In questo autunno che tarda ad arrivare ripartono consuete le stagioni teatrali: Pupi e Fresedde ha presentato quella del teatro di Rifredi lo scorso 27 settembre inserendo come spettacolo di apertura la prima produzione in italiano dell’autore uruguaiano Sergio Blanco. Tebas land è un testo potentissimo ed emozionante che Angelo Savelli, che cura anche la regia dello spettacolo, ha reso con una traduzione secca e asciutta. Lo spettacolo andato in scena in anteprima al festival di Todi questa estate vede un giovane parricida ed un regista confrontarsi nel campo da basket del cortile di un penitenziario. Lo sdoppiamento tra la realtà carceraria e lo spettacolo che il regista vuole trarre da questo omicidio passa attraverso riferimenti letterari, primo su tutti quello di Edipo che ispira anche il nome dell’opera, ma anche e soprattutto attraverso i colloqui tra il regista, il parricida e il giovane attore che lo interpreterà sulla scena. Piani che si intersecano e definiscono la tragedia, a partire dal resoconto cronachistico di quanto accaduto per poi scavare e instaurare un rapporto tra l’autore e il detenuto, contrappuntato dall’attore che non è mera cartina di tornasole della riuscita dello spettacolo ma diventa pian piano ulteriore elemento di confronto e conoscenza. Uno spettacolo che ricostruisce il ristretto orizzonte carcerario ponendo lo spettatore sul palco a guardare la gabbia del campo da pallacanestro, asserragliato anche lui e privato del rassicurante confort della propria poltrona in platea. Messo al centro della scena il pubblico è quindi in grado di godersi appieno il gioco di attori che Ciro Masella ma soprattutto Samuele Picchi introducono anche fisicamente tra un rimbalzo di pallone e l’altro. Ancora una volta grande merito al Teatro di Rifredi nel portare in Italia un autore affermatissimo non soltanto nei paesi di lingua spagnola come era già accaduto con Josep Maria Mirò, che sarà in scena sempre a Rifredi per il terzo anno con Il principio di Archimede o col francese Rémi de Vos con il nuovo spettacolo Tre rotture anch’esso nel cartellone rifredino. Tebas land sarà in scena a Rifredi dal 10 al 27 ottobre con ben 14 repliche che conviene prenotare per tempo visti i posti ridotti per l’allestimento scenico scelto.
Arrivando al Salone del libro di Torino la prima cosa che noti entrando nel padiglione 3 è lo stand arabeggiante degli Emirati Arabi Uniti. Dopo le polemiche di due settimane sulla libertà di informazione, la libertà in genere, il fascismo e la democrazia, come direbbe un vecchio comunista, capisci che la fase è e rimane complessa. Poco più in là lo stand della Repubblica Popolare cinese con in bella mostra le copie in tutte le lingue del mondo del bestseller del leader Xi Jinping, “Governare la Cina” (edito per inciso in Italia da Giunti), conferma la sensazione di disagio. Si dirà che il tema era il fascismo ritornante, l’egemonia della nuova destra nel nostro Paese, non la democrazia nel mondo. Sarà ma rimango perplesso. Altaforte non c’è più al salone, espulso dagli organizzatori dopo la pressione mediatica e la denuncia di Sindaca di Torino e Presidente della Regione per apologia di fascismo. Denuncia che qualche avvocato definirebbe temeraria per quella che è la giurisprudenza prevalente sulle cosiddette leggi Scelba e Mancino, non solo negli ultimi anni ma da sempre. Il tema però era politico anche se, come al solito, in Italia la politica per nascondere la sua debolezza ricorre all’aiuto della giustizia. Ma il tema politico, sollevato per primo da Cristian Raimo – consulente del salone stesso – e poi amplificato dai Wu Ming c’era tutto e poco senso hanno le critiche che negli anni scorsi editori neofascisti erano già stati al salone del libro. Negli scorsi anni gli editori neofascisti non pubblicavano il libro del ministro degli