Due olive (greche)

mario-gomez

Devo premettere che a differenza dei tanti (troppi) tifosi da social network io, sulla vicenda greca, ho poche certezze; tuttavia a me stupisce una cosa in questa faccenda: ci si indigna per anni per l’Europa che si occupa dell’acqua delle mozzarelle (cit.) e si invoca un’Europa che faccia politica, poi quando la fa (anche se quella politica non ci piace) come in questo caso, si dice che è un Europa di tecnocrati. Quella di questi giorni è politica; nemmeno nazionale, anzi. Quello che si è coalizzato intorno alla posizione tedesca è una specie di internazionale della destra europea (a cui non si accoda praticamente solo la destra italiana, non a caso). Questa idea della Germania che conquista la Grecia, oltre che assurda (che vuoi che se ne faccia la Germania di un’economia che esporta solo olio d’oliva o di una società elettrica che vale meno di quella di Brema) è pericolosa perché riporta il discorso all’ottocento, mentre qui siamo ben oltre. Quella di queste ore è un’Europa politica. Se non ci piace occorre batterla sulla politica, non piccarsi sui tedeschi brutti e cattivi. Qui si avverte la drammatica scomparsa del socialismo. La nostra sconfitta. Che però è mica cosa di oggi. Dopo la stagione del tentativo di addomesticamento del capitalismo globale (Blair, Jospin, Schroeder) siamo al nulla, alla subalternità di pensiero. A Fassina (per dirne uno) che indica nel Papa l’unica sinistra. Ci siamo dimenticati dei rapporti di forza (lo scriveva Gianpasquale Santomassimo su facebook l’altro giorno anche se immagino lui si riferisse più alla sinistra alla Tsipras), dell’analisi dei fatti, del concetto di egemonia. Oggi i fatti dicono che il continente Europeo è a maggioranza (culturale prima che politica) alla forze della destra liberal/liberista o mercatista (secondo le vostre preferenze lessicali), che non esiste un modello economico, sociale, culturale alternativo al cosiddetto rigore. Confondere questa egemonia con la mancanza di strutture democratiche dell’Unione è come guardare il classico dito. Certo che non esistono strutture democratiche in Europa, ma non perché i plutocrati brutti e cattivi non le hanno volute, è così perché i cittadini (laddove su queste cose si è votato analogamente a quanto accaduto con il voto al referendum greco) hanno fatto fallire quel (seppur timido) progetto, magari anche perché non è stato mai reso un progetto popolare. Una volta persa quella battaglia (della cui sconfitta molta responsabilità pesa su SPD e soprattutto socialisti francesi) non si è messo in campo niente per riprendere la lotta in altre forme. Dire oggi che serve più Europa è come dire per tutta la scorsa stagione che serviva un attaccante alla Fiorentina che la mettesse dentro. Era vero ma non serviva a molto.

 

Come si smacchiano i giaguari in tedesco?

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 01 dicembre 2011

Fossi in Pierluigi Bersani inizierei a chiedermi come si dice “smacchiare la coda ai giaguari” in tedesco, perché come notava giorni fa un amico su facebook, non è un gran problema se i socialisti han perso in Spagna, potrebbero persino riconfermare Sarkozy in Francia ma il tema vero è come far vincere l’SPD in Germania. Già perché è in Germania che la crisi si è arenata e rischia di portare conseguenze ancora più grandi. In fondo sia noi che soprattutto la Grecia abbiamo patito conseguenze più dolorose anche perché in questo anno si è votato a più riprese nei lander tedeschi e la cancelliera Merkel ha subordinato spesso e volentieri decisioni relative al fondo salva stati e più in generale le politiche dell’Unione alle spicciole campagne elettorali interne.

Certo nessun governante è immune all’andamento elettorale casalingo in un sistema in cui la rappresentanza politica e democratica diretta dell’Unione semplicemente non esiste ed è demandata all’accordo degli Stati e troppo tardi ci accorgiamo di quanto avessero ragione quelli che di fronte alla proposta di Costituzione della UE profetizzavano che il non aver, allora, ceduto sovranità ad un Unione politica lo avremmo pagato caro.

