Berlinguer l’ambizione cinematografica

Esce nelle sale questa settimana Berlinguer la grande ambizione di Andrea Segre. Abbiamo avuto l’opportunità di vederlo in anteprima alla cineteca di Bologna all’interno della Biennale dell’economia cooperativa organizzata da Legacoop alla presenza dell’autore e del protagonista Elio Germano. È stata dunque l’occasione per una riflessione non solo sul film ma sulla “presenza” di Berlinguer nel dibattito politico e storiografico e di come si trasmetta la sua memoria.

Joseph Buttiegieg che fu il traduttore dei Quaderni dal Carcere di Gramsci in lingua inglese scrisse che non bisognava fare del pensatore comunista una “reliquia intoccabile”. Per Gramsci, anche grazie alla fortuna oltreoceano del suo pensiero che la traduzione di Buttiegieg ha aiutato, probabilmente questo rischio è stato in parte evitato mentre il timore è stato e rimane altissimo per un altro comunista sardo: Enrico Berlinguer.

Erano già gli anni 2000, infatti, quando ancora bastava nelle riunioni del partito che già si discostava dal PCI di 10 anni e di due cambi di nome e ragione sociale, citare il nome del segretario comunista per ridestare un uditorio un po’ distratto o ottenere un applauso su un passaggio delicato. Ed è storia, e giusto omaggio, dei nostri giorni lo sguardo di Berlinguer sulla tessera del partito democratico.

In questi anni poi si sono moltiplicati i libri anche pregevoli, compreso quello di due redattori di questa rivista, i documentari, una bella e partecipatissima mostra e tante altre iniziative dedicate ad una delle figure più importanti non soltanto per la sinistra italiana. Una mole di produzioni che ha amplificato, talvolta stuzzicato, sia l’effetto nostalgia, sia il rischio “vita dei santi”.

Un rischio che anche il film di Andrea Segre Berlinguer la grande ambizione, si trova di fronte e prova a evitare da un lato con un rigore “citazionista” quasi filologico, lasciando al minimo le parti di pura invenzione drammaturgica, e dall’altra con un ritratto di Berlinguer che mischia l’uomo politico, l’uomo pubblico, con il Berlinguer privato quello della dolcezza con i figli e la moglie.

Un’operazione, quella di Segre, rischiosissima e coraggiosa e che non aveva avuto, almeno a memoria di chi scrive, precedenti in campo di opere cinematografiche non documentaristiche e che ci restituisce un ritratto del politico negli anni centrali della sua segreteria, quelli che vanno dal colpo di stato cileno del settembre 1973 all’assassinio di Aldo Moro nel maggio 1978. La grande ambizione del titolo (che si rifà a una citazione di Gramsci) è infatti quella dell’approdo del PCI al governo del Paese attraverso da un lato libere elezioni (in continuità con l’impostazione che dal rientro di Togliatti da Mosca nel 1944 aveva caratterizzato il PCI come gli altri partiti comunisti dell’Europa occidentale) e dall’altro la partecipazione di tutte le forze democratiche e popolari al governo, DC compresa. Ed è proprio questo secondo punto il centro della novità e del disegno berlingueriano che, attraverso il cosiddetto “compromesso storico” (Moro più enigmaticamente parlava invece di “convergenze parallele”) doveva portare prima ai governi della “non sfiducia” e poi alla partecipazione al governo dei comunisti.

Questo disegno, interrotto dal sequestro e dall’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse, è l’ambizione interrogata e raccontata nel film di Segre, che accompagna Berlinguer, interpretato con grande delicatezza da Elio Germano, tra riunioni del comitato centrale del PCI, assemblee con la “base” del partito, viaggi a Mosca, gli incontri “clandestini” con Moro ma anche i momenti di intimità con la famiglia del segretario.

Segre fa muovere Germano e gli altri attori su un sentiero rigido, reinterpretando al minimo passi di diari dei protagonisti o dei verbali delle riunioni conservati all’Istituto Gramsci e dunque restituendoci una ricostruzione storicamente appurata anche se tutta proveniente da una delle parti in causa, quella del gruppo dirigente del PCI.

Questo rigore se ha il pregio di rendere “solido” il film pone però almeno due problemi: da un lato piega alcuni avvenimenti al raggiungimento della grande ambizione; questo avviene in almeno due momenti: nella ricostruzione del referendum sul divorzio che viene raccontato come un’occasione per i comunisti di dimostrare alla DC che il Paese era pronto a uno sviluppo progressista che poteva portare all’alleanza tra le forze popolari. Se è vero che questa sarà la pronta lettura che il gruppo dirigente comunista darà dell’esito della consultazione referendaria, non va però dimenticato che il PCI era assolutamente contrario al fatto che si tenesse il referendum e Berlinguer in particolare, questo dicono i verbali del comitato centrale, era convinto che il voto si sarebbe rivelato in un trionfo del sì e della DC. Questa parte nel film è invece affidata ad una piccola scena di passaggio in cui Nilde Iotti convince il segretario della bontà del referendum criticando il “maschilismo” dei quadri del partito. Problema che era certo presente nel partito e che la Iotti conosceva bene anche per le proprie vicende personali.

Il secondo punto in cui il film piega la ricostruzione degli eventi al fine della grande ambizione è in una scena “moscovita” in cui Berlinguer parlando con il responsabile dei rapporti col PCUS, Gianni Cervetti fa intuire che il momento sia propizio per interrompere i finanziamenti “straordinari” di Mosca al partito. Così lo spettatore meno preparato può pensare che quella riflessione portò effettivamente all’interruzione di quel canale di finanziamento che invece proseguì e per molti anni, come ricorda lo stesso Cervetti nel suo “l’oro di Mosca”.

L’altro problema che questa impostazione filologica e rigida pone è che il Berlinguer di Germano non ha mai un dubbio, né nella parte pubblica (cosa che vista l’aura del segretario ci può stare) né nella parte privata. Ora è improbabile che, per esempio, di fronte alla volontà di autonomia dei comunisti italiani rispetto a Mosca, non fosse altro che per il prestigio dei comunisti sovietici agli occhi di chi aveva vissuto la Rivoluzione di Ottobre e la sconfitta del nazismo, non venisse nella solitudine della propria cameretta il dubbio di aver fatto la cosa giusta. Dubbio che in un’opera di fiction poteva ben essere rappresentato, rendendo più completo, più umano il personaggio. E invece anche il Berlinguer/Germano privato risponde sempre fermamente ai dubbi dei figli difendendo la propria posizione, pur “senza perdere la tenerezza”.

È questa la parte del film in cui il rischio agiografico non viene del tutto risolto ed è un peccato perché il film complessivamente si muove bene, non appare un prodotto pensato per la generazione dei “berlingueriani” (e dunque creato per l’effetto nostalgia) ma molto di più per chi Berlinguer non l’ha conosciuto e ne racconta la fase cruciale più innovativa e coraggiosa. Per questo non hanno senso le critiche come quella di Giuliano Ferrara sul Foglio di una passione per Berlinguer in quanto “perdente di lusso”. Quantomeno per questo film tale critica non si pone perché Segre, a mio avviso intelligentemente, sceglie di raccontare il Berlinguer che non si è ancora “spento” quello che avrebbe potuto farcela, seppur nel film la responsabilità della sconfitta non sia mai, nemmeno in parte, sua ma sempre di agenti altri: dalle BR, ai Russi o agli americani.

Scegliendo però l’arco narrativo 1973-1978 Segre si sottrae al giudizio storico su Berlinguer: la deriva “morale” dopo il fallimento del compromesso storico e la lunga apnea del PCI negli anni ottanta che la prematura morte nel 1984 sottrarrà al pensiero e all’azione di Berlinguer.

In questa sospensione temporale e di giudizio il film consente quindi, magari anche furbescamente, di non doversi esprimere, lasciando allo spettatore e alla sua inclinazione di declinare quello che dopo accadrà, limitandosi, si fa per dire, a una ricostruzione didascalica di un’intuizione, di un’azione e di un primo risultato negativo.

