Alla rivoluzione senza programmi

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 novembre 2010 p.1

Sia detto qui in cima a sorta di premessa: Evviva Renzi e Civati e il loro allegro rottamare. Evviva la tre giorni alla Leopolda.

Già perchè, aldilà delle critiche che anche qui verranno fatte, l’evento che si apre stasera qui a Firenze ha meriti incancellabili. Intanto pone un problema vero, quello di un gruppo dirigente del PD che ha passato indenne, senza che finora nessuno ne chiedesse conto, più di 10 anni di vita politica italiana, vincendo anche ma perdendo molto di più. Non innovando la società italiana quanto avrebbe avuto necessità e quanto, almeno con l’Ulivo, avevano promesso. Non portando a compimento un’unione ideale, politica e partitica dei riformisti italiani, come promesso col PD, ma riproponendo le antiche liti e beghe in un contenitore nuovo dalla grafica bruttina e dall’appeal modesto.

Eppure questi che oggi i rottamatori vogliono togliere dalla prima fila hanno avuto occasioni, contesto e capacità: l’Ulivo come stagione politica, la cosiddetta terza via come orizzonte ideale e la vittoria elettorale del 96 per trasformare quella idea in azione di governo.

Quella stagione fu l’ultima stagione di proposta e innovazione politica per il centro sinistra italiano, di obiettivi (magari non sogni ma raramente la politica del governo è sogno), di internazionalità, di superamento vero e non pubblicitario di steccati ideologici (dai progressisti all’ulivo c’è più rottura di tabù che in tre anni di PD). Da allora è stato un susseguirsi di riti, di fughe in avanti seguite da imponenti marce indietro, di leader consumati al ritmo di un merenghe, di vecchi programmi spacciati per nuovi, di GAD, FED e Unione, vocazioni maggioritarie e ritorni al Partito con la p almeno maiuscoletta. Una sorta di commedia dell’arte che mette in scena il solito canovaccio con le solite maschere.

E a quelle maschere si rivolge il dinamico sindaco di Firenze e quelle maschere svela nella loro immutata fisionomia, nel loro apparire sempre uguali, bidimensionali. E quelle maschere molto si arrabbiano. Lo giudicano irriverente, maleducato, sgarbato. E che diamine vi vuol seppellire, ci mancherebbe che fosse educato o garbato. Che poi lo foste voi quando spediste il vecchio Natta e tutto il rimanente gruppo dirigente comunista nemmeno alla Fondazione Gramsci ma direttamente in pensione? Le cronache dell’epoca ci dicono di no. E non poteva essere altrimenti. Certo vale per gli ex Pci ma che dire degli ex DC? Loro magari avrebbero potuto essere anche garbati ma non lo sapremo mai, visto che del ricambio (chiamiamolo così) nel loro partito se ne occupò la magistratura e non certo loro e da questo vizio d’origine (l’aver acquisito il comando senza l’aver combattuto) forse deriva quella loro innata titubanza, lo scarso coraggio dimostrato. Quel coraggio che avrebbe dovuto trovare in loro, i Franceschini i Letta, i veri esclamatori del rinnovamento nei confronti dei D’Alema, dei Veltroni e dei Bersani.

E invece ci son voluti Renzi e Civati, coi rischi che questi comportano, come giustamente si nota in questo dibattito sui rottamatori. La mancanza d’esperienza, la mancanza di contenuti. Come negarlo? Eppure se guardiamo da chi vengono queste critiche, seppur giuste, ci appaiono tardive, interessate. Come dare credito ai Rondolino, ai Velardi, o ai Morassut? Intelligenti spin doctor dei rottamandi leader che paiono più giustificare sé stessi e il loro pensiero che muovere una riflessione.

Ed allora tutto bene e trovata in Prossima Fermata Italia la soluzione ai problemi del PD? Magari, ma temiamo non sia così. Intanto l’assenza, dichiarata e voluta, di contenuti rischia di far tendere al minimo l’accordo che a Firenze si potrà trovare. Andare alla Rivoluzione senza programmi, come rivendica lo stesso Renzi su il Post, è infatti sicuramente d’effetto, molto moderno (o postmoderno) ma preannuncia, se le idee non sono semplicemente nascoste ma effettivamente assenti, un accordo sui mezzi che si trasformano così in fini e un minimo comun denominatore sui contenuti che è uguale (e contrario) alle mille pagine del programma dell’Unione.

In questo senso un po’ ci attraggono le trovate sceniche proposte (la consolle del dj, i video, la musica…), un po’ ci spaventano perchè quell’armamentario di presidenze, ragionamenti, interventi scritti, erano certo liturgia ma anche il modo che, finora, si era trovato per ragionare e discutere a un livello superiore di quello della chiacchera da bar.

