Per una nuova legge elettorale regionale

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 settembre 2010 p.1

Quando gli allora DS furono i principali artefici della modifica alla legge elettorale regionale, aumentando il numero dei consiglieri e togliendo le preferenze, le motivazioni che furono allora addotte erano che la prima modifica serviva a garantire la piena rappresentanza di tutti i territori regionali e la seconda che evitava i rischi e i costi che le campagne elettorali con preferenze comportano. A quella legge si opposero in pochi all’interno di quel partito; in molti si opposero sulla base dell’assioma preferenze = libertà, quasi solo il sottoscritto, allora segretario cittadino dei DS di Firenze, votò contro quella legge (sia in direzione provinciale che regionale del partito) sulla base di un altro ragionamento. Contravvenendo a quanto affermava Frank Zappa (nella lotta fra te e il mondo stai dalla parte del mondo) ero convinto, e lo sono tuttora, che le due esigenze da cui si partiva potessero essere entrambe risolte senza arrivare al “cignalum” attuale. Come? Inserendo i collegi elettorali. Piena rappresentanza elettorale e assenza di preferenze in un colpo solo. Mi si risponderà che, visti i risultati elettorali “storici” in toscana questo sistema avrebbe penalizzato oltremodo le opposizioni di centrodestra. Si potrebbe riobbiettare che questa è la politica bellezza e da convinto assertore del maggioritario sarei quasi tentato di farlo, tuttavia si sarebbe potuto pensare a un sistema di collegi elettorali con un meccanismo di assegnazione dei seggi proporzionale. Insomma il fantomatico modello tedesco. Sì proprio quello rilanciato da D’Alema in questi giorni per il parlamento nazionale.

Allora mi trovai pressoché solo nel fare questa proposta, e non credo che le cose sia cambiate a mio favore nel frattempo. Tuttavia, mentre si ricomincia a parlare di riforma elettorale credo sia giusto testimoniare che un’altra legge elettorale era possibile e lo potrebbe essere tuttora.

Costi (europei) della politica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 luglio 2010.

Mentre da noi si sbraita (senza costrutto) sui costi della politica, sulle riduzioni degli stipendi dei parlamentari, in Francia, colpita da un affaire che riguarda presunti finanziamenti irregolari al partito del presidente Sarkozy, il principale quotidiano del Paese, Le Monde, ha realizzato un inchiesta su come si finanziano i partiti nel continente europeo.

Il quadro che è esce è molto frastagliato, a partire dalla stessa Francia dove l’assenza di validi strumenti normativi ha reso possibile, negli anni, numerosi scandali legati a finanziamenti occulti ai partiti.

In Spagna, per esempio il finanziamento è, per la maggior parte pubblico, proporzionale al risultato delle ultime legislative. Si tratta di circa 140 milioni di Euro ogni anno per il funzionamento ordinario dei partiti , più rimborsi elettorali in funzione dei seggi, del numero di votanti e di iscritti.

Completamente opposto il caso inglese in cui le sovvenzioni sono essenzialmente private. Gli aiuti dello Stato si concretizzano in spazi televisivi regolamentati, agevolazioni postali e la messa a disposizione di luoghi per fare riunioni. I contributi privati devono essere divulgati solo se superiori alle 5.000 sterline (circa 6.000 Euro),mentre esistono severi tetti di spesa alle campagne elettorali.

Stranamente opaco il sistema svedese che non obbliga i partiti a rendicontare l’origine dei loro fondi, tuttavia i partiti pubblicano autonomamente questi dati.

In Germania invece non esistono limiti al finanziamento privato che anzi è particolarmente invogliato dalla detassazione di tali somme. I contributi superiori a 50.000 Euro sono pubblicati dal sito del parlamento mentre quelli inferiori non subiscono alcun controllo. Nonostante lo scandalo dei fondi neri alla CDU di Helmut Kohl, il sistema non pare capace di garantire la necessaria trasparenza.

E in Italia? Se per una volta il nostro Paese può dirsi in buona compagnia con gli altri partner europei, bisogna riconoscere che da noi, al solito, le cose sono ancora più complicate.