interni, il tema della conquista dell’egemonia gli scorsi anni non era posto, oggi sì. Si può discutere dell’efficacia del boicottaggio, su chi colpisce, a chi fa male – a me che ho comprato i biglietti mesi prima in base al programma o all’editore neo fascista – ma non sulla legittimità che hanno alcuni lavoratori – seppur intellettuali – a non svolgere il loro lavoro per protesta. Ma, mi perdoneranno gli scrittori boicottanti, dubito che il loro gesto avrebbe ottenuto il risultato atteso senza che una sopravvissuta ai campi di sterminio, la presidente del museo di Auschwitz avesse posto il suo sovrappiù di forza morale dicendo o lei – venuta a celebrare il centenario di Primo Levi – o i fascisti. Ma una volta impacchettato lo stand di Altaforte, ristabilito l’equilibrio antifascista del salone, i problemi son finiti? Certo che no, nessuno lo pensa. Perché prima del salone Einaudi pubblicava il rossobruno Fusaro e non nella collana delle supercazzole, ma tra i piccoli saggi che vedono tra i colleghi del “filosofo” i Montanari, i Settis e i Ginsborg e dopo il salone il solito Furfaro esce con Utet con il suo nuovo libro. È poi notizia degli ultimissimi giorni che Di Battista – che di fascistissimo ha sicuramente il babbo – curerà addirittura la saggistica per Fazi, editore che sul finire degli anni novanta andava piuttosto di moda tra la sinistra engagé e che pubblicava l’esordiente Simona Baldanzi con Figlia di una vestaglia blu che oggi, infatti ripubblica con Alegre.
Nel frattempo, come ricorda la copertina di questo numero di
Cultura Commestibile, il governo giallo verde sta per chiudere Radio Radicale,
la cui vita è legata a un tenue emendamento leghista mentre si scrive, e ci si
chiede cosa faccia al riguardo la #brigatavoltaire costituita da Pierluigi
Battista per difendere la libertà di espressione di Altaforte. Probabilmente è
troppo intenta a riciclare i libri comprati su Amazon dal giornalista e gettati
nel cestino senza leggerli. Almeno D’Annunzio volava su Vienna per gettare i
volantini.
Lo dicevamo all’inizio, osservando le donne velate e mascherate intessere un tappeto allo stand degli Emirati Arabi Uniti che la fase era complessa e quindi occorrerebbe non limitarsi alla manichea indignazione di un momento, alla protesta della settimana. Leggere, di solito (visto che di libri in larga parte si parla) è normalmente un buon antidoto. Per esempio, leggere anche solo l’incipit del libro intervista di Chiara Giannini a Salvini aiuta molto. Bastano poche righe, ancor prima del trauma infantile del pupazetto di Zorro sottratto all’asilo al bimbo Matteo, per capire che cambiano i tempi ma non le argomentazioni. In quel Salvini uomo più desiderato dello Stivale dalle italiche femmine, risuona il rapporto, invero molto propagandistico, della virilità maschia di Mussolini che possedeva il Paese come le donne che a lui, vogliose, si concedevano. Che lo scriva una donna che è stata più volte in Afganistan a seguito dei militari italiani, può fare specie ma che la signora avesse qualche problema col senso del ridicolo lo dimostra la sua dichiarazione, a seguito del non poter essere al Salone al banchino del suo editore, di sentirsi come una sopravvissuta dei lager, seppur piccolissima come dice lei. Ecco forse è proprio il senso del ridicolo l’arma da impugnare perché chi fa ridere spesso ha già l’egemonia delle masse. Non credo sia un caso che, come nota Angela Nagle, l’Alt Right americana sia cresciuta coi meme sarcastici sui social network e non coi saggi dei grandi autori. Un modello che anche da noi la lega salviniana ha saccheggiato a man bassa. Da qui discende che “le migliori frasi di Osho” siano più efficaci dei Wu Ming? Probabilmente no, ma data la complessità della fase di cui sopra, appigliarsi alla speranza che una risata li seppellirà rimane comunque consolatorio.