Non mancano infine alcune chicche della politica politicienne come dicono i francesi, come quando Berlinguer giubila Cossutta da responsabile dei rapporti con Mosca promuovendolo agli enti locali o quando spiega a Ingrao, il dirigente più critico alla politica di governo con la DC, che l’accordo con Moro aveva come primo risultato la presidenza di una camera per i comunisti e che il nome che il PCI avrebbe fatto era proprio quello di Ingrao. Inquadrando quindi il “grande idealista” nel contesto della sua professione di segretario e non “solo” di pensatore, raccontandoci che la politica era fatta da persone di livello, di pensiero ma anche di mestiere. Ed è anche questo uno dei meriti, non marginale, del film.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 551 del 2 novembre 2024

Foto e racconti da Kyiv

Sono andato a vedere la mostra di Massimo Listri – Firenze Kyiv andata e ritorno (Sala d’arme di Palazzo Vecchio fino all’8 marzo) – mentre leggevo Diario di un’invasione di Andrei Kurkov (Keller editore) e l’effetto stereofonico di immagini e libro mi è rimbombato dentro in modo nettissimo.

Partiamo dalla mostra. Listri ha fotografato Kyev in guerra ma le immagini che troverete visitando la mostra sono ben diverse da quelle che potreste aspettarvi da un teatro bellico. Listri fotografa bellezze, artistiche e architettoniche. Le sue sono immagini colorate, che riportano il gusto un bel po’ barocco dell’architettura pubblica presovietica, delle chieste ortodosse. Ma anche il brutalismo sovietico, come nel caso della biblioteca nazionale di Kiev, abbellito da una pittura muraria anch’essa coloratissima al pari delle vetrate delle cattedrali. Qua e là, nelle foto, la guerra però appare. Sotto forma di sacchi di sabbia, per esempio, nella foto della scala d’onore del palazzo presidenziale.

Ai miei occhi Listri fotografa quello che non vorremmo perdere, quello che stiamo difendendo e che dovremmo difendere. Un punto di vista capovolto rispetto alle di distruzione, sventramento e tragedia che siamo soliti associare alle foto scattate in zone di conflitto. Non il bello che ci salverà ma quello da salvare. L’effetto è amplificato (come le videoproiezioni immense alle pareti della Sala d’Arme) dal luogo in cui siamo. Lo nota mio figlio. Il contrasto dei palazzi del potere ucraini minacciati e il luogo del “potere” della mia città, che non avrei mai immaginato, fino a due anni fa, potesse essere minacciato da una guerra; mentre oggi il pensiero, con annesso brivido, mi prende.

Veniamo quindi al libro. Sono le note che lo scrittore ucraino, di doppio passaporto inglese, ha redatto appena prima e subito dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022. Note in cui la guerra, prima minacciata, poi reale, irrompe in una quotidianità così simile alla nostra: la polemica, proprio nel febbraio del 2022, sulla riforma dei menù delle mense scolastiche, mentre centinaia di migliaia di russi incombono alle frontiere; i gruppi facebook sulla birra che arriva nella bottega del Paese, dove l’autore ha una casa di campagna, mentre lui è sfollato al confine occidentale del Paese e i razzi russi devastano larga parte della nazione.

Come si può vivere sotto un’invasione, con le bombe che fischiano, con la paura per sé e per i suoi cari. Come possiamo immaginare, anche qui, l’inimmaginabile per noi almeno fino a quel febbraio di 2 anni fa.

Ma anche domandarsi come si farà a ridurre tutto l’odio che da allora si è creato, cosa potrà essere, quando sarà, la pace.

La guerra in Ucraina, non è più speciale o più importante di altre, ma forse è la più “trasferibile” per noi (di sicuro per me), per la similitudine di luoghi e situazioni. Questo dovrebbe forse spingerci a capire il senso di minaccia che si porta dietro e il senso di un impegno a difesa di Kyiv da un lato e dall’altro lato, dovrebbe consentirci di trasportare questa urgenza anche sugli altri conflitti in corso, a partire da quello mediorientale, per annullare, almeno, l’indifferenza.

Articolo apparso sul CulturaCommestibile n.521 del 17 febbraio 2024

La banalità del maligno

La poderosa biografia che Peter Longerich – ben 890 pagine – ha dedicato a Joseph Goebbels è un tutto fuorché un mattone noioso. La minuziosa ricostruzione della vita del ministro della propaganda del Reich è, innanzitutto, un viaggio per comprendere come, un piccolo borghese con evidenti insicurezze al limite del patologico, è potuto diventare, insieme an accozzaglia non meno disturbata, uno dei padroni della Germania. Un viaggio nella mente di Goebbels che però non è un trattato di psichiatria ma un libro di storia con un imponente apparato critico ed una adeguata bibliografia. Certo è che la gioventù di Goebbles, complice anche la pressoché totale assenza di fonti, è indagata dall’autore molto più sui probabili processi psicologici che lo muovono che sulla semplice ricostruzione dei fatti. Per l’autore i complessi di inferiorità, fisica ma soprattutto sociale, sono la molla che spingono il neo laureato, scrittore fallito, a intraprendere la via della politica. Una strada che lo porta a trovare la sua guida, il suo idolo, in Adolf Hitler. Goebbels, questa la tesi, è sempre stato alla ricerca di un redentore – della sua posizione sociale, delle sue aspirazioni intellettuali che finisce per identificare in quelle dell’intera nazione tedesca – provando a immaginarsi egli stesso in tale posizione, per poi abbandonarsi alla figura di Hitler che riuscirà a mitizzare con la sua propaganda proprio perché lui per primo, lo considererà indispensabile.

Un processo di ricerca dell’approvazione del Fuhrer che segnerà e determinerà la vita privata del ministro della propaganda che, dopo una gioventù sentimentalmente tormentata, finirà per sposare Magda e con la quale instaurerà un ménage di cui Hitler sarà parte integrante e nel quale il dittatore finirà per prendere le decisioni significative (matrimonio, possibile divorzio) e che sosterrà anche economicamente.

Una simbiosi così profonda e perversa che porterà al tragico epilogo finale in cui i Goebbles, compresi i sei bambini, si toglieranno la vita dopo che Hitler avrà posto fine alla propria esistenza.

Ma la biografia, soprattutto dalla nascita del Goebbles politico sino alla tragica fine è una preziosa ricostruzione storica in cui si racconta dall’interno l’ascesa del nazismo, le lotte di potere, la frantumazione e il conflitto tra i gerarchi per finire con la condotta di guerra. Utilizzando i voluminosi diari del Ministro della propaganda, altro segno del suo egotismo, Longerich riesce a ricostruire e demolire l’immagine di potenza di Goebbles mostrandoci come almeno prima della fase finale del regime, Hitler giocasse con lui come il gatto col topo, lo escludesse dalle decisioni importanti convincendolo però del suo, successivo, ruolo fondamentale. O di come Goebbles provasse a sistematizzare posizioni autonome – la visione sociale del nazismo, il no all’alleanza con i conservatori per andare al governo, la sopravvivenza delle SA o la guerra totale – che venivano demolite dal Fuhrer facendo diventare il Ministro il più fervente sostenitore delle tesi a lui, fino a quel momento, opposte.

C’è poi Goebbles convinto antisemita nella suo progressivo passaggio da un antisemitismo borghese ad una ferocia non solo comunicativa indescrivibile; tuttavia cosciente che quegli atti, quelli della soluzione finale, significavano anche l’impossibilità per i nazisti e la Germania di tornare indietro, di salvarsi in qualche modo. Oppure il Goebbles che prova a imporre la propria idea di cultura nazionalsocialista finendo poi per ammettere, seppur nel solo privato dei diari, il fallimento nel creare una letteratura, un teatro, una musica e soprattutto, un cinema rispondente al regime.

Ne esce il ritratto di un uomo debole, tutt’altro che infallibile e onnipotente, incapace di una propria autonomia di pensiero, concentrato anche mentre tutto intorno rovina a ottenere l’approvazione del mondo e del suo capo. Una visione molto diversa da quella che il ministro era riuscito a conservare, nonostante il disastro finale, e che ci restituisce un altro pezzetto, non certo il più piccolo, della banalità del male e dei maligni.