Guardiamo a Firenze con curiosità lo ammettiamo, ma anche con in mente le parole di Verazzoli sulla rivista di quel giovane ottantenne di Emanuele Macaluso: “contrariamente a quanto avvenuto sia tra i laburisti che tra i socialdemocratici, l’attacco sferrato da Renzi ai massimi dirigenti del Partito Democratico si è basato unicamente sulla necessità di una loro sostituzione; senza altre spiegazioni”.

Il che non significa che a Renzi, o a Civati, manchino idee o programmi. Il punto è quanto queste idee siano masticate, digerite e condivise tra di loro e tra quelli a cui si rivolgono.

Di sicuro è condiviso, largamente, il bisogno da loro posto, quello di svecchiare il PD; da questa tre giorni forse capiremo non tanto se avranno la forza per rottamare chi sta di fronte a loro ma se, una volta conquistato il ponte di comando, avranno una minima idea di dove mandare la nave.

La parola che manca

Dal Nuovo Corriere di Firenze di oggi.

Alcuni giorni fa Matteo Renzi, promuovendo e preparando la tre giorni della Leopolda ha chiamato i suoi amici di Facebook a indicare quale parola avrebbero voluto trovare a quell’appuntamento.

Tante le risposte, la più frequente come notava anche Marzio Fatucchi sul Corriere Fiorentino era onestà. In buona posizione meritocrazia e futuro.

Assente, completamente assente, la parola Eguaglianza. Una delle triadi del motto rivoluzionario francese, pilastro della sinistra mondiale nel XX secolo. Una parola che ha mosso masse, dato speranza, battezzato anche tragedie ma declinato pure un futuro possibile per quell’umanità che si voleva mossa verso un avvenire migliore.

Una parola che ha molto a che fare, se declinata in eguaglianza delle opportunità come seppe dire e fare Tony Blair e il suo New Labour, con il tema della cosiddetta rottamazione. Perchè non c’è rottamazione possibile se gli ultimi resteranno ultimi, se non avranno le possibilità di dimostrare il loro valore e la loro bravura.

Ed è strano che questo tema sia così assente proprio qui in Italia, un Paese in cui la mobilità sociale è tra le più basse del mondo (non solo occidentale), in cui persistono corporazioni che assomigliano più a caste che a categorie, in cui il destino dei figli è segnato troppo spesso dal mestiere dei padri.

Un paese in cui lo studio, le professioni, il lavoro ed anche la politica, sono quadri immobili e inaccessibili. Non c’è ricambio (generazionale e non ) se non c’è immissione di forze nuove, linfa nuova, voglia nuova.

Non è un caso se il sistema formativo degli Stati Uniti, principalmente privato e dove peraltro si applica da secoli la cooptazione come metodo di selezione, applica con micidiale efficienza il sistema delle borse di studio per i meno fortunati ma più talentuosi, fino a farli diventare persino Presidenti.

Ecco perchè alla Leopolda e in tutti i posti in cui la sinistra prova a ricreare sé stessa, mi piacerebbe che questa parola antica eppure così moderna risuonasse come faro di futuro.

Perchè Renzi ha già vinto il congresso PD

Dal Nuovo Corriere di Firenze di oggi.

E’ probabile che alla fine i candidati appoggiati da Renzi prevarranno, ma anche se così non fosse il sindaco, il congresso del PD lo ha già vinto. Per (molti) suoi meriti e per (molti) demeriti dei suoi avversari.

Intanto Renzi in questo anno e mezzo ha fatto il sindaco e mai il segretario di partito, a differenza del suo predecessore. Non ha messo bocca nelle vicende del PD fiorentino e poco anche in quelle del gruppo consiliare, ha conservato il suo ottimo rapporto coi cittadini, ha mantenuto consenso personale e ha occupato la scena della politica amministrando e facendo operazioni di comunicazione e di costruzione del consenso perfette come i 100 luoghi. Non occupando la scena del partito è riuscito ad occuparne il campo, a surrogarne i compiti e ad essere oggi lui l’unico soggetto politico.

Accanto a ciò ha ridimensionato o ammansito i suoi vecchi oppositori ed adesso lascia loro la (possibile) partita per le candidature alle prossime politiche. Un potere non piccolo direte? Una partita che Renzi, però, non ha bisogno di giocare. Il suo potere all’interno del PD non passa da qui. La partita di Renzi è ormai una partita romana, ha saputo diventare un leader nazionale e i suoi interlocutori sono Veltroni, D’Alema e Bersani non certo i loro luogotenenti locali.