Intanto non dovrebbe esistere, stante il risultato di un referendum abrogativo, alcun finanziamento pubblico ai partiti. E infatti dal 1994 si chiama rimborso elettorale. Ora, il termine rimborso, implicherebbe che uno spende dei soldi e questi vengono restituiti. Non è così però che funziona; infatti ogni formazione politica che ottenga l’1% (era il 4% fino al 2002) dei voti validi alle elezioni partecipa alla ripartizione dei fondi che sono calcolati non sul numero dei votanti ma degli aventi diritto. Tanto per dare due cifre l’impegno di spesa per la penultima legislatura è di 468.853.675 Euro.

Accanto a questo quasi nulli i controlli ai fondi privati. Esiste una modesta detassazione per i contributi superiori ai 500 Euro ma nessun obbligo stringente sui bilanci dei partiti. Discorso a parte la sovvenzione pubblica alla stampa di partito che, in realtà, più che sovvenzionare i partiti tiene in vita molti dei quotidiani in edicola.

Infine pochissimi sanno che è possibile donare il 4 per mille del proprio IRPEF anche ai partiti politici.

Il fatto che nessun partito abbia mai fatto una campagna di comunicazione su questo tema dimostra come ci sia, all’interno dei partiti stessi, la consapevolezza di non essere in sintonia col Paese su questo tema.

Com’è profondo il mare

Scrivere dei libri degli amici non è mai semplice. Se non ti piace il libro ti dispiace ferire l’amico, se ti piace hai paura che il giudizio sulla persona renda meno credibile il giudizio sull’opera. Tuttavia quando un amico scrive un libro come La memoria dei Pesci, diventa difficile non parlarne.

Pippo Russo arriva al suo terzo romanzo e lo fa spiazzandoci un altra volta. Tre libri, tre storie completamente diverse e tre stili di scrittura sempre nuovi.

Questa volta siamo in un futuro talmente prossimo da essere presente, il 2011, e in una Firenze talmente vera da farti male, con le sue contraddizioni, i suoi luoghi estranei alle guide turistiche. I suoi colori e i suoi sapori. In questa città solare ma cupa al tempo stesso si muove Brando, un antieroe la cui vita all’apparenza di successo, deraglia sia sentimentalmente che professionalmente. E deraglia a partire dall’intreccio di reale e virtuale in cui Brando, come tutti noi, è immerso. Così tra second life, costruzione di biografie digitali (l’invenzione e il lavoro di Brando), donne amate per l’immagine che danno di se sull’iphone, Brando è chiamato dal mondo virtuale a fare i conti con se stesso e la sua memoria.

Un’ educazione sentimentale di un adulto dei nostri giorni. Un uomo, un maschio, verso cui l’autore non è affatto indulgente e che risalta, in negativo, per contrasto alle donne splendide che ha intorno.

Una scrittura decisa, spigolosa come il personaggio, sottolinea un libro che ci dice molto di come siamo e cosa stiamo diventando.

Pippo Russo, La Memoria dei Pesci, Cult Editore, 2010.

Ok panic!

Polillo è un piccolo editore. Un piccolo editore coraggioso. In questi anni ha lanciato una collana che si chiama i bassotti e che raccoglie una selezione di gialli inglesi e americani degli anni trenta e quaranta. Quella che viene, a ragione, definita l’epoca d’oro del thriller.

Polillo è andato a scovare un romanzo inedito (qui in Italia) scritto da Hellen McCloy nel 1944. Una storia di spie, codici segreti e panico. Panico che è appunto il titolo italiano del romanzo, traduzione fedele dell’originale Panic inglese,  e devo ammettere che il titolo è azzeccato.

Raramente un libro mi ha tenuto così in tensione soprattutto nelle descrizioni delle notti insonni della protagonista in uno sperduto casolare perso nei boschi senza elettricità.

Un romanzo di genere ma colto e intelligente, così come la sua autrice, versatile giornalista americana con un profondo retroterra culturale europeo.

Una scrittura cinematografica che ti trascina all’interno della storia e te la mostra in tutti i dettagli. Suspence compresa.

Per notti insonni.

Hellen McCloy, Panico, Polillo Editore.

Immigrati e fattore M

Da il Nuovo Corriere di Firenze del 2 luglio 2010

La triste spedizione azzurra ai mondiali in Sudafrica ha riaperto da noi una annosa discussione sulla povertà del nostro movimento calcistico, l’impoverimento dei vivai e la necessità di dare una scossa ai nostri pallonatori.

Uno dei temi sollevati è il paragone con la brillante Germania della cosiddetta generazione M (per multiculturale) in cui ben 11 dei 23 convocati non sono tedeschi per discendenza familiare ma per diritto acquisito e naturalizzazione.