Riapre LU.C.C.A. il centro espositivo per l’arte moderna e contemporanea nel cuore di Lucca dopo lunghi lavori di ristrutturazione e riapre al futuro con uno dei futuristi più talentuosi e atipici. Fortunato Depero dal sogno futurista al segno pubblicitario è infatti il titolo e l’oggetto della mostra che sarà visitabile nei rinnovati locali di via della Fratta 36 fino al 25 agosto. Una mostra che prova a raccontare la molteplicità di Depero, uomo dagli ingegni e dalle passioni multiple, che vengono rappresentate nel percorso della mostra dalla centralità del Depero pittore, che si intreccia con il Depero illustratore e il Depero pubblicitario, mantenendo intatto il talento, la visionarietà e lo stile unico.
Particolarmente suggestivi i lavori commissionati da Campari
e raccolti in una apposita sala mentre la selezioni delle opere “americane” di
Depero ne mostra un lato misconosciuto e lo riposiziona in un contesto
mondiale, dimostrandone la sua globalità di artista, facendolo uscire, almeno
come artista, dalle secche del dibattito nazional/nazionalista dell’arte degli
anni del primo Novecento e del ventennio fascista.
Da segnalare, nello spirito del LU.C.C.A. che ha sempre affiancato a grandi nomi dell’arte uno spazio per giovani artisti emergenti, i lavori di un ebanista, trentino come Depero, Giorgio Conta sposti fino al 9 giugno. Si tratta di alcune sue sculture in legno e opere pittoriche in cui il materiale ligneo è sia materia che forma espressiva, realizzate da un talento sicuramente da seguire.
Accendere la radio, prima del solito, attendendo le note del
Requiem di Mozart nell’esecuzione di Von Karajan e i Berliner come al solito,
anche se oggi quel requiem ha un senso diverso; domandarsi a chi sarebbe
toccata la rassegna “che non avremmo mai voluto fare”. Probabilmente al
direttore, che infatti c’è ma in coppia, perché Alessio Falconio bravissimo
direttore di Radio Radicale sa che la voce potrebbe rompersi e quindi ha
chiesto – suppongo – di farsi
accompagnare da Roberto Spagnoli. I due iniziano a leggere; la notizia, l’unica
che daranno dalla lettura dei giornali, è quella che tutti noi sappiamo: ieri,
mercoledì 17 aprile, Massimo Bordin ci ha lasciati. Portato via da un tumore,
una malattia che aveva trattato con riservatezza, come tutte le cose della sua
vita. Mi trovo a piangere mentre i due leggono il ricordo dell’uomo che mi ha
svegliato per gli ultimi 15 anni, che mi ha fatto da faro nell’editoria e nella
politica italiana. Mi pare che se ne sia andato via lo zio bello (ché Bordin
era pure bello) e intelligentissimo, quello a cui avresti chiesto qualunque
consiglio. Nell’etere le due voci, emozionate, sofferenti, leggono le parole
dedicate a Bordin a partire da il Foglio, giornale dal quale dispensava una
rubrica, rapida, affilata, mai banale. Le parole di Adriano Sofri, Giuliano
Ferrara, Guido Vitiello, colleghi, amici, tutti nipotini lasciati spiazzati
dalla morte dello zio bello.
Nelle parole che lo ricordano, nei giornali, nei comunicati
delle istituzioni e dei politici, nei post dei semplici ascoltatori, c’è
emozione vera, sconforto e sofferenza, ammirazione. Tutti gli schieramenti si
ritrovano nel lutto, perfino Crimi, definito da Bordin Gerarca minore, quello
che si è issato a vessillo della morte dell’emittente per la quale Massimo è
stato bandiera e simbolo, sente il bisogno di esprimere cordoglio.
In un Paese che fa polemica su tutto, che si divide sulle
morti come sulla vita, per Bordin piovono lacrime tutte uguali e basterebbe
questo a far comprendere la grandezza dell’uomo. Chi non ho lo ha conosciuto
potrebbe pensare che fosse un paraculo e per questo tutti ne portano
simbolicamente il feretro a spalla, niente di tutto questo: se c’era un uomo di
parte questo era Bordin, di parte ma non fazioso. Talmente convinto delle sue idee
da tenere testa a Pannella, talmente galantuomo da dedicare più tempo alla
lettura delle idee a lui più distanti che a quelle a lui comuni. Magari
contrappuntandole con sospiri, qualche “vabbè” o quel “figuriamoci” che era una
sentenza di cassazione.