Peter Longerich, Goebbles. Una biografia, Einaudi, 2016. Traduzione di Valentina Tortelli.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 519 del 3 febbraio 2024

Buon 2024 con i libri del 2023

Come ogni anno gli auguri per l’anno nuovo li faccio con i libri che più mi hanno segnato nell’anno che sta per finire. Come sempre un’opera di narrativa ed un saggio, tra i numerosi libri letti per piacere e per CulturaCommestibile. Va detto che per il 2023 è stato molto difficile scegliere ma alla fine ha prevalso il cuore per Martin Amis e il suo libro testamento, e il cuore per un saggio storico, ahimè non tradotto in Italiano, sulla solidarietà, il mutuo soccorso del primo movimento operaio.

Il futuro si diceva una volta ha radici antiche e, aggiungo io, per affrontarlo serve un po’ di cattiveria alla Amis. In ogni caso vi auguro un 2024 da passare insieme a chi vi vuol bene e in compagnia di ottimi libri, ottima musica e begli spettacoli.

En attendant, toujours, la prochaine révolution, qui di seguito le recensioni ai due volumi uscite sulla rivista.

L’ultimo applauso per Martin Amis

Dovessi definire La storia da dentro, ultimo romanzo di memorie di Martin Amis, uscito nell’edizione italiana Einaudi appena tre giorni dopo la notizia della scomparsa dell’autore, direi che si tratta di un libro di fantasmi.

Certo non siamo di fronte a quelle ghost stories che raccoglievano le edizioni Oxford e una cui vecchia edizione campeggia fiera nella mia libreria. Quello di Amis è una autobiografia attraverso la perdita di alcuni amici e autori che hanno accompagnato la sua vita. Persone che nel libro diventano fantasmi perché l’autore ne racconta il percorso verso la morte: il poeta Larkin, il saggista Hitchens e il romanziere Bellow.

Amis indaga il rapporto con il decadimento, fisico per Larkin e Hitchens, mentale per Bellow. Impossibile non pensare che mentre scrive quelle pagine sta anche egli affrontando quel destino, peraltro anche lui come Larkin e Hitchens, scomparirà per un tumore all’esofago.

Figure paterne quelle di Larkin e Bellow, amicale (nel senso emblematico dell’amicizia) quella Hitchens. Larkin è il padre per contrasto al padre reale Kingsley. Uno poeta, l’altro romanziere. Uno impacciato, misogino attorniato da poche donne prepotenti, l’altro istrionico, grande conquistatore, infedele seriale, sempre insieme a donne bellissime. Bellow è invece il padre supplente, quello che forse non solo letterariamente Amis avrebbe voluto (affiancato all’altro fantasma che aleggia nel libro, quello di Nabokov), un modello letterario ma anche umano, a cui alla morte dell’ingombrante genitore naturale, confessa il bisogno di considerarlo padre eriditario.

Infine Hitchens l’amico geniale. Il compagno di sbornie, il fratello scelto. Quell’alchimia che solo chi ha avuto in sorte di trovare un amico così, comprende. L’amico che pensi di avere sempre al tuo fianco e che non ti capaciti, non vuoi credere, che perderai presto.

Sono pagine struggenti. Dolorose. Non fatico ad ammettere che più volte ho dovuto interrompere la lettura perché mi faceva male quello che trovavo sulla pagina, per poi tornare avidamente con il bisogno di avere ancora e ancora pagine scritte in quel modo bellissimo e affilato che era una delle cifre dell’autore. Eppure non c’è mai pietismo, mai retorica. Amis rimane il cattivo di sempre, il cinico spietato che abbiamo sempre amato, ma in questo romanzo autobiografico la gravità supera la maestria anche se quest’ultima rimane ai livelli altissimi di sempre.

Tuttavia i fantasmi del libro non sono solo quelli che scompaiono fisicamente, sono una vecchia fiamma o ossessione, personaggio di fantasia che racchiude le donne del passato o forse più correttamente la dissolutezza dell’autore. La madre, bellissima e forse fedifraga, contrappunto non solo del “pesantissimo” padre (al cui rapporto dedica l’altro romanzo autobiografico Esperienza del 2000) ma anche del poeta Larkin, e ancora di più la matrigna Elizabeth Jane Howard che Amis riconosce come la vera dante causa del suo essere scrittore. C’è anche un tentativo di riconciliarsi con lei, il dimostrarle riconoscenza e devozione, persino amore, il chiederle perdono per la sua, infantile, reazione all’abbandono da parte di lei del padre.

Solo le mogli e i figli in questo libro paiono non essere fantasmi. La seconda moglie di Amis, Isabel Fonseca e la moglie di Hitchens Carol Blue, personaggi destinati a salvarsi rispetto ai loro sposi. Presenze “normali”, numi tutelari, figure quasi senza macchia come mai se ne trovano nei romanzi di Amis. Testimoni dell’amore, quello che dimostrano e quello che i loro compagni testimoniano nonostante tutto. Di fronte a queste figure le maschere dei cinici due amici, tornano quelle di due imbranati qualunque, di due uomini normali con le loro paure e le loro incertezze.

Infine, come poteva essere altrimenti, la vita da dentro è anche un libro sulla scrittura, sulla tecnica, sull’uso della lingua, sull’essere intellettuali, impegnati, schierati. Quasi un manuale per lo scrittore, nella pagina ma anche nelle note (che sono a loro volta un romanzo nel romanzo), ma forse ancor di più un manuale per il lettore. Una guida consapevole del valore degli esempi citati, Bellow e Nobokov su tutti, ma anche dei propri mezzi. Amis sa, o almeno afferma sapere, della sua bravura, della sua tecnica eccellente. Non la nasconde, come l’attore che consapevole della sua bravura, mette una pausa giusto per aspettare l’applauso.

Amis probabilmente era consapevole che quello che gli avrebbe tributato il suo fedelissimo pubblico, sarebbe stato l’ultimo applauso; nel nostro caso l’applauso è arrivato, per pochi giorni postumo, ma ciò non toglie che si meritasse, non solo per questo libro, un’ovazione.

Martin Amis, La storia da dentro, Einaudi, 2023. Traduzione di Gaspare Bona.

Proletari di tutto il mondo aiutatevi tra di voi!

C’è stato un tempo in cui la classe operaia non si opponeva alla globalizzazione ma pensava di poterla sfruttare per il suo riscatto, per avere migliori condizioni di vita e di lavoro e per sviluppare la solidarietà di classe oltre le frontiere delle nazioni.

Si muove da questa premessa l’opera di Nicolas Delalande La Lutte et L’Entraide (la Lotta e il mutuo soccorso) che ha per tema la solidarietà operaia ai tempi delle due prime Internazionali fino al primo conflitto mondiale con una breve escursione finale fino agli anni 70 del novecento.

Fondata nel 1864 l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (poi passata alla storia come prima Internazionale) aveva per scopo quello di unificare il neonato movimento operaio aldilà delle frontiere nazionali. Le successive tensioni tra anarchici e socialisti la faranno poi scomparire negli anni ’70 dell’ottocento per poi rinascere come Seconda internazionale (questa volta soltanto socialista) nel decennio successivo.

Uno degli obiettivi delle due organizzazioni era per l’appunto, la solidarietà operaia che Delalande in questo libro ci fa scoprire attraverso non tanto i proclami e i grandi discorsi ma le azioni pratiche, dalla raccolta fondi, la gestione delle sottoscrizioni, gli scandali. Scopriamo così come si esercitava in concreto quella solidarietà, quali limiti (taluni ideali, talaltri molti pratici) erano posti nell’inviare denaro, nel decidere, in base anche alla possibilità di riuscita, quali scioperi erano da assistere e quali invece non meritavano il supporto. Uno studio che mostra anche i rapporti di forza nella prima Internazionale tra i potenti sindacati inglesi e le organizzazioni più movimentiste (ma anche molto più povere) del continente, per poi raccontare il progressivo dispiegarsi anche economico dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi al tempo della seconda internazionale.