Analoga riflessione si fece, lodandone le qualità calcistiche e sociali, per la Francia vittoriosa ai mondiali casalinghi del 1998.

Senza voler entrare qui nei meriti calcistici della vicenda ci interessa soffermarci sul nesso che può esistere tra questi successi calcistici e le riforme del diritto di cittadinanza che questi due paesi, a partire dagli anni ’90 hanno compiuto. Non pensiamo infatti che i lungimiranti cancellieri tedeschi e presidenti francesi avessero in mente le vittorie sportive quando modificarono le loro leggi per l’acquisizione della cittadinanza. Quello che avevano di fronte erano due paesi con un profondo calo delle nascite autoctone e una crescente immigrazione arrivata peraltro alla seconda e forse terza generazione.

Fu proprio negli anni 90 che Germania e Francia superarono il cosiddetto jus sanguinis (sei cittadino di uno Stato se sei figlio di cittadini di quello Stato) verso lo jus soli (divieni cittadino di uno Stato se nasci e risiedi in quello Stato). Ad oggi si diventa cittadini tedeschi o francesi se si è figli di genitori francesi o al compimento del diciottesimo anno di età anche se si è figli di genitori immigrati. Per i tedeschi è necessario che i genitori risiedano regolarmente in Germania da almeno 8 anni e alla maggiore età i ragazzi possono scegliere quale nazionalità adottare.

E in Italia? Niente di tutto questo è avvenuto, nonostante due leggi (Turco Napolitano prima e Bossi Fini poi) abbiano negli stessi anni trattato il problema immigrazione, e si sia oggi (ma già da qualche tempo) in presenza dei fenomeni che c’erano nei due paesi europei venti anni fa, seppure, ricordiamolo sempre, la percentuale degli immigrati regolari resti più bassa della media europea.

Certo ciclicamente si torna a parlare di jus soli in Italia, dapprima fu Amato, allora Ministro dell’Interno, poi ultimamente Fini; ma alle parole ha sempre prevalso l’impostazione ideologica dell’immigrazione vista come fenomeno riguardante o la sfera economica o quella delle sicurezza.

Nulla peraltro nemmeno su un altro fronte, quello della cosiddetta cittadinanza per merito, un modello che per breve fu studiato dal governo Prodi e di cui ha scritto molto il sociologo Pippo Russo. Un modello che vede il superamento dei due criteri sopra descritti a favore di una cittadinanza che si ottiene “sul campo” per meriti professionali e lavorativi anche per categorie cosiddette intermedie.

Nel frattempo si è andati avanti per i lunghi procedimenti della naturalizzazione che si contrae attraverso il matrimonio, per meriti eccellenti o nel caso di oriundi e che la FIGC pare oggi riproporre per rimpolpare la prossima nazionale di Prandelli con una miopia sui destini del calcio italiano che è uguale a quella della politica nei confronti del Paese.

Risultati di questo far niente? Un Paese più povero socialmente, economicamente e, probabilmente, anche calcisticamente.

Ad andar con lo zoppo

Sarà un debito di riconoscenza per averlo chiamato in Parlamento e, grazie alla legge elettorale, eletto nelle fila del PD ma l’ultimo romanzo di Gianrico Carofiglio, barese già magistrato e oggi parlamentare, è decisamente veltroniano. Per carità Carofiglio ha sempre una scrittura scorrevole, è capace di farsi leggere con facilità e le sue storie filano sempre lisce fino al finale, eppure questa volta lo spleen del suo avvocato Guerrieri tracima e infarcisce le pagine con un catalogo di film, canzoni, luoghi, cibi memorabili. Un Album Panini dei ricordi, un amarcord generazionale che ha completamente assente quella leggera cattiveria e ironia che invece caratterizzava, per esempio, il primo Nick Horby.

Dunque l’avvocato Guerrieri stavolta lascia le aule di tribunale per trasformarsi in un Marlowe sbadato, viaggiatore in una Bari che rimane, al lettore che non la conosca di suo, sconosciuta dalla pagine del libro; c’è la ricerca di una ragazza scomparsa, le ex escort (potevano mancare a Bari?) proprietarie di locali notturni, le studentesse universitarie che non sono quello che sembrano e un giro di cocaina che circonda il tutto.

Peccato, Carofiglio coi suoi primi due romanzi pubblicati da Sellerio ci aveva abituato male e ci aveva fatto sperare che fosse possibile una via italiana al legal thriller.

