolute […] possono porsi in maniera così coinvolgente problemi come quello di cui si occupa il presente processo

Insomma mi rassicura che non sono stato il solo a pensare a questo processo come un azione a dir poco discutibile, che è durata diversi anni, che è costata tempo e denaro a tutti noi, che ha distolto uomini e risorse ad una giustizia penale che, probabilmente, aveva altre priorità.

Il tutto senza che nessuno possa, vista la mancanza una vera legge sulla responsabilità civile dei magistrati, chiedere conto di questo processo, senza poi che la carriera dei magistrati abbia la benché minima traccia del tempo perso.

Nel frattempo una classe politica è stata descritta, per diversi anni, come pericolosa per i cittadini, è stata inquisita, processata e infine giudicata. Innocente.

Perchè Renzi ha già vinto il congresso PD

Dal Nuovo Corriere di Firenze di oggi.

E’ probabile che alla fine i candidati appoggiati da Renzi prevarranno, ma anche se così non fosse il sindaco, il congresso del PD lo ha già vinto. Per (molti) suoi meriti e per (molti) demeriti dei suoi avversari.

Intanto Renzi in questo anno e mezzo ha fatto il sindaco e mai il segretario di partito, a differenza del suo predecessore. Non ha messo bocca nelle vicende del PD fiorentino e poco anche in quelle del gruppo consiliare, ha conservato il suo ottimo rapporto coi cittadini, ha mantenuto consenso personale e ha occupato la scena della politica amministrando e facendo operazioni di comunicazione e di costruzione del consenso perfette come i 100 luoghi. Non occupando la scena del partito è riuscito ad occuparne il campo, a surrogarne i compiti e ad essere oggi lui l’unico soggetto politico.

Accanto a ciò ha ridimensionato o ammansito i suoi vecchi oppositori ed adesso lascia loro la (possibile) partita per le candidature alle prossime politiche. Un potere non piccolo direte? Una partita che Renzi, però, non ha bisogno di giocare. Il suo potere all’interno del PD non passa da qui. La partita di Renzi è ormai una partita romana, ha saputo diventare un leader nazionale e i suoi interlocutori sono Veltroni, D’Alema e Bersani non certo i loro luogotenenti locali.

Infine ha, anche qui per molti demeriti altrui, pressoché annullato la componente pistelliana approfittando della lontananza di Lapo, della frammentazione dei suoi simpatizzanti e della mancanza di leader possibili per capacità e autorevolezza riconosciuta. Risultato? La scomparsa di una componente organizzata che, sulla carta, poteva essere la vera “opposizione” interna.

Se questi i meriti di Renzi, quali i demeriti dei suoi avversari? Uno su tutti, lo sguardo rivolto al passato. Vale per Cioni e i cioniani innanzitutto. In una città che ha tripudiato Renzi in quanto fine del “regime” Domenici, come può apparire credibile l’ “opposizione” di Cioni e di Albini? Per quanto possano essere in buonafede i due rappresentano un sistema di potere che Firenze aveva finito per detestare e che nessuno vorrebbe oggi indietro. Ma lo sguardo al passato è lo stesso che caratterizza il competitor istituzionale Barducci. Per i metodi innanzitutto: caminetti nelle stanze di palazzo, accordi con sindaci e “potentati” locali. Anche i contenuti però non mancano: Barducci è stato per cinque anni il vice di Renzi, senza nulla da ridire né sui modi né sui contenuti.

Analogo discorso vale per i sindaci della Piana, prima hanno atteso la fine di Domenici confidando nella perdita di potere di Firenze per aumentare quello loro di veto. Quando poi si sono trovati davanti il dinamico Matteo non hanno fatto altro che esercitare quel veto. Posizione che forse renderà sul piano amministrativo ma di certo non costruisce egemonia.

Infine il cosiddetto “partito dei circoli”, che pensa di rispondere alla comunicazione in tempo reale di Renzi con documenti della base, assemblee e ritorno alle sezioni come luogo di mediazione degli interessi. Un po’ come dire che una volta inaugurata la TAV debba essere percorsa da locomotive a vapore.

Ecco perchè Renzi ha già vinto, perchè la sua è al momento l’unica chiave di lettura della città contemporanea, e quindi, qualunque sia il risultato dei congressi, lui resterà, se non l’unico e possibile, almeno il prevalente interlocutore dei cittadini nei confronti della politica sul versante PD.

Dunque non esiste alcuna possibilità per chi ha una visione politica diversa, non omogenea a Renzi? No qualcosa potrebbe esserci. Intanto Renzi non è il renzismo, anzi il renzismo non esiste. Renzi è ditta individuale, il suo non è un sistema di potere plurimo. Non che non esista un inner circle renziano di fidati e validi collaboratori, ma questi sono più “tecnici” che “politici”.