Un lavoro minuzioso che segue il corso del denaro raccolto dai lavoratori, donato ma molto più spesso prestato (poiché il prestito impone una responsabilizzazione del ricevente), in occasioni di scioperi, manifestazioni e serrate padronali. Un sforzo mondiale che vede coinvolto non solo il continente europeo ma anche le organizzazioni nordamericane e australiane.

Naturalmente il volume mostra anche come le divisioni, tra socialisti e anarchici, tra sindacati di mestiere e organizzazioni orizzontali dei lavoratori, influiranno non soltanto sull’elaborazione teorica del movimento operaio ma avranno ricadute concrete sulla vita degli operai in lotta e sulle loro famiglie che, in occasione degli scioperi, potevano contare soltanto sugli aiuti internazionali o, laddove sviluppate, sulle prime cooperative operaie.

Analogo destino, di aiuto ma anche di diffidenza e contrasto, sarà riservato anche agli esuli della Comune parigina, prima oggetto dell’aiuto indiscriminato, per poi diventare, in alcuni casi e in particolare per alcuni sindacati inglesi, un peso o comunque “poco riconoscenti” visto che non modificavano le loro posizioni per renderle più vicine ai modi di lotta dei loro benefattori.

Un libro decisamente originale nel suo campo di ricerca che mette in luce certo le contraddizioni del movimento operaio, ma contemporaneamente dimostra la sua “potenza” e capacità di stare nelle dinamiche economiche dell’epoca provando a piegarle a proprio favore invece che di opporsi sterilmente ad esse.

Nicolas Delalande, La Lutte et l’Entraide. L’age des solidarités ouvrières, Seuil, 2019.

Farsi da parte per raccontare l’indispensabile.

Come Carrère ha saputo scomparire per raccontare il processo degli attentati di Parigi.

Non ho il culto di Emmanuel Carrère ma V13 era un libro, per me, imperdibile. La sera del 13 novembre 2015 senza alcun motivo particolare misi come foto di copertina di Facebook una foto dei tetti di Parigi. Dopo alcune ore fui sommerso di chiamate e messaggi che mi chiedevano se fossi nella capitale francese e se stessi bene. Era in atto uno dei più efferati attentati avvenuti in Europa. Più di cento persone, in prevalenza giovani, morivano e molti di più venivano feriti, sotto i colpi di Kalashnikov o dai bulloni delle cinture esplosive dei terroristi dell’ISIS. Tutto questo mentre stavano guardando una partita, sorseggiando un cocktail in un bistrot o partecipando ad un concerto al Bataclan. Molti di loro avevano l’età che avevo io quando a Parigi ho abitato per circa un anno. Quelle chiamate di quella sera, quelle immagini, quei luoghi familiari, mi colpirono profondamente. A ripensarci sono scosso anche oggi e riesco ad ammettere a qualcuno solo ora che per lungo tempo quando mi trovavo in una sala cinematografica o in un teatro, mi sorprendevo a fissare la porta temendo un’irruzione di un commando; talvolta, i primi tempi, non mi era facile concentrarmi su quello che accadeva sul palco. Reazioni probabilmente esagerate, lo ammetto, ma c’erano e dovevo farci i conti.

Quando poi nel settembre 2022 è iniziato il processo ho letto e raccolto in una cartella del mio PC tutte le cronache del processo ai “resti” del commando omicida. Non ho letto quelle che Carrère ha fatto, settimanalmente, sul Nouvel Observateur e pubblicate in Italia da Repubblica, ma quelle puntuali, precise, talvolta algide, degli inviati di Le Monde. Le Monde è uno dei pochi giornali del pomeriggio rimasti. Esce a metà del giorno, è una lettura serale, poca cronaca, molti pensieri. Quelle cronache hanno, inevitabilmente, fatto da contrappunto, da paragone, al libro di Carrère. Ne hanno smascherato, a me, un grande pregio: l’assenza dell’autore.

Non è facile per nessuno in fatti del genere, come dimostra il presuntuoso inizio di questo mio pezzo, mettere distanza tra il racconto di un fatto e come quel fatto, così determinante, ha influito sulla propria esistenza. Carrère in realtà nel libro, e nel racconto dei fatti, ci entra, progressivamente, pudicamente. Mai o quasi quando a parlare sono le vittime, parzialmente quando tocca agli imputati, largamente quando è la comunità della legge la protagonista. L’autore riprende il suo ruolo alla fine, quando le persone non rappresentano sé stesse ma quell’insieme di norme comuni che ci definiscono come comunità, come democrazia. Quando lui (e noi con lui) ci convinciamo che aldilà delle responsabilità politiche del nostro essere occidentali, il nostro sistema democratico e liberale, il nostro amministrare la giustizia in nome della legge e non della vendetta ci renda migliori, sì migliori, dei terroristi. Pur descrivendoli e giudicandoli senza pietismo sociologico ma con umana empatia.

Era poi questo forse il senso di un processo i cui esiti (seppur non siano mancate polemiche) erano previsti e prevedibili, e che riguardava figure di “contorno” rispetto agli autori materiali della strage (tutti deceduti negli assalti o in scontri a fuoco con la polizia). Non era un processo riparativo, non era un processo “per la storia”, era un processo per il diritto, quella somma astrazione che dalla Francia dei lumi rappresenta il terzo pilastro del nostro essere cittadini e non sudditi.

Carrère però ci dimostra tutto questo vivificando questa astrazione attraverso gli uomini e le donne che a quel processo danno vita. Il diritto incarnato se l’espressione non appare troppo blasfema rispetto ai corpi dilaniati, alle ferite materiali e psichiche ai brandelli dei deceduti e dei sopravvissuti. Il libro riesce quindi a dare voce, corpo, sostanza, alle procedure; non indaga nei pruriti che tanto affascinano quelli che seguono la cronaca nera. Non c’è voyeurismo, ma pietà vera che dimostra come l’applicazione della Legge non è affare da iniziati ma materia viva, come la verdura che si compra al mercato.

Si diceva del lavoro “in levare” di Carrère. Il raffronto con le cronache di le Monde mi è servito anche per un’altra osservazione, che all’inizio consideravo un difetto del libro ma che poi, ripensandoci, ne rappresenta un grande pregio. Molte delle frasi che suscitano effetto, emotivamente laceranti, che siano le vittime o i loro familiari oppure gli imputati (soprattutto quelli finiti in quella brutta storia forse più per caso che per scelta) a pronunciarle, sono nel libro identiche, al netto della mia traduzione, a quelle riportate nelle cronache del quotidiano. Segno che l’emotività era già presente e il cronista, come lo scrittore, avevano solo il compito di trovarle e riportarle. Non serviva altro, Carrère nonostante non sia l’autore con meno ego che imprima parole sulla pagina, con grande intelligenza lo capisce e confeziona un libro asciutto, doloroso, non scontato. Per questo davvero bello.

Articolo apparso su Cultura Commestibile, n. 495 del 3 giugno 2023.

I manoscritti rubati di Céline

Da un piccolo libriccino appena apparso da Adelphi – dal nome non originalissimo di Lost in translation – apprendiamo che Ottavio Fatica si sta cimentando con la traduzione italiana dell’inedito di Céline Guerra.

Il libro uscito lo scorso anno per Gallimard in Francia e subito divenuto un successo di vendite, oltre che per il suo contenuto è forse più interessante per la storia che sta dietro il suo manoscritto perduto e poi misteriosamente riapparso.

Quel manoscritto, insieme ad altri andati (si pensava per sempre) perduti, ossessionarono Céline fino alla sua morte avvenuta nel 1961. Secondo il discusso autore i manoscritti sarebbero erano stati trafugati dalla sua casa di Montmartre dai partigiani nel 1944 quando lui la dovette abbandonare.

Va detto che quello di Céline non fu un viaggio di piacere, in quanto la sua partenza dalla capitale francese era dovuta alla legittima paura di fare una brutta fine visto il suo ruolo di collaborazionista durante il regime di Vichy.

Da quel giorno Céline non smetterà mai di dolersi di quel “furto”, sia in pubblico ma soprattutto nelle lettere che scriveva, continuamente, a amici e colleghi.