Oggetto di culto per un manipolo di adepti, una piccola coorte
che si autoproclamò in un gruppo chiuso su Facebook – riservato come lui –
melomani bordiniani, che facevano a gara a trascrivere le migliori
punteggiature di Bordin nella rassegna appena sentita, spesso quasi in tempo
reale, beandosi tutti di quello che tutti stavamo contemporaneamente sentendo.
Culto della personalità? Può darsi ma dipendeva dalla personalità.
Se la cosa facesse piacere a Bordin non è dato sapere;
riservatissimo, della sua vita personale si sapeva pochissimo e sempre per
racconti di altri. Mai una volta ha letto nella rassegna uno dei suoi corsivi,
si limitava se il punto di vista da lui trattato non era stato preso in
considerazione da nessun altro a dire che “pure un piccolo corsivo ne parla
oggi sul Foglio”. Modesto ma consapevole del suo talento.
Tifoso della Roma, si sarà chiesto come mai gli era capitato
un figlio juventino, ed evitava con cura di trascinare il calcio nella rassegna
o negli altri programmi, sgarrava pochissime volte, spesso in prossimità del
derby, quelli stravinti o quelli strapersi. Si concedeva solo qualche rimbrotto
a chi appellava “capitano” altri da Totti. Romano, amava Roma, come la amano i
romani veri, con un amore disincantato ma enorme, che in parte condivideva per
Napoli e Palermo.
Un talento immenso, una capacità di analisi finissima che si
combaciava con una memoria storica incredibile. Probabilmente una maledizione
per lui, che confrontava le mutevoli posizioni di questo o quell’esponente
politico con quelli del passato e con le giravolte che la politica di questo
paese riserva. Ma Bordin era anche una cultura storica, politica e filosofica
notevolissima, capace di tenere testa, di ribattere sul punto, di smentire
persino, uno che era “memoria e verità” come Marco Pannella. Le loro
conversazioni domenicali erano epiche, smisurate, incommensurabili.
Bordin contrappuntava, smitizzava, facendo incazzare
Pannella e incazzandosi a sua volta, seppur con altro stile. Perché Bordin era
anche incazzoso, probabilmente focoso: rimaneva in lui eco del militante
trozkista nella Roma degli anni ’60, fermato da Pannella in Piazza Venezia prima
di strappare uno striscione del MSI.
Radicale sì ma col cuore a sinistra, la sua conoscenza del
movimento operaio, della storia della sinistra socialista e comunista, tradiva
origini ma anche affinità mai nascoste. Tanto che per offenderlo Pannella, in una
domenica di Pasqua di 19 anni fa, gli diede di “stronzo dalemiano”. Lui, con
addosso una maglietta rossa con su scritte le parole “dubitare, disubbidire,
trattare” abbozzò male una risposta, scoprimmo poi che la cosa l’aveva anche
ferito, fino a portarlo poi alle dimissioni da Direttore, ruolo che per noi non
ha però mai lasciato. Ma in radio tutto questo non traspirò, imprigionato nella
nuvola azzurra del fumo di sigari e sigarette che i due consumavano in quantità
industriali e che ne hanno decretato la fine terrena. Finirono a declinare la
propria diversità a partire dalla cravatta di Pannella, un enorme pendaglio
tutto colorato su una base giallo canarino, davvero importante: “siamo diversi
– fece Pannella. Certo io non ho una cravatta così – rispose Bordin. E questo è
un tuo limite – concluse Pannella”. Poi continuarono a parlare ancora per anni,
fino alla fine di Pannella, di Gambetta dell’incontro con Croce (di cui
circolano almeno una ventina di versioni) a prendersi affettuosamente in giro:
“Marco mancano un po’ più di quaranta minuti alla fine della trasmissione, ce
la fai a chiudere la parentesi?”.
Maestro lo hanno definito in tanti e maestro lo è stato
davvero, di storia, di politica, di giustizia, di giornalismo. Ascoltare la sua
rassegna, o lo speciale giustizia o le trasmissioni sul Medio Oriente o Israele
era come seguire un corso universitario gratuito. Ma fu anche maestro
involontario dei nostri figli, costretti da noi adepti ad ascoltarlo nel
tragitto casa scuola. Mio figlio ai tempi dell’asilo riconosceva immediatamente
la sua voce e lo chiamava “Bin Bin”. Glielo scrissi, mi rispose che prima o
poi, crescendo qualcuno di quei bambini avrebbe finito per denunciarlo.
