L’impietoso rito dell’analisi del voto

 

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 20 ottobre 2011.

Quando una vita fa facevo il giovane dirigente (e vabbé) politico una delle cose a cui ci insegnavano di dare più attenzione era l’analisi del voto. Rito pseudoscentifico che si compiva dopo ogni elezione, dunque molto spesso, in cui qualcuno ci spiegava, sulla base dei duri numeri, cosa era andato storto e cosa era andato bene, e dunque come modificare l’agire politico per essere più efficaci. Naturalmente ad ogni analisi gli errori erano sempre più o meno gli stessi segno che, evidentemente, tra un’elezione e l’altra non seguivamo molti di quei consigli. Deve essere per questo che oggi neanche più si aspetta la conta dei numeri per rilasciare dichiarazioni e dire le proprie verità sui risultati elettorali così come viene.

Non sfugge a questa “regola” neanche l’elezione in Molise. E dire che la prima analisi dei numeri dell’istituto Cattaneo (da cui riprendo le cifre di questo articolo) erano disponibili in contemporanea alle prime dichiarazioni dei nostri esponenti politici.

Proviamo ad andare con ordine. Tra i primi a dichiarare il Presidente della Regione Enrico Rossi che ha affermato che la colpa della sconfitta era da attribuirsi non solo ai grillini ma anche al fatto di aver scelto un candidato presidente troppo moderato. Ecco a giudicare dai dati questa analisi pare piuttosto deboluccia, almeno come gradimento degli elettori: il povero Frattura, di cui francamente ignoro la moderazione o il radicalismo, il suo l’avrebbe fatto guadagnando rispetto al suo schieramento un più 5,7% a differenza del vincitore Iorio che ha svolto la funzione di handicap rispetto al suo schieramento con un meno 9,4%.

Ma anche la vulgata, maggioritaria ed autoassolutoria, dei grillini responsabili della sconfitta lascia un po’ perplessi di fronte ai duri numeri. Il PD in Molise rispetto alle politiche del 2008 perde il 49,8% dei voti e l’Idv il 70,9%. Ben oltre i 10.000 voti presi dai grillini.

La sommatoria dei due dati, voto disgiunto e voti ai partiti, dimostra che il problema principale è stata proprio l’offerta politica del centrosinistra a non convincere gli elettori molisani che puniscono molto di più il centrosinistra che il centrodestra. Infatti nel momento più basso del berlusconismo il PdL perde, rispetto al 2006 23.787 voti con il PD che però ne perde ben 28.842.

Una causa tra le tante? Beh ecco, a modesto parere di chi scrive, dare un occhiata alle liste del PD aiuta. Non conosco nessuno dei candidati ma un dato balza all’occhio: nelle due circoscrizioni elettorali il PD ha candidato una sola donna. Una. In barba al proprio statuto, alla logica e al buon senso. Pensare di attirare in questo modo l’elettorato femminile e quello più politicamente “maturo” è, ad esser buoni, un suicidio neanche troppo assistito.

Se dunque il rito trito e ritrito dell’analisi del voto non va più di moda, cosa che ci può pure stare,  pare che le geniali strategie delle alleanze siano egualmente efficaci nel perpetrare i medesimi errori.

E a chi manca il tonno?

Pippo Callipo è un imprenditore calabrese famoso per il suo tonno ma anche per essere uno dei simboli della Calabria che non si piega alla ‘ndrangheta e che riesce comunque ad avere successo.

Una bella figura indubbiamente e, come spesso capita, un simbolo che a un certo punto viene chiamato/sente il bisogno di portare la sua esperienza nella cosa pubblica. E’ accaduto altre volte, talvolta bene, talvolta male.

Callipo dunque non è nè il primo nè scommettiamo l’ultimo imprenditore che, ad un certo punto, si candida a governare una regione. Lo fa appoggiato da una coalizione piuttosto eterogenea che tiene dentro Italia dei Valori e Radicali e, si dice, una bella parte di scontenti del PD (tanto che il vincitore delle primarie calabresi del PD, Loiero,  gli aveva subito offerto la vicepresidenza). Ma quale che sia la sua sorte elettorale Pippo Callipo è in campagna elettorale e, si sa, le campagne elettorali costano.

Quello dei costi della politica è un tema annoso, spesso trattato con superficialità e populismo,  perso tra troppe leggi non chiare e un modo di fare, diciamo, piuttosto casual di tutti i soggetti implicati. Insomma per capirci la rendicontazione delle spesse è spesso una formalità a fronte di un “sommerso” enorme e , sia per mancanza di adeguate detrazioni fiscali sia perchè in Italia la pubblicità non piace, le contribuzioni alle campagne elettorali restano quasi sempre sconosciute.

Un tema serio in cui pochi, spesso i radicali, provano a fare qualcosa di concreto, per esempio l’anagrafe dei compensi degli amministratori pubblici.

Insomma in questo guazzabuglio il buon Callipo se ne esce con l’affermazione che la sua campagna elettorale sarà interamente finanziata da sè medesimo. E, in un intervista questa mattina, prevede una spesa di 300.000 Euro per la sua campagna.