Gli epuratori, come li definiva Céline,  gli avevano portato via tutto ma soprattutto lamentava, per esempio in una lettere a Pierre Monnier nel 1950, la perdita del manoscritto di 600 pagine di Casse-Pipe il romanzo che doveva completare la trilogia di Voyage au bout del la nuit e Mort à crédit.

Queste lettere Céline le inviava, va sempre ricordato, dal suo autoesilio danese in cui si era rifugiato per scappare alla prigione in Francia. Perché se è indubbio il valore letterario di questo autore non si possono non ricordare i vergognosi pamphlet antisemiti pubblicati ben prima dell’occupazione nazista della Francia (Bagatelles puor un massacre – 1937, L’Ecole des cadavres – 1938).

Tuttavia aldilà delle lamentele dell’autore da allora dei manoscritti non si ebbe più traccia e tutti, più o meno, li considerarono perduti, gettati da un qualche Maquis o da qualche topo d’appartamento, con lo scopo di punire l’autore amico dei nazisti o perché considerati di scarso valore rispetto agli altri beni “requisiti” nell’appartamento parigino.

Questo fino al 2019 quando alla veneranda età di 107 anni è deceduta Lucette Destouches, ex ballerina e vedova dello scrittore. Passano infatti pochi mesi dalla scomparsa della donna che un uomo prende contatto, discretamente e un po’ misteriosamente, con un avvocato parigino noto per essere specializzato in diritti d’autore e casi legati a case editrici.

L’uomo misterioso si scoprirà essere Jean-Pierre Thibaudat, giornalista e critico teatrale, figlio di resistenti, per anni nella redazione del quotidiano di sinistra Libération, fino al suo pensionamento nel 2006.

Nella sua lunga carriera Thibaudat si è segnalato per numerose opere sul teatro, recensioni di libri e spettacoli ma non è considerato come un esperto, né un appassionato, di Céline. Eppure quest’uomo, come scoprirà l’avvocato Pierrat, può essere considerato l’uomo più importante per la storia e lo studio di Céline al mondo.

Quello che si porterà nello studio dell’avvocato parigino il giornalista sono infatti i manoscritti trafugati del 1944 che per decine di anni egli ha conservato senza fare parola alcuna, senza mai provare a venderli, pubblicarli o altro.

Ma come ne era venuto in possesso? In un’intervista apparsa su Le Monde il 6 agosto 2021 Thibaudat racconta la sua versione e cioè che un giorno un lettore di Libération si era presentato da lui con dei voluminosi sacchetti contenenti i manoscritti di Céline e che li consegnava a lui ad un’unica condizione: di non renderli pubblici fino alla morte della vedova dello scrittore. La motivazione di tale vincolo sarebbe stata quella di non arricchire ulteriormente la vedova di un fascista.

Quale che sia la veridicità di tale racconto – sulla quale da subito si sollevarono molti dubbi – vero è che fino al decesso della vedova il giornalista ha mantenuto la propria parola e ha conservato nel massimo riserbo un tale tesoro.

Va detto che Thibaudat si è rivelato un detentore di segreti degno della migliore spia se come dice lui ha tenuto questi manoscritti dalla fine degli anni ’80 e non ha mai, fatto il nome del “donatore”. Tuttavia in tutti questi anni non ha mancato di guardare, leggere e classificare quello che lui stesso descrive come circa “un metro cubo di fogli”.

Tra questi tesori le 600 pagine di Casse-pipe, un romanzo inedito intitolato Londres, 1000 fogli di Mort à credit e decine e decine di altri scritti e documenti. Un vero tesoro.

Quando questo tesoro finisce nelle mani dell’avvocato Pierrat, questo contatta immediatamente i detentori dei diritti dello scrittore. Da una parte l’avvocato François GIbault, all’epoca ottantanovenne, autore della monumentale biografia di Céline e dall’altra Véronique Chovin, “dama di compagnia” della vedova dell’autore.

I tre, sotto gli auspici del legale, si incontrano nello studio Pierrat in Boulevard Raspail Parigi, una prima volta l’11 giugno 2020 e qui nascono i primi problemi. L’anziano Gibault vorrebbe far pubblicare i manoscritti a Gallimard e, immaginiamo, godere della ricca commissione che l’editore sicuramente concederà, Thibaudat vorrebbe invece donare gratuitamente i fogli all’Institut mémoires de l’édition contemporaine (IMEC) che già conservava un corposo fondo Céline.

Ancora una volta la figura di Thibaudat emerge in questa vicenda come un “eroe” singolare soprattutto se si pensa che, come dice lui sempre nell’intervista a Le Monde, “mai per un secondo ho pensato di venderli” anche se, secondo gli esperti, il valore di tali carte potrebbe superare il milione di Euro.

Dall’incontro del giugno parigino nasce naturalmente una causa legale. Da una parte gli eredi che ritengono i fogli come “la refurtiva” sottratta a Céline nel 1944, dall’altra il detentore dei fogli che vorrebbe “solo” donarli alla ricerca e allo studio.

Il tribunale di Parigi, per dirimere la questione, non può che cercare di capire cosa successe ai manoscritti a partire da quel giorno del giugno 1944 in cui “sparirono” dalla casa, ormai vuota, al quinto piano di un edificio di Rue Girardon quartiere di Montmartre, Parigi.

Per i partigiani trovare casa Céline non fu difficile. Durante tutta l’occupazione lo scrittore fu tutt’altro che discreto. Ripubblicò i suoi libri antisemiti, frequentava l’ambasciata tedesca nella Parigi occupata e non perdeva occasione per dirsi amico dei nazisti. Insomma aveva buoni motivi, una volta sbarcati gli alleati sul suolo francese, di pensare che non avrebbe avuto molti amici una volta liberata la città.

Per questo subito dopo lo sbarco angloamericano fuggì, insieme alla moglie, in Germania e poi in Danimarca dove, previdente, aveva già trasferito una piccola fortuna in oro per vivere “tranquillo”. Prima di fuggire con documenti falsi, per lui e la moglie, e con un lasciapassare fornitogli dagli amici nazisti fece però in tempo a passare dalla filiale del Crédit Lyonnais e ritirare gli ultimi lingotti d’oro lì custoditi. A quel tempo i manoscritti non gli sembrarono così necessari come l’oro ,anche se ne consegnò una parte alla segretaria, la fedele Marie Canavaggia, e ne vendette uno, quello del Voyage, pochi giorni prima di partire per 10.000 franchi e un piccolo Renoir.

Gli altri pensò che fosse sufficiente lasciarli sopra un armadio di casa sua e poi fuggì portando con sé, oltre l’oro, il loro gatto Bèbert. Dal viaggio e dall’incontro con il Maresciallo Pétain a Sigmaringen scriverà in D’un château l’autre.

Mentre Céline fugge, Parigi viene liberata, De Gaulle entra trionfante in città e le forze della Francia libera installano il loro quartier generale nella brasserie Junot a pochi passi da casa Céline.

Si può datare con una certa sicurezza, così ha ricostruito l’inchiesta della magistratura parigina, che la “perquisizione” dell’appartamento dello scrittore avvenne tra il 25 e il 30 agosto del 1944. Impossibile però risalire con precisione a chi effettuò l’irruzione.

Céline però non aveva dubbi. Fu sempre convinto che l’autore del furto fosse Oscar Rosembly, ebreo corso e partigiano. A lui sarà ispirato il personaggio del “juif Alexandre” nella prima versione di Féerie pour une autre fois.

Céline e Rosembly si conoscevano, seppur non particolarmente bene. Prima della guerra Rosembly era stato giornalista e collaboratore del ministro del Fronte Popolare Camille Chautemps, poi durante l’occupazione si nasconderà (a causa della sua lontana origine ebraica) presso il pittore Gen Paul che Céline frequentava.

Ma Rosembly era anche un resistente e come tale probabilmente incaricato, per la sua conoscenza di persone e luoghi, delle perquisizioni nel quartiere di Montmartre. Perquisizioni nelle quali però il maquis si approfittò del suo ruolo per “farsi giustizia da solo”, sottraendo dalle case dei collaboratori beni e preziosi. Verrà infatti arrestato e tradotto nel carcere di Fresnes in quell’estate del 1944.