Fu però maestro suo malgrado di tanti di noi che abbiamo
imbrattato le pagine dei quotidiani. Quante volte nello scrivere un pezzo ci
siamo chiesti: lo leggerebbe Bordin? e come lo troverebbe? Quindi via a
tagliare, stringere, eliminare retroscena e sparate, anche se scrivevamo per un
quotidiano di provincia che nell’edicola di Largo Argentina non sarebbe mai
arrivato.
Tutto questo non ci sarà più e non trovo pace a questa idea;
pensare che anche la sua memoria e il suo lascito ci abbandoneranno il 21
maggio, perché questo governo criminale, spegnerà Radio Radicale è un sovrappiù
di dolore che non meritiamo. Se hanno un senso le lacrime e le parole spese per
Massimo Bordin sta nel provare fino all’ultimo a far vivere la sua radio.
Tutto il clamore sulla sua fine, fatti gli scongiuri di rito, lo avrebbe scacciato con un “un po’ esagerati” e si sarebbe rimesso al lavoro per la sua radio, puntuale alle 7,35 del mattino. “Buongiorno agli ascoltatori di Radio Radicale….”
È tornato, dopo “La provvidenza rossa” Lodovico Festa e il suo detective probiviro comunista Cavenaghi per un altro giallo ambientato nella Milano Rossa. È uscito dunque, sempre per Sellerio, “La confusione morale” ambientato questa volta nella Milano degli anni ’80, quella in cui il PCI litigava con Craxi a livello nazionale ma governava con i socialisti nella capitale lombarda con la giunta Tognoli (Bagnoli nel libro). Ed è proprio questa dualità, questa alterità del comunismo meneghino la vera protagonista della storia. Come nel primo libro o forse ancor di più, l’intreccio noir e poliziesco sono un pretesto. Ne la provvidenza rossa era il pretesto per raccontare il mondo parallelo dei comunisti milanesi rispetto ad una società “secolarizzata” che li escludeva e da cui si autoescludevano. In questa seconda opera l’alterità è tutta fra compagni: tra quelli che vorrebbero inseguire la modernità del riformismo craxista e quelli, romani in larga parte, che lo vogliono contrastare trascinati dalla “questione morale” che Berlinguer, appena scomparso nella narrazione, aveva lanciato. A differenza però del primo volume, l’autore qui prende decisamente parte, schierandosi con i riformisti milanesi, e nel farlo da un lato (anche per esigenze narrative) traccia confini tropo netti tra i due campi ma soprattutto, conoscendo come andranno i fatti (per sé e per il PCI) dà ai compagni riformisti doti di preveggenza un po‘ troppo ampie, soprattutto per quanto riguarda cosa sarebbe accaduto in URSS dopo il 1989. Eppure, il libro rimane godevole, proprio per l’analisi di quella frattura tra le due sinistre che si compì in quegli anni, e per come “mani pulite” sarebbe nato e sviluppatosi. Anche in questo caso, l’autore forza un po’ la mano, e traccia una linea troppo netta, un destino ineluttabile, alla saldatura tra ambienti della magistratura e una parte, importante, dell’apparato comunista. Quello che è del tutto assente è il giudizio sul PSI di quegli anni, lasciato troppo sullo sfondo, concedendo troppo alla tesi assolutoria del craxismo costretto a determinate azioni, politiche e non soltanto politiche. Altrettanto godibile è il fatto che i personaggi seppur mascherati da nomi fittizi siano altamente riconoscibili e credibili, nonostante qualche dialogo un po’ troppo protocollare; così come la ricostruzione dell’ambiente milanese rimane la parte migliore dello scrivere di Festa, insieme alla descrizione dell’urbanistica e dell’architettura milanese, che già si intravedeva nella prima opera. Meno accurato – come nota Giuliano Ferrara recensendo il libro su il Foglio – nel ricostruire le vicissitudini della sinistra milanese di quegli anni il fatto che per tutto il libro nessun comunista non scopi mai; col risultato che da un lato ci si assolve per l’aver peccato coi craxiani e contemporaneamente ci si assolve pure dai peccati della carne.