Infine ha, anche qui per molti demeriti altrui, pressoché annullato la componente pistelliana approfittando della lontananza di Lapo, della frammentazione dei suoi simpatizzanti e della mancanza di leader possibili per capacità e autorevolezza riconosciuta. Risultato? La scomparsa di una componente organizzata che, sulla carta, poteva essere la vera “opposizione” interna.

Se questi i meriti di Renzi, quali i demeriti dei suoi avversari? Uno su tutti, lo sguardo rivolto al passato. Vale per Cioni e i cioniani innanzitutto. In una città che ha tripudiato Renzi in quanto fine del “regime” Domenici, come può apparire credibile l’ “opposizione” di Cioni e di Albini? Per quanto possano essere in buonafede i due rappresentano un sistema di potere che Firenze aveva finito per detestare e che nessuno vorrebbe oggi indietro. Ma lo sguardo al passato è lo stesso che caratterizza il competitor istituzionale Barducci. Per i metodi innanzitutto: caminetti nelle stanze di palazzo, accordi con sindaci e “potentati” locali. Anche i contenuti però non mancano: Barducci è stato per cinque anni il vice di Renzi, senza nulla da ridire né sui modi né sui contenuti.

Analogo discorso vale per i sindaci della Piana, prima hanno atteso la fine di Domenici confidando nella perdita di potere di Firenze per aumentare quello loro di veto. Quando poi si sono trovati davanti il dinamico Matteo non hanno fatto altro che esercitare quel veto. Posizione che forse renderà sul piano amministrativo ma di certo non costruisce egemonia.

Infine il cosiddetto “partito dei circoli”, che pensa di rispondere alla comunicazione in tempo reale di Renzi con documenti della base, assemblee e ritorno alle sezioni come luogo di mediazione degli interessi. Un po’ come dire che una volta inaugurata la TAV debba essere percorsa da locomotive a vapore.

Ecco perchè Renzi ha già vinto, perchè la sua è al momento l’unica chiave di lettura della città contemporanea, e quindi, qualunque sia il risultato dei congressi, lui resterà, se non l’unico e possibile, almeno il prevalente interlocutore dei cittadini nei confronti della politica sul versante PD.

Dunque non esiste alcuna possibilità per chi ha una visione politica diversa, non omogenea a Renzi? No qualcosa potrebbe esserci. Intanto Renzi non è il renzismo, anzi il renzismo non esiste. Renzi è ditta individuale, il suo non è un sistema di potere plurimo. Non che non esista un inner circle renziano di fidati e validi collaboratori, ma questi sono più “tecnici” che “politici”.

Un uomo solo, per quanto bravo e per quanto possa lavorare come Stakanov, resta un uomo solo, soprattutto di fronte ai problemi. Costruire su questo opzioni, non in contrasto, ma in ausilio alla politica del sindaco è uno spazio politico che si potrà aprire. Servono però competenze e idee da offrire, poco spazio per le ambizioni personali e un orizzonte che al momento può apparire lungo.

Altra strada da percorrere è quella di essere più contemporanei di Renzi. Di “sfidarlo” sul suo terreno, essendo capaci di parlare la lingua (avendo naturalmente qualcosa da dire) con la quale Renzi si rivolge ai cittadini. Occupare il suo stesso spazio politico. Non è un problema di anagrafe ma di freschezza mentale. Di riferimenti culturali e politici.

Quest’ultima è una strada ancora più lunga, significa rompere con rassicuranti abitudini e posizioni di rendita, di rimettersi a studiare e di fare sfoggio di umiltà. Di imparare dai propri errori e dalle capacità dell’avversario.

Alla fine però resta l’unico modo per costruirsi come alternativa o come interlocutore vero. Per rappresentare qualcosa di più di sé stessi o al massimo dei propri (pochi) iscritti.

Scava Pietro scava

Non ho mai conosciuto davvero Pietro Mirabelli, il minatore morto ieri in Svizzera e che fu responsabile della sicurezza nei cantieri della TAV a Barberino. Ho avuto la fortuna di parlare con lui una sola volta. Ho però conosciuto Pietro dalle pagine di Simona Baldanzi (Figlia di una vestaglia blu, Fazie Editore) e dalle parole della riduzione teatrale che di quel libro ha fatto il mio amico Andrea Bruno Savelli. Il “mio” Pietro aveva la faccia e la pronuncia di Fulvio Cauteruccio che lo interpretava, ma pur sempre “sue” erano le parole che pronunciava. Alcune in particolare mi colpiscono oggi, quelle in cui Pietro raccontava di come lui e la sua gente, quasi un intero paese giù in Calabria, avesse scavato gallerie in tutto il mondo. E infatti Pietro è andato a morire in Svizzera. Parole che suonano uguali a quelle del minatore raccontato da David Van de Sfroos in Pica!, pezzo dedicato proprio a questi lavoratori dimenticati e oscuri come le gallerie che scavano.E allora capisci che non c’è sud e non c’è nord quando devi faticare e vivere lontano da casa, senza sicurezza sia fisica, che economica. Estraneo e lontano. C’è solo la speranza della lotta per migliorare la tua condizione, per farti conoscere e per farti sentire accettato e apprezzato.