Dunque il tema di come riportare al centro del dibattito l’europeismo e di cedere a istituzioni comuni democratiche ed elette direttamente, pezzi di sovranità politica, economica e fiscalità è il tema di una possibile via di uscita dalla crisi che non sia l’imbarbarimento, la fine dell’Euro e quel che appare ancora più temibile il ritorno alle Patrie alle loro alleanze e ai loro interessi confliggenti.

In Germania, anche per il peso ingombrante della propria storia nel XX secolo, l’europeismo è stato un tratto comune delle forze democratiche, spesso anzi più marcatamente evidente nel campo democristiano che in quello socialdemocratico. Oggi non solo il governo Merkel ma l’intera società tedesca avverte come meno importante il legame europeo. Lo provano le molte discussioni alla corte costituzionale sui vincoli esterni alla legislazione di Berlino e i dibattiti sempre più manifesti sulla creazione di un Euro forte che abbandoni i paesi fuori dell’influenza tedesca. Un dibattito che ha ragioni più culturali e politiche che economiche visto che la Germania ha soltanto beneficiato finora dell’unione monetaria e che Berlino esporta nell’area Euro più di chiunque altro al mondo.

Se vogliamo bene all’Europa e anche, di conseguenza al nostro Paese, forse ci dovremo attrezzare a pensare più che alle nostre perenni (e sempre più ininfluenti) campagne elettorali a quella tedesca e fare il tifo perché prevalgano quelle forze, SPD su tutte, che spingono per un una Unione Europea più forte e più democratica.

Se radio Londra non trasmette più

Dal Nuovo Corriere del 8 settembre 2011.

Oggi, come nel 1943, l’Italia è il ventre molle dell’Europa. Allora lo era come favorevole secondo fronte, fortemente sostenuto dai britannici, da offrire all’assediato Stalin, oggi lo è in un attacco all’Euro e alla politica economica europea. Allora inglesi e americani si trovarono a Casablanca e decisero l’invasione della Sicilia che ebbe anche come corollario non proprio felice, l’attivazione della rete della mafia italo-americana di New York per costituire teste di ponte favorevoli agli alleati nell’isola.

Oggi nessun vertice ha programmato l’invasione ma nessuno dubita che il nostro paese sia sotto attacco finanziario ed oggi come allora nessuno nutre grosse speranze che le nostre truppe possano resistere. Non certo dopo 4 manovre (ma il conto è probabilmente errato per difetto) in meno di un mese e una classe di governo incapace di articolare una frase di senso compiuto figurarsi delle misure economiche e finanziarie. Tanto che temo che il testo finale della manovra assomiglierà a quelle composizioni futuriste fatte di Zang,bam, bum, zang. Questa volta poi non c’è neanche l’”alleato” germanico che pare invece usare (con scarso successo) la retorica anti-italiana per propri fini elettorali interni.

E soprattutto manca la perfida Albione. Chi scrive si è convinto che tanti dei problemi che attraversa l’Europa oggi derivino anche dalla ancora più accentuata politica euroscettica britannica. Una politica tradizionale, attenuatasi nei primi anni del blairismo e poi ripresa dagli stessi laburisti alla fine del loro ciclo e teorizzata e ampiamente praticata dal governo conservatore-liberale di David Cameron. Non abbiamo controprova ma l’assenza britannica a controbilanciare l’asso franco-tedesco si è sentita e si sente molto. Parigi e Berlino hanno svolto una funzione propositiva e di salvaguardia quando erano governati da forze politiche, uscite dalla seconda guerra mondiale, che portavano nel proprio ricordo personale cosa avessero prodotto gli interessi nazionali. Non che questo avesse impedito una CEE prima e una UE dopo dove i governi la facessero da padroni, ma nel quadro di elementi valoriali forti e condivisi. In quel contesto la Gran Bretagna, seppur sempre fortemente euroscettica, ebbe comunque un ruolo, prima di dama da corteggiare per entrare nella comunità, poi di ponte e “garanzia” coi cugini atlantici, che seppur fossero “due popoli divisi dalla stessa lingua” come diceva Oscar Wilde, erano soliti prestare attenzione e fede a quanto Londra diceva o faceva.