Callipo giustifica questa scelta dicendo che in questo modo sarà più libero e non avrà pressioni né “doveri di riconoscenza” verso chi lo ha finanziato. E fin qui tutti, di primo acchito, abbiamo pensato che, in una terra collosa come la Calabria, questo non possa che essere un bene. Ma poi, se ci fermiamo a riflettere ci appare subito un’enorme mostruosità.

Cioè, se il modello Callipo fosse l’unico modo di poter far politica onestamente e liberamente, l’accessibilità alle cariche pubbliche sarebbe appannaggio solo di un parte minima (direi infinitesimale) della popolazione italiana, cioè di quelli che possono permettersi di “far transitare dal proprio conto corrente a quello del comitato elettorale” (il virgolettato è  di Callipo) 300.000 € senza alcun problema.

E gli altri? per esclusione sarebbero tutti dei mafiosi o dei prestanome di questi ultimi.

La differenza tra il populismo e la democrazia liberale sta tutta qui. I primi ammantano di democrazia una progressiva limitazione delle libertà effettive, reali, della popolazione; i secondi immaginano regole chiare e comportamenti trasparenti che fanno sì, attraverso la pubblicità, che se qualcuno riceva un contributo da qualcun’altro lo dichiari, lo esponga al giudizio e sia libero non per proprie risorse ma perchè la forza della collettività e del “sistema” lo rendono libero.

Non c’è due senza tre

In Emilia Romagna il PCI/PDS/DS prima e il PD poi governa ininterrottamente la Regione dalla sua fondazione nel 1970. Larga parte dei comuni e delle provincie della regione, a partire dal capoluogo Bologna, sono stati governati dal PCI/PDS/DS e poi dal PD quasi sempre dal 1945 in poi. Quando il capoluogo passò nelle mani del centrodestra grazie a Guazzaloca, era il 1999, fu un evento inimmaginabile e comunque quella della destra fu una parentesi (almeno sinora) quinquennale in sessant’anni di storia repubblicana bolognese.

Il PD alle ultime europee ha ottenuto il 38,9% segno che, come notava correttamente Galli della Loggia nei giorni dell’affaire De Bono, con la fine della prima Repubblica la tradizione ex comunista e quella democristiana di sinistra avevano creato un unicum che, di fatto, aveva reso quella l’unica classe dirigente possibile per quella realtà (cosa che, secondo il professore, aveva però finito per far credere a quella classe dirigente di essere al di sopra dei giudizi morali e politici).

Ora in siffatte condizioni il PD, fosse solo per consuetudine ed inerzia, governa (anche senza volerlo) praticamente qualunque cosa. Dalle amministrazioni, alle confederazioni, dai sindacati alle aziende pubbliche, esprime centinaia se non migliaia di dirigenti, quadri, manager.Una regione che, tra l’altro, esprime anche il segretario nazionale del PD.

Ecco in una situazione di questo genere il PD ricandida per il terzo mandato il Presidente della Regione Vasco Errani.  Una candidatura che, aldilà dei meriti e delle capacità dell’uomo, pone non pochi interrogativi di opportunità. Già perchè esisterebbe in questo Paese una legge dello Stato che pone come limite di due mandati quelle figure monocratiche, quali sindaco, presidente della Provincia e, appunto, della Regione alla ineliggibilità degli stessi. Ma la norma, si sa, va interpretata e il PD emiliano, così come il PDL lombardo per Formigoni, la interpreta in modo favorevole alla rielezione di Errani.

Poco importa che la maggior parte dei giuristi italiani affermi che invece la norma si applichi proprio alle figure di Errani e Formigoni e poco importa che il risultato (dato che i due sono dati per strafavoriti) possa essere sottoposto al giudizio della magistratura amministrativa. Si sa anche  che in casi come questi è già pronta la leggina, bypartisan naturalmente, che sanerà a posteriori, la questione.

Ma aldilà degli aspetti legali restano tutti quelli politici. Resta il fatto che in Emilia Romagna col 38,9% il PD non trovi un assessore regionale, un sindaco, un parlamentare, un segretario persino un passante per sostituire dopo 10 anni il presidente della Regione; di più non ponga nemmeno una riflessione (almeno a livello nazionale) sull’oppportunità di sfidare una norma dello Stato e che, nel caso si decidesse a sfidarla, lo faccia a viso aperto motivando politicamente la scelta e affrontando per esempio la questione del limite di mandato, per esempio, proponendo la modifica della legge e dicendo che, per il PD, è una cosa sbagliata quella norma.

Invece no, si ricandida Errani nel silenzio generale, dando per scontata la cosa. Magari facendo spallucce e difendendosi con il dire che non c’era niente di meglio (col 38,9% dei consensi) oppure, un po’ più sinceramente, dicendo “ma a Errani se non gli facciamo fare il Presidente non possiamo offrirgli nient’altro”. E il PD lo fa mentre contemporaneamente pone, sacrosantamente, il tema della legalità e della pulizia del Paese.

In tutto questo anche l’integerrima IDV, ancor prima della “svolta di Salerno” dipietrista, non trova nulla da ridire, così come il resto degli alleati.

Gli emiliani avranno dunque per almeno un quindicennio un buon presidente di Regione e un partito egemone che li amministrerà fondamentalmente bene, ma che spaccerà loro la sua Ragion di Stato per Senso dello Stato.