Dal Nuovo Corriere di Firenze del 1 settembre 2011.
Se ho ben interpretato le parole del governatore della BCE Trichet, sentito negli scorsi giorni dal Parlamento Europeo, in Europa non mancano i soldi, che anzi ci sarebbero eccome, ma l’economia è bloccata per la paura ed il timore, sia rispetto ai debiti pubblici che all’andamento dell’economia europea ed americana. Insomma una versione tecnica e colta dell’affermazione berlusconiana della crisi soltanto psicologica. Personalmente credo che la paura c’entri fino ad un certo punto; credo però che su una cosa Trichet abbia pienamente ragione, cioè sul fatto che i soldi ci siano eccome.
Anche le settimane di speculazioni estreme su Italia, Francia e (in parte) Germania hanno sì bruciato miliardi che però non sono scomparsi nel nulla ma, nella stragrande maggioranza dei casi, sono passati dai piccoli ai grandi investitori. La crisi ha quindi accentuato la forbice fra ricchi e poveri, travolgendo spesso il ceto medio (quello vero e non quello di cui parlano Casini e la CEI per eliminare il contributo di solidarietà per i redditi personali superiori a 90.000 Euro) e bloccato la redistribuzione di redditi e ricchezze. In questo senso l’accumulazione di ricchezza in poche mani spesso ha come corollario la riduzione delle forme (e della sostanza) della democrazia e delle forme di partecipazione sociale e politica che senza arrivare alle oligarchie dell’est europeo rappresentano un modello molto distante dalla democrazia rappresentativa pur mantenendone le istituzioni.
Negli anni ’90 andava per la maggiore un economista, Amartya Sen, che ha a lungo spiegato come il modello di sviluppo indiano fosse migliore di quello cinese, grazie alla democrazia e all’istruzione. Osannato dalla sinistra in cerca della terza via è stato riposto in tutta fretta, trafitto dalla crescita cinese e dal turbocapitalismo che ci spiegava come la Cina avrebbe rappresentato un mercato per noi occidentali in grado di “bastare” alla nostra crescita. Forse andrebbe ripreso in mano oggi Sen, cercando di legare sviluppo alla redistribuzione dei redditi, impedendo l’accumularsi di fortune nelle mani di pochi, ben coscienti che una società di consumi non avrà mai abbastanza ricchi per crescere coi soli beni di lusso.
Nei giorni in cui la nostra attenzione è (giustamente) tutta concentrata sul solo debito pubblico, non bisogna dimenticare di ascoltare quei pochi, siano liberali convinti che la crescita si avrà con meno Stato e tasse, siano socialdemocratici convinti che siano necessarie politiche e servizi per la redistribuzione della ricchezza, che dicono che il rigore dei conti e il pareggio di bilancio rischiano di essere solo un modo sereno di giungere alla decadenza del nostro occidente.