Uscito di prigione si imbarcherà su un piroscafo diretto negli Stati Uniti e di lui si perderanno le tracce fino alla scomparsa nel 1990.

Improbabile che possa essere lui il misterioso lettore che consegnerà i manoscritti a Thibaudat molti anni dopo, anche se avrebbe potuto consegnarli ad un amico o un parente che li avrebbe conservati per lui.

Un’altra pista porta invece a Yvon Morandat, eroe della Resistenza (a lui è ispirato il personaggio di Jean Paul Belmondo in Parigi brucia?), amico di Jean Moulin che nel settembre del 1944 requisì l’appartamento di Céline e nel quale vivrà per alcuni anni. Céline fu sempre convinto che Morandat sapesse molto di più sulla fine dei suoi manoscritti e, infatti, rifiutò di incontrarlo nel 1951 quando amnistiato fece ritorno in Francia. Morandat voleva restituire alcuni manoscritti e dei mobili di rue Girardon ma lo scrittore li rifiutò perché i fogli erano “troppo pochi” e il donatore si rifiutava, secondo lui, di rendere il resto dei testi o almeno di dire la verità sulla loro fine.

Neanche il processo intentato nel 2020, però sarà di aiuto a sciogliere il mistero. Interrogato dai gendarmi dell’Office central de lutte contro le trafic de biens culturels (OCBC), il giornalista Thibaudat si rifiuterà di fare il nome del donatore invocando il segreto rispetto alle fonti, sacro per ogni giornalista. Tuttavia, per dimostrare la sua buonafede, in occasione dell’interrogatorio consegnerà tutti i documenti in suo possesso agli agenti, esterrefatti, che impiegheranno diverse ore per stendere il verbale di sequestro.

A quel punto, dopo un breve soggiorno cautelare presso la Bibliothèque nationale de France (BNF), la procura di Parigi ordinerà che i fogli siano consegnati ai legittimi eredi dello scrittore, i quali dopo aver donato alla BNF il manoscritto di Mort à crédit, in modo da regolare le “pesanti” tasse di successione di tale eredità si accorderanno, immaginiamo sontuosamente, con l’editore Gallimard per la pubblicazione delle opere di cui Guerre nel 2022 è il primo volume uscito.

Anche il Tribunale di Parigi si arrenderà e il 21 settembre 2020 archivierà l’inchiesta sul furto dei manoscritti non essendo riuscito a recuperare sufficienti indizi circa la colpevolezza di alcuno dei soggetti indagati.

Misterioso dunque l’autore del furto così come quello del donatore dei manoscritti al giornalista di Libération. Di lui sappiamo solo, grazie ad un’altra intervista a Thibaudat apparsa su Le Monde il 20 novembre 2020, che all’epoca della consegna, alla fine degli anni ’80, aveva approssimativamente un’età tra i 40 e i 50 anni e che dunque, sarebbe stato poco più di un bambino, all’epoca della sparizione. Rimettendo così in campo la pista còrsa di Oscar Rosembly.

Tuttavia le indagini dell’OCBC rispetto agli eredi di Rosembly, a Parigi come a Bastia, non hanno permesso di arrivare a nulla di certo. Per farlo hanno anche messo sotto sorveglianza il telefono del povero Thibaudat non scoprendo però alcun legame tra lui e la famiglia Rosembly.

Mistero irrisolvibile dunque? Purtroppo no, perché neanche Jean Pierre Thibaudat saprà resistere, come Gollum con l’anello del potere, alla mancanza del suo “tesoro”. Così prima sul suo blog e poi, nell’ottobre 2022, ne il volume Louis-Ferdinand Céline, le trésor retrouvé, racconterà la verità sul ritrovamento e sul donatore. Va detto, per rispetto alla figura del giornalista, che egli ha ceduto interamente i diritti di questo libro ad un’associazione che aiuta i minori immigrati non accompagnati, non guadagnando dunque un centesimo in tutta questa vicenda e anzi facendo un ulteriore sberleffo al razzista Céline.

Come ogni verità che si rispetti anche questa non sarà all’altezza della leggenda che l’accompagnava; infatti in un giorno del 1982 rovistando nella cantina di casa, gli eredi di Yvon Morandat trovarono, seminascosta e dimenticata, una cassa in legno contenente i manoscritti che poi decisero di consegnare, con il vincolo della loro conservazione fino alla morte della vedova di Céline, a Thibaudat.

Se gli autori ci sono dunque noti, rimane almeno il dubbio del perché Morandat trafugò i manoscritti se per avidità o, come preferiamo immaginare, per punire per sempre il collaborazionista amico dei nazisti.

Uscito su CulturaCommestibile n. 480 del 18 febbraio 2023

La fatica di tradurre Tolkien

Se nel proprio nome (o cognome in questo caso) risiede una parte del proprio destino, Ottavio Fatica intraprendendo la traduzione del Signore degli Anelli ha molto probabilmente compiuto il suo.

Già perché le vicende editoriali di questi tre volumi, in Italia, non sono mai state facili e anche questa volta si confermano tali. Credo c’entri anche un’appropriazione politica del testo tolkeniano da parte dell’estrema destra e del neofascismo dagli anni ’70 del tutto incomprensibile all’estero e a chi ha davvero letto (e mi si permetta capito) la saga dei Baggins.

Ma le critiche al lavoro di Fatica non sono arrivate solo dai nostalgici, c’è infatti una moltitudine di ex adolescenti (come chi scrive) che sono cresciuti forgiati da quel libro che circolava con la sua copertina agreste dai contorni beige e apriva mondi che poi spesso portavano a pomeriggi di giochi di ruolo.

Ma facciamo un po’ di ordine e proviamo a ricapitolare in estrema sintesi le vicende del libro nel nostro paese. La prima traduzione del volume è quella, in realtà mai arrivata alle stampe, che la piccola casa editrice l’Astrolabio commissiona ad una allora giovanissima Vittoria Alliata di Villafranca. La Alliata che non era (e non sarà) una traduttrice fa, va detto, un lavoro enorme e per i suoi mezzi egregio, tuttavia fu poi affiancata da Quirino Principe che ne corregge molta parte per l’edizione Rusconi che uscì nel 1970.

Quella traduzione è quella sulla quale generazioni di lettori sono cresciuti e si sono affezionati. Tuttavia nel 2003 Bompiani proporrà, alla ripubblicazione dei volumi sull’onda del successo dei film tratti dagli stessi, quella traduzione, però corretta su indicazione della Società Tolkeniana Italiana.

Sì perché nel frattempo il Signore degli Anelli e più in generale l’opera di Tolkien stava uscendo dalle fogne del neofascismo e dall’underground di cosplay e nerd ed entrava di diritto nei canoni letterari e nelle aule universitarie. Da qui, all’approssimarsi della scadenza dei diritti della traduzione dell’Alliata, la pressione sull’editore per una nuova traduzione.

Non senza strascichi legali, cause e velenosi articoli usciti sui giornali della destra italiana si arriva dunque all’opera di Ottavio Fatica, traduttore di grande esperienza con un gran lavoro su prosa e poesia inglese. Ma in cosa si caratterizza questo lavoro? La più evidente differenza (e quella su cui si sono concentrate le maggiori polemiche) è la traduzione diversa di molti dei nomi iconici della saga. I Raminghi che diventano Forestali, il Puledro impennato Cavallino Inalberato, Gran Burrone Valforra e molti altri. Un lavoro che il traduttore ha sempre giustificato per una maggiore aderenza alle sfaccettature e alle etimologie dell’autore. Non va infatti dimenticato che Tolkien di mestiere faceva il filologo a Oxford e tutte le sue opere sono caratterizzate per scelte linguistiche precise e mai casuali. Anche la poesia degli anelli che più o meno tutti i fan conoscevano a memoria viene riportata ad una maggiore coerenza con l’originale ma non è facile mandarla a memoria nella nuova versione.