Per questo spero con forza che almeno il Next LAbour di Ed Milliband riaccenda, fosse anche timidamente, un ragionamento sull’Europa nel suo appuntamento di Liverpool, ne avremmo da guadagnare, come già nel 1943, per primi noi italiani.

L’occidente decadente e reazionario

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 1 settembre 2011.

Se ho ben interpretato le parole del governatore della BCE Trichet, sentito negli scorsi giorni dal Parlamento Europeo, in Europa non mancano i soldi, che anzi ci sarebbero eccome, ma l’economia è bloccata per la paura ed il timore, sia rispetto ai debiti pubblici che all’andamento dell’economia europea ed americana. Insomma una versione tecnica e colta dell’affermazione berlusconiana della crisi soltanto psicologica. Personalmente credo che la paura c’entri fino ad un certo punto; credo però che su una cosa Trichet abbia pienamente ragione, cioè sul fatto che i soldi ci siano eccome.

Anche le settimane di speculazioni estreme su Italia, Francia e (in parte) Germania hanno sì bruciato miliardi che però non sono scomparsi nel nulla ma, nella stragrande maggioranza dei casi, sono passati dai piccoli ai grandi investitori. La crisi ha quindi accentuato la forbice fra ricchi e poveri, travolgendo spesso il ceto medio (quello vero e non quello di cui parlano Casini e la CEI per eliminare il contributo di solidarietà per i redditi personali superiori a 90.000 Euro) e bloccato la redistribuzione di redditi e ricchezze. In questo senso l’accumulazione di ricchezza in poche mani spesso ha come corollario la riduzione delle forme (e della sostanza) della democrazia e delle forme di partecipazione sociale e politica che senza arrivare alle oligarchie dell’est europeo rappresentano un modello molto distante dalla democrazia rappresentativa pur mantenendone le istituzioni.

Negli anni ’90 andava per la maggiore un economista, Amartya Sen, che ha a lungo spiegato come il modello di sviluppo indiano fosse migliore di quello cinese, grazie alla democrazia e all’istruzione. Osannato dalla sinistra in cerca della terza via è stato riposto in tutta fretta, trafitto dalla crescita cinese e dal turbocapitalismo che ci spiegava come la Cina avrebbe rappresentato un mercato per noi occidentali in grado di “bastare” alla nostra crescita. Forse andrebbe ripreso in mano oggi Sen, cercando di legare sviluppo alla redistribuzione dei redditi, impedendo l’accumularsi di fortune nelle mani di pochi, ben coscienti che una società di consumi non avrà mai abbastanza ricchi per crescere coi soli beni di lusso.

Nei giorni in cui la nostra attenzione è (giustamente) tutta concentrata sul solo debito pubblico, non bisogna dimenticare di ascoltare quei pochi, siano liberali convinti che la crescita si avrà con meno Stato e tasse, siano socialdemocratici convinti che siano necessarie politiche e servizi per la redistribuzione della ricchezza, che dicono che il rigore dei conti e il pareggio di bilancio rischiano di essere solo un modo sereno di giungere alla decadenza del nostro occidente.

Il vicolo cieco e la rivoluzione

Dal Nuovo Corriere di Firenze 11 agosto 2011.

C’è almeno un paradosso pericoloso nella crisi che stiamo vivendo. Da ogni parte ci dicono che il neoliberismo è fallito ma contemporaneamente le misure che ci vengono via via imposte null’altro sono che continuazione di politiche fortemente influenzate dal pensiero neoliberista.  Basti pensare alla discussione sull’inserimento in Costituzione del vincolo di pareggio di bilancio. Una misura che limita il potere dei governi, e dunque della politica, di fronte ai meccanismi dell’economia e della contabilità. Si badi bene, questo non vuol dire che sia bello indebitarsi “a bocca di barile” ma subordinare le politiche sociali e i servizi da dare ai cittadini (scuole, ospedali, trasporti…) ai meccanismi contabili è la prosecuzione (o meglio l’aggravamento) delle politiche di vincolo degli anni novanta (ricordate Maastricht?) che non hanno risolto i problemi strutturali del Paese.