Che Ambrose Akinmusire fosse un
talento del Jazz lo si sapeva da tempo, probabilmente fin dai suoi esordi e dal
suo percorso formativo prima alla Berkeley High School e poi alla Manhattan
School of Music. Eppure di giovani di talento, per fortuna, ce ne sono molti,
così come molti hanno collaborazioni con i grandi del Jazz. Quello che
caratterizza Akinmusire è però, oltre ad una tecnica sopraffina è un talento
compositivo formidabile ed una capacità di innovare rara nei jazzisti,
tecnicamente ineccepibili, delle ultime generazioni.
Questo talento emerge in modo
stupefacente nell’ultimo album del trombettista americano, “origami harvest” ,
uscito come i due precedenti per Blue Note. In questo disco Akimnusire ci
sorprende ancora una volta mischiando musica da camera europea, la sua tromba
jazz e il rap. Il groove dei sobborghi americani con l’eleganza delle sale da
concerto europea, viste non in contrapposizione tra di loro ma come un
riflesso, una ribellione all’America attuale, al razzismo dell’alt-right.
Un disco dichiaratamente
politico, nei titoli, nei testi ma anche nel non concedere nulla al mercato, al
pubblico educato e sonnolente del jazz abituale. Akinmusire apre quindi con “a
blooming bloodfruit in a hoodie” pezzo dedicato all’omicidio avvenuto in
Florida nel 2012 del diciassettenne di colore Trayvon Martin ad opera di un
vigilante di una ronda di quartiere. Si tratta di 13 minuti potenti, in cui il
rap duetta con gli archi e la tromba potente, dolorosa, di Akinmusire, in cui
non si avverte (come del resto in tutti i brani del disco) alcun calo di
tensione.
Un disco capace di segnare un’epoca e di consacrare un talento di cui siamo certi godremo a lungo.
Quando circa un anno fa intervistai per questa rivista Angelo Savelli, al debutto con Il Principio di Archimede, non conoscevo Josep Maria Mirò se non per i racconti che di lui, e del suo teatro, mi avevano fatto lo stesso Angelo e Giancarlo Mordini dopo i loro viaggi a Barcellona per vedere le sue opere. Dopo quell’intervista e la visione dello spettacolo di Mirò, tradotto in italiano e messo in scena da Angelo Savelli, cominciai a capire il perché di tanto interesse e di tanta attenzione per questo giovane drammaturgo catalano. Una impressione confermata lo scorso sabato sempre al Teatro di Rifredi con la presentazione, alla presenza dello stesso Mirò, della traduzione italiana di 4 opere teatrali sempre ad opera di Angelo Savelli e con lo spettacolo Nerium Park per la regia di Mario Gelardi. Il volume, Teatro (Cuepress, 2019), racchiude il testo delle due opere già andate in scena nel nostro Paese, Nerium Park e il Principio di Archimede, e due opere sinora inedite per la scena italiana, Dimentichiamoci di essere turisti e soprattutto Tempi selvaggi, il cui allestimento faraonico al teatro nazionale di Catalogna, rimane un sogno per i nostri teatri salvo forse il Piccolo di Milano o pochi altri.
Cosa però rende Mirò e le sue
opere così particolari ed interessanti? Intanto Mirò appare, anche nel racconto
dei registi che hanno diretto le sue opere come Xavier Albertì, direttore del
Teatre Nacional de Catalunya, come un osservatore attento, capace di portare un
punto di vista diverso di fenomeni sociali, fatti di cronaca, e trasformarli in
allegorie. Nel teatro di Mirò si vedono le conseguenze delle cose, non le cose
stesse e i suoi personaggi, impegnati spesso in dialoghi serrati, monchi ma mai
reticenti, ci vogliono dire qualcosa, pur non riuscendoci spesso, fino a
confessare altro da quella che era inizialmente la loro intenzione. E’ un
teatro nervoso quello di Mirò, ma non ansioso, in cui il risultato, il
messaggio, non è quasi mai quello atteso, quello scontato.