E tuttavia a Fatica e all’editore è mancato il coraggio di utilizzare tale metro per tutti i nomi della saga (da un certo punto di vista fortunatamente) e dunque Baggins non è reso con Sacconi. Una scelta certo comprensibile che però avrebbe potuto essere adoperata per altri personaggi ed evitare che ogni volta che ci si riferisca ad Aragon come forestale non venga in mente uno in uniforme grigia intento a controllare che scoppi un incendio nel bosco.

Ma le due, a mio avviso, più importanti novità della traduzione di Fatica sono l’uso di registri diversi da parte dei personaggi e una fluidità e musicalità del testo. Il primo punto fa sì, per esempio, che le modeste origini di alcuni personaggi, Sam su tutti, si riflettano nel loro parlato. Questo fa sì che l’opera acquisti le sfaccettature che l’autore volle dargli: non una semplice saga epica fatta di eroi ma un’allegoria di una quotidianità che si trasforma in epica. Gli Hobbit non sono eroi scelti dagli dei, ma (mezzi)uomini travolti dal fato che compiono imprese eroiche. Una stratificazione di classe che era ben presente in Tolkien e che lo allontana dalla mistica del superuomo (che aveva trovato spazio quasi solo qui in Italia infatti).

Articolo uscito su Cultura Commestibile, n. 460 del 17 settembre 2022.

La libertà di obbedire al capoufficio.

C’è correlazione tra le procedure insegnate nelle scuole di management e il nazismo? A dirla così si potrebbe pensare che l’ultimo libro di Johann Chapoutot viri verso un genere prolifico ma non proprio rigoroso: quello del nazismo esoterico e delle teorie complottiste che vogliono l’occidente del secondo dopoguerra pieno di nazisti alla dottor Stranamore.

Una sensazione, purtroppo, alimentata dalla scelta dell’editore italiano, Einaudi, di far diventare il titolo originale del libro il sottotitolo dell’edizione italiana e di puntare su un titolo ed una frase-domanda retorica in copertina, acchiappalettori.

Tuttavia, si sa, che ogni mito si appoggia alla realtà ed è in fondo di una specie di Dottor Stranamore che nel libro di parla. Reinhard Höhn fu giurista, professore universitario e generale delle SS durante il nazismo e poi direttore di un’accademia per manager nel dopoguerra. Una struttura in cui passarono i principali quadri della potenza economica tedesca e si formarono 600.000 manager.

Chapouchot, dopo averci raccontato come i professori di dirtto tedesco diedero fondamento alla barbarie nazista ne La legge del sangue (Einaudi, 2016), riparte da una di quelle figure, Höhn per l’appunto, e ce lo mostra trasformarsi, senza mai rinnegarsi, nel dopoguerra democratico in un giustificatore del nuovo modello liberale e capitalista.

Una continuità che viene indagata a fondo e forse un po’ troppo apoditticamente dall’autore, che liquida l’abbandono delle idee razziste, dell’antisemitismo e della conquista dello spazio vitale all’est, da parte di Höhn, con troppa leggerezza, considerandole quasi accessorie all’idea di organizzazione dello Stato e dell’economia. È evidente che linee di continuità esistono e l’autore le indaga a fondo, pur tuttavia, lo stesso Chapoutot è costretto ad ammettere che questa continuità è precedente al Reich nazista e affonda le radici da un lato nel darwinismo sociale del tardo ottocento e dall’altra dagli studi sull’organizzazione d’impresa dei primi del novecento.

Non è nemmeno riscontrabile una specificità nazista nell’accogliere queste teorie come dimostra lo stesso caso di Höhn che si trova a suo agio sia sotto il regime che sotto la repubblica federale.

Dunque la specificità del volume sta, a mio avviso, in altro; nell’indagine del nazismo come rottura del positivismo e nel capitolo in cui, in continuità con La legge del Sangue, dimostra come Hitler intenda superare lo Stato, entità che imbastardisce il sangue germanico, eredità di latini e giudei, per mettere al centro la razza da cui discende la comunità. Una rottura dello stereotipo dell’iperburocratizzazione del nazismo che, ci spiega invece l’autore, è figlia non dello statalismo ma dal moltiplicarsi di agenzie, potentati, feudi, ognuno intento a inseguire lo scopo della purezza della razza e della comunità germanica.

Non fa eccezione il governo dell’economia del Reich, che è per giunta fin da subito, economia di guerra prima votata al riarmo e poi a soddisfare il conflitto. Eppure l’autore ci mostra come questa economia (ed in fondo il regime tutto) pur basandosi sull’eliminazione anche fisica dell’altro, del non allineato, cercasse per la maggioranza dei suoi cittadini di costruire un consenso, financo un’adorazione per l’unico Reich, l’unico popolo, l’unico Führer.

Su questo l’organizzazione economica nazista differisce poco dalle altre organizzazioni capitaliste coeve. Il manager è dotato di autonomia e libertà non verso le scelte ma sul modo di realizzarle, libero di obbedire dunque. Responsabile dei propri insuccessi (veri e presunti) come nella Russia stalinista. Ma l’operaio come l’impiegato devono aver modo di riposarsi e tornare ad essere produttivi; dunque il regime ne organizza il tempo libero come nei dopolavoro fascisti e infine deve poter sognare che il bene che sta producendo potrà essere suo. Un modello che si identifica fin dal nome, per esempio, della Volkswagen la vetturetta per tutti proprio come la Ford Model T sarebbe stata l’auto costruita da quelli che la producevano.

Vi è dunque sì una continuità ma a dispetto di quello che l’autore sottintende è più propria del modello industriale, di cui il nazismo può essere considerata la più efferata delle varianti, che dell’ordine della razza e del sangue. Vista così stupisce meno la capacità di Höhn di ricostruirsi un destino nella Germania democratica di cui farà parte. Il management per obiettivi non fu infatti prerogativa del solo miracolo economico tedesco e non fu la “scoperta” del passato nazista di Höhn a farlo tramontare, casomai (come giustamente nota anche l’autore) fu la sua versione più ridotta, flessibile e meno invasiva teorizzata negli Stati Uniti, a decretarne la fine.

In questo sì il peso della sovrastruttura degli ex nazisti può aver giocato un ruolo di appesantimento e di minor capacità di adattamento alle mutate forme di produrre che, a partire dagli anni ’70, cambiarono l’organizzazione del lavoro almeno nel mondo occidentale.

Vi è poi infine un salto logico difficilmente giustificabile in Chapoutot quando nell’ultimo capitolo, liquidato Höhn e decretato storicamente il fallimento del suo modello, l’autore tende a fare un parallelo tra l’attuale alienazione del lavoro e le teorie del moderno capitalismo.

Alienazioni che sono del tutto evidenti e forse persino più marcate, probabilmente perché difettano di un contromodello culturale e sociale, che negli anni del miracolo economico ma che stentiamo a vedere come discendenti da una elaborazione giuridica che giustificava un regime assassino e genocida.

Come direbbe un caro amico: il problema è il capitalismo casomai, non Höhn.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 396 del 10 aprile 2021.

Una nuova casa, una nuova proprietà privata

http://www.wiparchitetti.com/portfolio-item/housing-sociale-3/

Si potrebbe pensare che sia un segno di questi strani tempi che viviamo se un imprenditore, un immobiliarista, non proprio avvezzo alle teorie del marxismo leninismo intitoli un suo libro, La ville pour tous – repenser la propriété privée (La città per tutti, ripensare la proprietà privata), invece il volume di Robin Rivaton è stato scritto prima della pandemia e, infatti, non tiene conto delle riflessioni che quest’ultima ha posto di fronte alla città o al lavoro da casa.

La tesi del saggista e immobiliarista francese è che ovunque nel mondo lo sviluppo avviene nelle città, in particolare nelle metropoli. È lì dove si trovano i migliori lavori, i migliori servizi, le migliori opportunità. La frattura tra metropoli e campagna è dunque destinata ad aumentare e così le tensioni sociali. Il modello che pensava di tenere divise queste entità in base al costo della vita delle aree urbane non si è rivelato un valido deterrente perché comunque le metropoli rendono meno pesante la povertà, con le loro reti di assistenza o semplicemente con le maggiori possibilità di un lavoro anche precario come quello della GIG economy.