Non c’è speranza (gli ultimi 18 anni sono lì a dimostrarlo) di  uscire dalla crisi senza uno scatto di cessione di sovranità vera verso strutture sovranazionali finalmente politiche e non solo monetarie. Quello che serve oggi ( e soprattutto domani) è più Europa, più Europa dei popoli e non di Stati. Una guida finalmente politica e democratica, cioè eletta direttamente dai cittadini europei, almeno dell’economia e della fiscalità europea. Già oggi vediamo il fallimento di un Europa di Stati spinti dai loro interessi nazionali. Da un lato la Gran Bretagna di Cameroon di fatto si è isolata e disinteressata della crisi europea sperando di far passare la nottata in solitudine. Le immagini delle rivolte londinesi iniziano a dirci che forse nemmeno il leone inglese potrà cavarsela da solo, di fronte ad un intera generazione che non ha nulla da perdere, nemmeno le sue catene. Sul continente le paure tedesche condizionano e spesso bloccano interventi tempestivi ed efficaci (come nel caso greco) e l’esposizione di bilancio francese rende debole l’azione francese. Col rischio davvero reale che la costruzione europea vada in fumo non solo con l’abbandono dell’euro ma con la regressione alle piccole patrie e al nazionalismo spesso carico di odio.

Eppure qui da noi si pare più interessati al destino di un singolo esecutivo (quello in carica o quello apotropaico dei tecnici) piuttosto che al respiro lungo che servirebbe per uscire dalla più profonda crisi degli ultimi trent’anni. Solo poche voci isolate o di anziani saggi (Bonino, Ciampi, Amato, Napolitano) innalzano il coro dell’Europa soluzione possibile, mentre il governo affanna e le opposizioni si chiedono se potranno reggere i tagli che i podestà stranieri o italiani imporranno ed un’intera generazione di giovani latita dal dibattito pubblico mentre il suo futuro si decide di ora in ora. Diceva Brecht che solo nei vicoli ciechi si possono fare le rivoluzioni, basterebbe non essere così tanto miopi da non vedere il muro in fondo al vicolo italiano.

Costi (europei) della politica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 luglio 2010.

Mentre da noi si sbraita (senza costrutto) sui costi della politica, sulle riduzioni degli stipendi dei parlamentari, in Francia, colpita da un affaire che riguarda presunti finanziamenti irregolari al partito del presidente Sarkozy, il principale quotidiano del Paese, Le Monde, ha realizzato un inchiesta su come si finanziano i partiti nel continente europeo.

Il quadro che è esce è molto frastagliato, a partire dalla stessa Francia dove l’assenza di validi strumenti normativi ha reso possibile, negli anni, numerosi scandali legati a finanziamenti occulti ai partiti.

In Spagna, per esempio il finanziamento è, per la maggior parte pubblico, proporzionale al risultato delle ultime legislative. Si tratta di circa 140 milioni di Euro ogni anno per il funzionamento ordinario dei partiti , più rimborsi elettorali in funzione dei seggi, del numero di votanti e di iscritti.

Completamente opposto il caso inglese in cui le sovvenzioni sono essenzialmente private. Gli aiuti dello Stato si concretizzano in spazi televisivi regolamentati, agevolazioni postali e la messa a disposizione di luoghi per fare riunioni. I contributi privati devono essere divulgati solo se superiori alle 5.000 sterline (circa 6.000 Euro),mentre esistono severi tetti di spesa alle campagne elettorali.

Stranamente opaco il sistema svedese che non obbliga i partiti a rendicontare l’origine dei loro fondi, tuttavia i partiti pubblicano autonomamente questi dati.