(Gianrico Carofiglio, Le Perfezioni provvisorie, Palermo, Sellerio, 2010)

Dalla parte dei lavoratori (però dipende quali)

Continua la collaborazione tra questo blog e il Nuovo Corriere di Firenze, oggi a pagina 2 trovate questo mio articolo.

La CGIL è il più grande sindacato italiano. Lo è per numero di iscritti, per tradizione, per forza. Nella CGIL la Funzione Pubblica è, insieme ai pensionati, il settore più forte e rilevante. Dunque ciò che avviene al suo interno non è quasi mai casuale e, come dire, definisce una linea d’azione del sindacato, tanto più a Firenze capitale della rossa Toscana.

Ora la Funzione Pubblica di Firenze ha, nei mesi scorsi, sospeso dall’iscrizione un suo militante soltanto perché a questo è arrivato un avviso di garanzia da parte della Procura. Si badi bene il soggetto in questione non è stato sospeso da una qualche carica interna al sindacato, ma dal suo essere semplice iscritto. Di più, l’inchiesta di cui questo lavoratore è oggetto non è nemmeno afferente al suo lavoro. Nessun provvedimento di restrizione della Libertà, nessuna sentenza di alcun grado. Solo un avviso che, la Legge, vorrebbe appunto a garanzia dell’imputato.

Il bello è che la CGIL non ha nel suo statuto alcun riferimento a tale possibilità. Si parla di sospensione e persino di espulsione per coloro i quali hanno sentenze definitive. Invece è chiaro il riferimento, nello statuto sindacale, alla Costituzione Italiana che fa della presunzione di innocenza uno dei cardini della nostra civiltà giuridica.

Invano il povero iscritto ha fatto ricorso ai garanti del Sindacato, i quali si sono rintanati dietro la discrezionalità propria del segretario di categoria che ha firmato l’atto di sospensione.

Insomma il sindacato invece di stare vicino a un lavoratore proprio nel momento in cui questo probabilmente ha più bisogno di aiuto, lo scarica.

Il perché di questo atteggiamento così ostinatamente forcaiolo? Possiamo solo fare un ipotesi forti del vecchio adagio andreottiano che a pensar male si fa peccato ma spesso ci si da: il lavoratore ha avuto per sorte di essere un politico prima di questa vicenda e di essere finito in questa inchiesta proprio per il suo ruolo.

A me fanno sempre rabbrividire gli adepti del partito della forca e delle manette, che come è noto sono trasversali ai due schieramenti, ma l’idea del sindacato dei giustizialisti, se possibile, me ne fa ancora di più.

Come so’ ste olive?

Tutti a parlare di Grecia. Tutti a discutere di Pil, Buoni del Tesoro, Fondo Monetario di debito che arriverà al 140% del PIL e quasi nessuno a chiedersi come si sia potuto arrivare a tanto. Tra i pochi, qui da noi, il sole 24ore e la sua propaggine radiofonica Radio 24. Così ascolando e leggendo un idea che, aldilà della cospirazione mondiale della speculazione (una specie di SPECTRE dei banchieri) accusata ieri anche dai sindacalisti ellenici in visita al congresso della CGIL, qualche responsabilità ce l’abbia anche l’intero popolo greco ti viene

Intanto in Grecia le tasse non si pagano. Sta brutto, non si usa. Pare anzi che l’ultimo scontrino l’abbia richiesto Socrate e si sa che fine gli abbiano fatto fare.  Ancora peggio va per la casa. La mancanza di qualsivoglia strumento urbanistico di governo del territorio oltre ad aver sconvolto il paesaggio ha fatto sì che semplicemente non si pagasse niente perchè, per lo Stato, non esistevano. Tutto abusivo tutto gratis.

Accanto a questo una legislazione sull’età pensionabile che prevede il pensionamento anticipato a 50 anni per alcune categorie di lavoro usurante piuttosto singolari. I conduttori televisivi e radiofonici, per esempio, minacciati dalle colonie di batteri presenti nei reticoli dei microfoni, oppure i parrucchieri minacciati dalla tossicità delle tinture per capelli, evidentemente molto diffuse anche tra i rudi uomini greci visto che la legge non fa distinzione tra coiffeur puor hommes o pour dames.