Dunque, occorre invertire questa corsa alla crescita del valore fondiario che è oggi la risorsa – ci dice l’autore – più rara del pianeta, perché niente (probabilmente nemmeno questa pandemia) fermerà questo fenomeno di inurbamento metropolitano che tocca tutti i paesi, quelli emergenti come quelli sviluppati.

Quale soluzione allora? Per Rivaton una “metropolizzazione” virtuosa è possibile a condizione di abbassare drasticamente il prezzo degli immobili e questo passa attraverso delle misure radicali: confisca, costruzione e controllo per meglio redistribuire le case ed il loro valore.

Per Rivaton, che si concentra sul modello francese, questo si deve attuare nella creazione di un’unica imposta su case e terreni che favorisca, a seconda delle stagioni della vita, l’acquisto e la vendita di case in base ai reali bisogni e non alla convenienza. Una tassazione che naturalmente agevoli la costruzione di immobili e la messa a disposizione di case ed appartamenti colpendo in modo feroce la rendita, fino alla confisca, seppur con indennizzo, degli immobili non locati.

Un progetto che se appare massimalista nell’enfasi della banda rossa della copertina del volume, in realtà rappresenta un approccio liberale ad un tema spinoso ma cruciale del nostro futuro.

Marc Rivaton, La ville pour tous, repenser la propriété privée, L’observatoire, 2019

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.394 del 27 marzo 2021

Le città postpandemiche

Parigi – urban farm

Per anni dietro le mie spalle, nel mio ufficio di allora, ho avuto un manifesto (se non ricordo male era dell’ARCI) con il motto medievale tedesco: “l’aria delle città rende liberi”. Ci ripensavo in questi mesi di pandemia quando l’aria delle città – più correttamente degli sprawl – appare quella meno salubre e più feconda per la trasmissione del virus. Ragionamenti che anche sociologi, urbanisti, amministratori, stanno provando a fare, approfittando del virus come occasione di ripensamento e ridisegno degli spazi del nostro abitare.

Non tanto come metodo di lotta al virus, si spera che i tempi di cura del COVID non siano quelli medi del ridisegno delle nostre città ma molto, molto, più rapidi, piuttosto un ripensamento che va in direzione di una sostenibilità ambientale e come precauzione per le prossime crisi, non necessariamente pandemiche, che come ci insegna David Quammen in Spillover ci troveremo, anche a causa del nostro sviluppo ad affrontare. Mentre qui da noi si oscilla tra archistar che blaterano di un ritorno ai piccoli borghi, amministratori che aborrono lo smart working per non far chiudere il baretto sotto la Regione e un generale senso di “add’ha passà a nuttata”, nel resto del mondo qualcosa si muove in direzioni diverse e interessanti. Rispondendo ad una intervista del Sole 24 ore del settembre scorso Richard Florida, l’urbanista guru della società della conoscenza che tanto ha plasmato gli anni dell’ottimismo obamiano, ha riletto la sua concezione di egemonia della classe creativa alla luce del COVID-19. Fine delle metropoli, ritorno alla media dimensione urbana. Va considerato che Florida parla del contesto americano e quelle che lui considera grandi città non sono certo le dimensioni delle nostre cittadine italiane. Dunque paradossalmente i nostri centri urbani potrebbero partire avvantaggiati rispetto a questa nuova fase. Anche perché il secondo elemento che Florida ritiene determinante nella città post pandemica è la piazza. Istituzione italiana per eccellenza, che non viene declinata al virtuale ma proprio come spazio di aggregazione e, perché no, di lavoro, legata allo smart working.

Inutile dire che la riflessione di Florida, così come la sua teoria più famosa, affronta il livello medio alto della società, quello che può telelavorare, quello che è sopravvissuto alla rivoluzione dell’ICT e che sopravviverà alla rivoluzione della robotica. Noi invece qualche problema su come sopravviveranno, anche in termini urbanistici, i milioni di lavoratori poco o per nulla qualificati nel processo di espulsione della loro forza lavoro ad opera dei robot vorremmo provare a porlo. Magari con soluzioni non troppo diverse, possibilmente, di quelle immaginate per la parte ricca (di soldi e di conoscenza) della popolazione.

Anche in Canada, precisamente in Québec, il tema è stato affrontato. Le smart city, il lavoro che cambia, le nuove generazioni iperconnesse erano alcuni dei temi della MTL Connect che si è svolta, per larga parte online, la scorsa settimana. In questo caso siamo già a i primi ripensamenti ad un ridisegno delle smart cities a partire dal fallimento di Toronto Google city.

Anche da questa parte dell’oceano però non si sta con le mani in mano. La città di Parigi ha iniziato il percorso di ridisegno del proprio strumento di programmazione urbanistica, ponendosi (prima del COVID) l’obbiettivo di un piano a bilancio ambientale positivo. Per cui dal consumo di suolo si passa alla restituzione di verde e aree umide in misura maggiore a quelle in cui si continuerà a colare cemento.

All’interno di questo processo, che prevede anche interessanti esercizi di democrazia partecipativa, Le Monde ha dedicato lo scorso 16 ottobre due pagine agli interventi di due urbanisti ed una sociologa sul tema del nuovo PLU (Plan Local d’Urbanisme). Ebbene tutti e tre gli interventi andavano nella direzione di Florida, del superamento della scala urbana della rottura della continuità del costruito. Più radicale, anche nella critica, l’urbanista Albert Levy che poneva come efficace non il limite della città (stiamo comunque parlando di Parigi) e nemmeno quello dell’aria ad essa confinante ma quello dell’intera regione parigina. Parlando in termini di difesa dai cambiamenti climatici, in particolare del surriscaldamento urbano, anche in termini sanitari. Scrive Levy: “lottare contro l’isola di calore urbano ed i suoi effetti sanitari deleteri deve divenire l’obiettivo prioritario dell’urbanistica bioclimatica, rinforzando il posto della natura nella città: ripiantare verde e alberi lungo le strade e nelle piazze, diversificare la vegetazione, rendere verdi facciate e tetti, sviluppare l’agricoltura urbana, gli orti comuni, i parchi, le trame verdi e blu, bloccare l’artificializzazione del suolo, demineralizzare il suolo, favorire l’infiltrazione naturale della pioggia, incoraggiare la fitoterapia, manutenere i corsi d’acqua”. Sono questi gli assi dello sviluppo urbanistico di Parigi, che però se vuole avere un senso deve avvenire a livello di scala regionale, avendo poco senso un salotto verde attorniato da banlieue cementificate, aeroporti intercontinentali e fabbriche inquinanti. Rompere il tessuto urbano, ridare soluzioni di continuità ad un tessuto che si è espanso senza fine e senza senso.

Queste le tesi anche di Agnés Sinaï e di Antoine Grumbach che vanno entrambi nella direzione della fine dell’urbanistica della congestione, la prima, e di una forse utopica riscoperta del territorio e della sua gestione armoniosa per il secondo.

Comunque il punto di fondo è la fine della megalopoli come modello di sviluppo, un ritorno a rotture tra città e campagna con quest’ultima fortemente collegata da infrastrutture tecnologiche e materiali ad impatto però ridotto.

Uno scenario che potrebbe vedere l’Italia e in particolare quel territorio centrale che va dagli Appennini alla Capitale come un unico scenario di sviluppo di queste nuove competenze, di un modello bioclimatico a cui si aggiungerebbero le bellezze architettoniche, artistiche, storiche e paesaggistiche ed un modello di sviluppo economico diffuso, ridisegnando e sostenendo in infrastrutturazione, ricerca e sviluppo il tessuto di medie e piccole imprese.

Potremmo essere capofila di un modello di sviluppo che per le parti più avanzate del pianeta vorrebbe dire cambio traumatico di traiettoria, mentre per noi, prosecuzione di un cammino millenario. Potrebbe, a patto di non limitare l’ottica ai dehors dei bar e ristoranti oramai vuoti, al museo da tornare a riempire e alla ZTL da perforare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile.com n. 374 del 24 ottobre 2020