In Germania invece non esistono limiti al finanziamento privato che anzi è particolarmente invogliato dalla detassazione di tali somme. I contributi superiori a 50.000 Euro sono pubblicati dal sito del parlamento mentre quelli inferiori non subiscono alcun controllo. Nonostante lo scandalo dei fondi neri alla CDU di Helmut Kohl, il sistema non pare capace di garantire la necessaria trasparenza.

E in Italia? Se per una volta il nostro Paese può dirsi in buona compagnia con gli altri partner europei, bisogna riconoscere che da noi, al solito, le cose sono ancora più complicate.

Intanto non dovrebbe esistere, stante il risultato di un referendum abrogativo, alcun finanziamento pubblico ai partiti. E infatti dal 1994 si chiama rimborso elettorale. Ora, il termine rimborso, implicherebbe che uno spende dei soldi e questi vengono restituiti. Non è così però che funziona; infatti ogni formazione politica che ottenga l’1% (era il 4% fino al 2002) dei voti validi alle elezioni partecipa alla ripartizione dei fondi che sono calcolati non sul numero dei votanti ma degli aventi diritto. Tanto per dare due cifre l’impegno di spesa per la penultima legislatura è di 468.853.675 Euro.

Accanto a questo quasi nulli i controlli ai fondi privati. Esiste una modesta detassazione per i contributi superiori ai 500 Euro ma nessun obbligo stringente sui bilanci dei partiti. Discorso a parte la sovvenzione pubblica alla stampa di partito che, in realtà, più che sovvenzionare i partiti tiene in vita molti dei quotidiani in edicola.

Infine pochissimi sanno che è possibile donare il 4 per mille del proprio IRPEF anche ai partiti politici.

Il fatto che nessun partito abbia mai fatto una campagna di comunicazione su questo tema dimostra come ci sia, all’interno dei partiti stessi, la consapevolezza di non essere in sintonia col Paese su questo tema.

L’addio di Rutelli al PD

MotoGuzziV7Sport

C’è un pezzo nella lettera di addio di Rutelli al Pd, pubblicata oggi da Europa, che mi ha molto colpito.

E’ questa: “Capisco che per alcuni di voi, assuefatti al realismo delle relazioni partitiche, il fatto che Bersani non mi abbia rivolto in cinque mesi neppure una telefonata (neanche quando gli ho inviato il mio libro con una dedica amichevole…) possa rientrare nel business as usual.
Ma è gravemente sbagliato. Chi è stato leale con me e, anche grazie a me, ha partecipato a un cammino importante, dimostra in questo modo una perdita di orientamenti fondamentali.”

Non discuto la scelta di Rutelli. Non la condivido, penso però sia molto meno opportunista di quanto la dipinga molta stampa progressista e di come la viva una larga parte del popolo del PD.

Quello che mi ha colpito della frase è il livello di rapporti interni a un partito. E’ una condizione che molto (ma molto) più in piccolo anche io ho vissuto sulla mia pelle.

Dunque la frase di Rutelli ci interroga sul fatto che un partito sia qualcosa di più di un luogo in cui si ricerca (legittimamente, correttamete) e si esercita il potere al fine di un progetto, una visione, un ideale. Ci ricorda che i partiti sono comunità di donne e di uomini uniti da quel progetto, quella visione, quell’ideale. E ciò ha valso in modo maggiore nella tradizione dei grandi partiti di massa novecenteschi, sia popolari che socialisti (si pensi alle strutture dopolavoristiche della SDP tedesca) che per i comunisti italiani e francesi (si veda su questo il bel libro Maisons Rouges di Marc Lazar).

Quello che appare del PD, sia dalla piccola visuale personale che dalla lettura delle cronache nazionali, è la mancanza del senso di coesione comune, come se la vacuità del progetto, della visione e  l’assenza dichiarata e perseguita dell’ideale avesse impedito la creazione di legami di solidarietà e vicinanza umana che racchiudano in un ideale abbraccio ogni militante, ogni iscritto e ogni dirigente. Cioè facciano dei luoghi, delle strutture e delle occasioni aggregative del partito luoghi in cui ci si senta tutti a casa propria.