Un teatro capace di partire da un
fatto, calarlo in una spazialità: luoghi che diventano personaggi (la piscina
de il principio, il complesso edilizio di Nerum Park) che svolgono una
funzione, recitano un loro ruolo. Ruolo che spesso ha un significato negativo,
perché Mirò indaga i mali del nostro presente, ne fa denuncia senza retorica o
intento da professore. Eppure si tratta di un teatro pedagogico, in cui il
punto di vista dell’autore è tutto fuorché neutro, morale senza essere
moralista.
Dunque il volume di Mirò, la
pubblicazione delle sue opere è un bel contributo a quei registi e quelle
compagnie che si vogliano cimentare con una delle frontiere della drammaturgia
europea, che vogliano uscire dal provincialismo talvolta macchiettistico di un
teatro sociale che quando denuncia perde la poesia e quando fa poesia dimentica
l’analisi concreta del fatto concreto, come avrebbe detto un russo che un tempo
andava di moda.
Mentre andare a vedere le opere di Mirò riconcilia, da spettatori, con il teatro contemporaneo e da’ speranza di autori davvero presenti al nostro tempo; opere da andare a cercare ora che sono in scena nel nostro Paese: Il principio di Archimede è a Roma allo spazio Diamante sino al 17 marzo e Nerium Park è sino a domani a Napoli al Teatro nuovo e poi dal 21 al 24 marzo a Roma sempre allo spazio Diamante.
Di Riccardo Conti sono stato orgogliosamente “nipotino indisciplinato” e non è dunque facile scriverne a meno di due anni della sua prematura scomparsa. Tuttavia la pubblicazione, a cura della sezione Toscana dell’INU, del numero monografico di Urbanistica e Dossier a lui dedicato merita di cacciare indietro il magone e provare a ragionare su Riccardo Conti nel suo fare urbanistica, che è poi anche il titolo della pubblicazione.
Il volume raccoglie scritti di
chi con Riccardo condivise una stagione amministrativa e riformista, come la
chiamava lui, irripetibile. Intanto per
il metodo, un incontro di sapienti e di politici, così inimmaginabile nella
stagione dei “professoroni”, dell’inesperienza come valore, dell’università
della vita. Erano anni in cui i Direttori generali dei vari assessorati della
Regione Toscana non avrebbero sfigurato nelle cattedre dei migliori atenei del
Paese e in cui, noi capi di gabinetto, temevamo il maglio del CTP del giovedì
molto più della scure della giunta politica del lunedì. Nel volume c’è appunto
il racconto di Mauro Grassi che ci fu rubato dalla Cultura proprio per
approdare all’assessorato di Riccardo e con lui coordinare una squadra
formidabile che avrebbe disegnato una Toscana capace non solo di preservarsi ma
di svilupparsi.
Riccardo, cresciuto con la
cultura onnivora di quelli per cui studiare era la prima forma di riscatto,
declinava lo sviluppo territoriale come sviluppo economico, si ostinava a non
vedere la terra che era stata della Galileo, del Pignone e della Piaggio a un’eterna
Disneyland che consumava il suo passato o nella trasformazione in un
Chiantishire fatto di vincoli ad ossimorum. La sua idea di progresso passava
dalla città lineare da Firenze al mare, nell’alta capacità che univa Livorno a
Rotterdam. C’era in lui un forse ingenuo sviluppismo, un mito di progresso che
certo prevaleva su un ambientalismo da salotto, sull’immobilismo progressista
che vedeva in una fabbrica di caravan un nemico di classe.
La Toscana di Riccardo era vigne
a giropoggio, come aveva letto in Emilio Sereni, ma anche l’Arno Valley il cui
poster era appeso nella sua stanza di vicepresidente della Provincia. Lo
sguardo dritto e fiero nel futuro non lo abbandonava mai, ma era un futuro
fatto sì di rispetto ambientale ma non certo di immobilismo luddista. A
Riccardo piaceva il progresso e sognava riforme per sviluppare. Era felice la
crescita per lui, mai il suo contrario.