E poi il bonus, nel pubblico impiego, per chi arriva in ufficio in orario, gli innumerevoli enti inutili tra cui uno per la salvaguardia di un lago prosciugatosi nel 1930.

Accanto a questo governi con il ricambio di classe dirigente che va per ere geologiche e quando finiscono per consunzione i padri gli succedono i figli. Governi bugiardi come quello di centrodestra sconfitto alle elezioni di ottobre che ha falsficato i conti mandati a Bruxelles (anche se su questo bisognerebbe aprire un ragionamento sui solerti funzionari europei che non si sono accorti dei conti falsi) oppure quantomeno lenti come quello socialista in carica che ha perso almeno quattro mesi prima di muoversi con energia sia verso Bruxelles che verso i propri cittadini preparandoli alle lacrime e sangue che li attenderanno.

Quattro mesi persi che hanno fatto sì che, insieme alla quasi nulla propensione al risparmio privato dei greci, oggi sia impensabile attuare forme di prelievo forzoso o di patrimoniale secca (sul modello fatto da Amato nel 92 quando la Lira fu sbattuta fuori dallo SME) perchè i capitali sono tutti già scappati all’estero (si calcola 20 miliardi di Euro) e sui conti correnti restano solo i risparmi delle vecchiette; mentre a Chelsea, Londra, i prezzi delle case di lusso sono schizzati alle stelle grazie ai milionari greci che cercano nuovi investimenti all’estero.

Riuscirà la Grecia a reggere la tensione sociale che è esplosa, riuscirà un classe politica che si è dimostrata inetta (centrodestra) o tentennante (centrosinistra) a tenere la barra ferma a varare alcune finanziarie da tregenda per ricevere i prestiti (non gli aiuti) europei? Prevarrà ancora in Europa la convinzione che il modo migliore di salvare i più forti sia aiutare la Grecia piuttosto che scaricarla?

E qui da noi, la paura di fare la stessa fine, viste alcune evidenti analogie almeno in una buona parte del Paese farà sì che quelle riforme necessarie di cui parla per esempio Marco Cappato qui (o altre che si ritengano migliori) si facciano prima della bancarotta?

Oggi Papandreu ha dichiarato, commentanto i tre morti dei disordini ateniesi, che la Grecia è sull’orlo del baratro, noi temiamo che abbia fatto un passo avanti.

Si può fare (meglio)!

Chi lavora nella realizzazione degli spot pubblicitari sa che quando il cliente è una casa automobilistica quasi nulla è impensabile. Gli spot più ricchi, più innovativi, più particolari sono quasi sempre legati alla commercializzazione di un auto.

Pensate un po’ alla pubblicità di quel fuoristrada la cui progressione cinetica è fatta dalle foto della stessa auto, oppure quella cabrio la cui semplice pressione di un tasto mette all’aria le orecchie di un simpatico cane.

Insomma grandi attori, scenari affascinanti, location esotiche, nulla manca mai nella pubblicità di un auto.

Ecco adesso pensate alla nuova pubblicità della Fiat, quella che utilizza le immagini del film di Mel Brooks Frankestein jr. Nessun collegamento tra quelle immagini e il prodotto, spezzoni di film intervallati da cartelli neri con l’offferta di auto e un senso di poco che pervade tutto lo spot.

Ecco, ci sono molti modi per raffigurare il declino. A volte basta uno spot.

Forse non avevo troppo torto.

Quando scrissi, durante le primarie per la scelta del candidato sindaco del PD di Firenze, che lo slogan di Matteo Renzi, Prima Firenze, mi ricordava terribilmente l’America First di McCain e che mi sembrava uno slogan “di destra” (nel senso di una rassicurante chiusura identitaria) suscitai subito ampie critiche da parte degli spin doctor di Matteo.

Oggi, grazie ad Europa, scoprendo il blog di comunicazione politica nomfup vedo che la versione declinata al regionale di Prima Firenze è lo slogan del candidato alla presidenza della Regione Veneto della Lega Nord Zaia chd declina Prima il Veneto proprio come difesa identitaria. Segno che la mia lettura dello slogan era, seppur così non fosse certo nelle intenzioni degli ideatori, possibile e anche piuttosto facile.

(AVVERTENZA: prima che, come mi è successo altre volte, qualcuno si senta offeso, tengo a precisare che dire che uno slogan sembra di destra non significa dire che uno sia di destra o attui necessariamente politiche di destra. Così come scrivere questo post non significa  fare opposizione a chicchessia.)