Ho già scritto del senso di estraneità che ho vissuto in molte assemblee piccole e grandi del PD. Oggi riconosco quel dispiacere nelle parole di Rutelli a cui però non posso non imputare parte della responsabilità di questa degenerazione.

Egli è responsabile di aver cercato, come gli altri del resto, di sopperire alla definizione di un contesto valoriale comune con la creazione di contesti più piccoli (correntizzi?) di sodali e/o fedeli che hanno caratterizzato e caratterizzano ancora il Pd ad ogni livello. Inevitabili nel contesto di una selezione interna fatta di un modello competitivo basato sulle primarie hanno finito per essere l’unico tratto distintivo dell’agire politico del PD.

Al congresso di Firenze ricordo un appassionato e umanissimo intervento di Massimo D’Alema rivolto a Fabio Mussi che usciva, insieme alla componente di sinistra, dai DS.  Ricordo la commozione dei due e dell’intera platea, ricordo che quella storia fatta anche di vecchie motociclette spiegava meglio di un saggio cos’era stato il PCI/PDS/DS.

Per questo ha sbagliato Bersani non a cercare di impedire a Rutelli di andarsene ma a dirgli che gli dispiaceva. E se non gli è dispiaciuto ha sbagliato due volte.

Il D’Alema dimenticato dal Kossovo.

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In questi giorni mi è capitato di leggere un volume, Nato’s Gamble, che ricostruisce le vicende della guerra aerea in Kossovo nel 1999. La prospettiva dell’autore Dag Henriksen , un giovane ufficiale della Reale Aeronautica Norvegese, è quella dell’uso del potere aereo come braccio armato della diplomazia dell’Alleanza Atlantica.

Aldilà del valore del libro, quello che mi ha colpito è stata la quasi totale assenza del nostro Paese nelle vicende narrate. Nell’indice delle occorrenze il lemma Italia ricorre solo due volte e dei nostri politici l’unico citato, per una sola volta, è Lamberto Dini all’epoca Ministro degli Esteri.

Eppure il libro non è scritto da un americano, seppure sia edito dall’U.S. Naval Institute Press, anzi si tratta della rielaborazione della tesi di Dottorato discussa dall’autore all’Università di Glasgow. Dunque un autore e una prospettiva europea. E difatti molta parte del libro analizza il ruolo (o il non ruolo) dell’Europa come entità autonoma e/o all’interno dell’Alleanza Atlantica. Proprio da quell’esperienza crebbe la consapevolezza della necessità di una voce unica del continente in politica estera e, non casualmente, l’allora chairman della Nato, Solana, divenne il primo rappresentante della politica estera europea.

Invece nel nostro Paese, all’epoca, la nostra partecipazione all’operazione Allied Force fu assai enfatizzata e, i sostenitori, utilizzarono proprio il ruolo del nostro Paese all’interno della NATO come elemento a sostegno della partecipazione attiva all’operazione.  Anzi l’activation order (l’ordine di mobilitazione delle truppe) fu usato come argomento principe per respingere la richiesta di Romano Prodi di nuove elezioni al momento della sfiducia da parte di Rifondazione Comunista al suo governo. Cosa accade è storia nota, alla fine grazie alla scissione dei Comunisti Italiani e all’appoggio di Cossiga Massimo D’Alema divenne Presidente del Consiglio.

Quell’intervento lacerò e divise soprattutto la sinistra italiana. Con parlamentari al governo che visitarono “il nemico/compagno” Milosevic  sotto le bombe, manifestazioni pacifiste contrapposte a manifestazioni interventiste che si alternavano a seconda della fase politica e un premier, che sul ruolo dell’Italia in Kossovo giocò tanta parte della legittimazione interna ed internazionale degli anni a venire. Il ruolo strategico di ponte verso i Balcani, il rapporto diretto con l’amministrazione Clinton, l'”internazionale socialista” che governava gran parte del continente. Insomma grazie a D’Alema il Paese era entrato nel club ristretto di quelli che contano.