Un uomo solo, per quanto bravo e per quanto possa lavorare come Stakanov, resta un uomo solo, soprattutto di fronte ai problemi. Costruire su questo opzioni, non in contrasto, ma in ausilio alla politica del sindaco è uno spazio politico che si potrà aprire. Servono però competenze e idee da offrire, poco spazio per le ambizioni personali e un orizzonte che al momento può apparire lungo.

Altra strada da percorrere è quella di essere più contemporanei di Renzi. Di “sfidarlo” sul suo terreno, essendo capaci di parlare la lingua (avendo naturalmente qualcosa da dire) con la quale Renzi si rivolge ai cittadini. Occupare il suo stesso spazio politico. Non è un problema di anagrafe ma di freschezza mentale. Di riferimenti culturali e politici.

Quest’ultima è una strada ancora più lunga, significa rompere con rassicuranti abitudini e posizioni di rendita, di rimettersi a studiare e di fare sfoggio di umiltà. Di imparare dai propri errori e dalle capacità dell’avversario.

Alla fine però resta l’unico modo per costruirsi come alternativa o come interlocutore vero. Per rappresentare qualcosa di più di sé stessi o al massimo dei propri (pochi) iscritti.

Una moschea a Firenze oggi, mica nel 1523

L’autore del progetto della Moschea di Firenze apparso nei giorni scorsi sui quotidiani, l’architetto David Napolitano, affida anche a Facebook la difesa del suo progetto criticato quasi unanimemente da esperti, colleghi e cittadini comuni. Una critica che faccio mia pensando che quanto visto sia una pessima scopiazzatura di edifici fiorentinti rinascimentali pensata più con l’intento di “mimetizzare” le differenze che altro. Un progetto brutto, senza appello, sia sul piano estetico che su quello del messaggio che vuole inviare, almeno per chi scrive.

Ma il suo progettista non pago di aver messo d’accordo praticamente tutti (favorevoli e contrari alla moschea) sul no a quel copia incolla in salsa finto rinascimentale, prova a difendere il suo lavoro con quattro pagine fitte di citazioni dal Vitruvio Pollone, ai pitagorici, passando per il Corano, Salomone e (come poteva mancare?) Leon Battista Alberti.

Sul suo progetto poche a mio avviso inutili righe finali in cui afferma che il suo progetto si pone nella pienezza della “dottrina” e che “la finalità [dell’]architettura classica non è la novità, ma l’armonia” e poi, commentando la nota, si definisce colui il quale è “capace di riprendere il discorso interrotto a Firenze nel 1523”.

Ora, intanto se quel discorso da circa cinque secoli si è interrotto e l’architettura è andata avanti qualche motivo ci sarà, ma volendo anche riprenderlo per buono, ciò non significa che la ripresa significhi riproposizione tale e quale di quanto già visto e già fatto. L’architetttura oltre che scienza é pure sfida, tecnica e simbolica, è lettura del presente e prefigurazione del futuro. Capacità di sopravvivere alle mode e al momento. La forma di arte più immediata e di consumo generale. Insomma tutta l’architettura è stata contemporanea, anche quella classica e proporre non la rivisitazione, l’omaggio al classico ma la sua palese e manifesta riproposizione è sintomo di vecchiaia intellettuale e del fatto che la conoscenza della dottrina è condizione necessaria per superare l’esame di storia dell’architettura non per progettare, oggi, un edificio così simbolicamente pregnante.

Infine il giudizio sul valore simbolico dell’opera. Una moschea in occidente e di questi tempi è uno degli edifici di più difficile concezione. Deve evitare di essere un simbolo di sfida a un occidente smarrito e impaurito di fronte all’islam ma, a mio parere, deve anche evitare il rischio opposto, quello di essere un’ipocrita e rassicurante copia di quanto a noi noto e conosciuto. Entrambe le scelte finiscono per rendere quel luogo ostile, altro ed estraneo alla città in cui si dovrà collocare. Quale soluzione? Forse quello di ibridarsi, di mescolare concezioni e tecniche. Cercando elementi di comunione (architettonica, simbolica e religiosa) e elementi di rottura, dosando bene entrambi. Mi viene in mente la facciata dell’Institut du Monde Arabe progettato da Jean Nouvel a Parigi, dove centinaia di diaframmi meccanici compongono un disegno di arabeschi.

Insomma gioverebbe, allo sterile e immobile dibattito moschea sì, moschea no; un progetto all’altezza del presente e della sfida posta dalla costruzione di una Moschea a Firenze oggi e non nel 1523.