Certo non fu semplice lavorare
con Riccardo, rapportarsi con lui come ricorda il nostro Gianni Biagi anch’egli
autore di uno scritto della monografia sui rapporti, talvolta burrascosi tra i
piani regionali e quello comunale a cui forse un eccesso di critica da parte
della Regione contribuì a far allungare il dibattito fino a che il vento che
soffiava da Rignano ne decise la fine, più consona alla stagione nuova che
rappresentava.
Ma il metodo di Riccardo era un
metodo curioso, pedagogico. Intergenerazionale. Quanti giovani devono a
Riccardo occasioni di confronto e crescita, opportunità di incarichi, tutti
meritati, quanto meno per la qualità di quelli che ci sono succeduti. Ed ecco
che è così bello leggere le pagine di Chiara Agnoletti, anche lei cresciuta
alla scuola dei nipotini di Riccardo, mai geloso e sempre pronto a sorreggere
anche quelli più riottosi di noi.
Quella stagione siamo certi non
tornerà più e magari è meglio così, ma riappropriarsi di quel metodo, di quella
curiosità, della mazzetta dei giornali esagerata sempre sotto il braccio di
Riccardo, sarebbe oggi più che mai una necessità dell’agire politico.
“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” campeggiava in effige all’Ordine Nuovo gramsciano e Riccardo ne seguì fino all’ultimo il comando. Ricordarlo oggi continuando a studiare è il modo migliore per occuparsi del territorio, anche ferito, che ci circonda.
Se c’è un colpo di batteria che ha cambiato il mondo non c’è dubbio che questo sia quello con cui inizia Like a Rolling Stone, pezzo che apre Highway 61 Revisited l’album di mezzo della trilogia d’oro di Bob Dylan e probabilmente quello che lo consacra, con il successivo Blonde on Blonde, nell’olimpo della musica.
Siamo nel 1965, Dylan col suo cesto di capelli ribelli, la sua voce non propriamente aggraziata ha intrapreso prima timidamente con Bringing It All Back Home poi più decisamente con questo disco la conversione all’elettrico, facendo storcere il naso ai vecchi fans, ma spalancandosi il mondo dei giovani che prepareranno il ’68. In questo mondo di culture che si incontrano preparando lo scontro capita che Dylan trovi sulla sua strada un fotografo allora già abbastanza affermato che pubblicava sulle principali riviste, Jerry Schatzberg e lo inviti nello studio in cui in appena sei giorni compose quello che oggi consideriamo un capolavoro.
L’incontro funziona, Schatzberg inizia a seguire Dylan nel suo lavoro in studio ma anche nelle serate in cui si esibisce. Da lì il passo è breve e chiede a Dylan di “posare” per lui. Ma siamo negli anni ’60: nessuno studio, nessuna luce studiata. Escono fuori foto sgranate, imperfette, da cui emerge tutta la voglia di sperimentare di un artista che, forse inconsciamente, ha capito che sta cambiando qualcosa di più della vecchia chitarra acustica per una elettrica. Per Schatzberg è una illuminazione, tempo dopo dirà “come soggetto fotografico, Dylan era il migliore. Bastava puntargli addossol’obiettivo e le cose accadevano” e da quelle foto Dylan sceglierà quella della copertina dell’altra pietra miliare della sua produzione di quegli anni Blonde on Blonde. Quella di lui col cappotto marrone e la sciarpa a quadretti, i capelli arruffati.
Le strade dei due si divideranno come capita, ma non smetteranno mai una certa propensione al cambiamento, Dylan nella musica fino al riconoscimento massimo del Nobel, Schatzberg nella sua “seconda” carriera di regista cinematografico.
Oggi Skyra ripubblica quegli scatti nel volume Dylan/Schatzberg, che riunisce gli scatti di quel periodo alternati a interviste a Bob Dylan dell’epoca compresa la celebre intervista di Al Aronowitz “A night with Bob Dylan” apparsa sul New York Herald Tribune sempre nel 1965. Un libro dunque necessario, che ci testimonia un artista nelmomento della sua, probabilmente, più travolgente capacità di innovare e un periodo in cui tutto sarebbe potuto accadere e che da cui poi, in effetti, molto è accaduto.