Oggi però, leggendo Henriksen, di tutto questo non c’è traccia.  Ma anche sfogliando il poderoso volume di Joe Pirjevic (Le Guerre Jugoslave, Einaudi)  il nostro ruolo ne esce piuttosto ridimensionato.

Volendo azzardare un perché a questo nostro scarso peso (almeno nella storiografia) mi viene in mente un’altra parte del dibattito di quei giorni. Cioè quella parte riguardante il ruolo militare dell’Italia nelle operazioni.

Forse qualcuno si ricorda l’espressione “difesa attiva” coniata per l’occasione per i nostri aerei.  Il che significò tutto e il contrario di tutto. L’opinione pubblica non seppe mai davvero se i nostri aerei avevano regole d’ingaggio diverse da quelle degli altri Paesi membri dell’Alleanza e quindi partecipavano solo ai pattugliamenti difensivi, oppure se parteciparono alla più massiccia campagna di attacchi aerei dopo la seconda guerra mondiale calcando l’accento più sull’attiva che sulla difesa.

Quella dell’ipocrisia delle reali funzioni dei nostri militari nelle operazioni fuori aerea è un tema che ci accompagna almeno sin da Beirut 1982 e che crea ai nostri militari imbarazzi e reticenze. E che probabilmente penalizza il nostro Paese nel circolo di quelli che contano, insieme a uno strumento militare che fatica a mettersi al passo coi tempi e a restare up to date.

E non si tratta di un problema di colore politico. Oggi, col centrodestra al governo, nonostante La Russa vestito da TopGun, i nostri Tornado in Afganistan (peraltro ne abbiamo mandati solo 2) sono lì ufficialmente solo per compiti di ricognizione. Ma è stato così per l’invio di blindati, carri armati ed elicotteri da combattimento in quasi tutti i teatri: ex Jugoslavia, Somalia, Libano, Afganistan e Iraq. Oscillando tra il “si fa ma non si dice” e le varie versioni della “difesa attiva”.

Siamo l’unico Paese al mondo in cui il Parlamento discute non sulle regole d’ingaggio generali (all’interno del contesto di alleanze definito) per le proprie truppe ma sull’uso del cannoncino Mauser di cui sono dotati i Tornado. Ci manca solo che i piloti prima di decollare chiedano l’autorizzazione alla competente commissione parlamentare piuttosto che alla torre di controllo.

Per non parlare poi delle polemiche sull’uso “facile” di fondi speciali per impedire/trattare per i rapimenti in Iraq o gli accordi presunti con i signori della guerra in Somalia che portarono a una crisi col comando Usa senza precedente, fino alle ultime polemiche sollevate dal Times sul nostro contingente in Afganistan. Anche ammettendo per certo che si tratti di pure invenzioni in tutti i casi non è forse necessario chiedersi il perché tutte le volte sorgano storie del genere? E’ ancora la retorica britannica della seconda guerra mondiale degli italiani pessimi soldati? Oppure le nostre ipocrisie e oscillazioni aiutano a costruire questo pregiudizio?

Peseranno queste considerazioni sulla scelta del prossimo responsabile della politica estera e di difesa dell’Unione Europea? Probabilmente sì ed è forse anche per questo che la candidatura, ormai ufficiale, del governo italiano di Massimo D’Alema riscuote così poca fortuna sia sulla stampa internazionale che tra i bookmakers inglesi. E forse, più che l’inesistente inciucio travaglista tra D’Alema e Berlusconi, all’ex premier costerà cara la politica bi-partisan della difesa attiva.

Piccoli passi

Come scrissi qui avevo presentato una risoluzione in consiglio comunale per sollecitare la Commissione Europea ad approvare al più presto una Direttiva orizzontale antidiscriminatoria.

Ieri l’aula del consiglio comunale l’ha votata. Il testo è passato all’unanimità, con i colleghi del centrodestra che non hanno partecipato al voto. Immagino più per la tarda ora e per il caldo e per una scarsa conoscenza dell’argomento che per una qualsivoglia contrarietà alla materia.

Lo so che è piccola cosa, ma è comunque qualcosa no?