Pietro aveva due sogni, quello di una statua dedicata ai suoi compagni morti sul lavoro da erigere nel suo Paese e quello che quelle morti si arrestassero. Il primo sogno lo ha avverato, il secondo, purtroppo, no. E oggi quella statua da lui voluta è diventata un monumento anche a lui.

Una moschea a Firenze oggi, mica nel 1523

L’autore del progetto della Moschea di Firenze apparso nei giorni scorsi sui quotidiani, l’architetto David Napolitano, affida anche a Facebook la difesa del suo progetto criticato quasi unanimemente da esperti, colleghi e cittadini comuni. Una critica che faccio mia pensando che quanto visto sia una pessima scopiazzatura di edifici fiorentinti rinascimentali pensata più con l’intento di “mimetizzare” le differenze che altro. Un progetto brutto, senza appello, sia sul piano estetico che su quello del messaggio che vuole inviare, almeno per chi scrive.

Ma il suo progettista non pago di aver messo d’accordo praticamente tutti (favorevoli e contrari alla moschea) sul no a quel copia incolla in salsa finto rinascimentale, prova a difendere il suo lavoro con quattro pagine fitte di citazioni dal Vitruvio Pollone, ai pitagorici, passando per il Corano, Salomone e (come poteva mancare?) Leon Battista Alberti.

Sul suo progetto poche a mio avviso inutili righe finali in cui afferma che il suo progetto si pone nella pienezza della “dottrina” e che “la finalità [dell’]architettura classica non è la novità, ma l’armonia” e poi, commentando la nota, si definisce colui il quale è “capace di riprendere il discorso interrotto a Firenze nel 1523”.

Ora, intanto se quel discorso da circa cinque secoli si è interrotto e l’architettura è andata avanti qualche motivo ci sarà, ma volendo anche riprenderlo per buono, ciò non significa che la ripresa significhi riproposizione tale e quale di quanto già visto e già fatto. L’architetttura oltre che scienza é pure sfida, tecnica e simbolica, è lettura del presente e prefigurazione del futuro. Capacità di sopravvivere alle mode e al momento. La forma di arte più immediata e di consumo generale. Insomma tutta l’architettura è stata contemporanea, anche quella classica e proporre non la rivisitazione, l’omaggio al classico ma la sua palese e manifesta riproposizione è sintomo di vecchiaia intellettuale e del fatto che la conoscenza della dottrina è condizione necessaria per superare l’esame di storia dell’architettura non per progettare, oggi, un edificio così simbolicamente pregnante.

Infine il giudizio sul valore simbolico dell’opera. Una moschea in occidente e di questi tempi è uno degli edifici di più difficile concezione. Deve evitare di essere un simbolo di sfida a un occidente smarrito e impaurito di fronte all’islam ma, a mio parere, deve anche evitare il rischio opposto, quello di essere un’ipocrita e rassicurante copia di quanto a noi noto e conosciuto. Entrambe le scelte finiscono per rendere quel luogo ostile, altro ed estraneo alla città in cui si dovrà collocare. Quale soluzione? Forse quello di ibridarsi, di mescolare concezioni e tecniche. Cercando elementi di comunione (architettonica, simbolica e religiosa) e elementi di rottura, dosando bene entrambi. Mi viene in mente la facciata dell’Institut du Monde Arabe progettato da Jean Nouvel a Parigi, dove centinaia di diaframmi meccanici compongono un disegno di arabeschi.

Insomma gioverebbe, allo sterile e immobile dibattito moschea sì, moschea no; un progetto all’altezza del presente e della sfida posta dalla costruzione di una Moschea a Firenze oggi e non nel 1523.

Il concetto del favore

L’aggressione a Bonanni avvenuta alla festa nazionale del PD di Torino è certamente un fatto grave, esecrabile, da non sottovalutare.

Tuttavia la lettura maggioritaria dei commenti all’episodio da’ un interpretazione circa “l’utilità” del gesto operato dagli esponenti dei centri sociali torinesi.  Soprattutto a sinistra si è affermato che l’attacco di Torino avrebbe, di fatto, favorito la destra e indebolito la sinistra e i lavoratori. Un modo di vedere le cose che ricorda più un riflesso pavloviano che un vero e proprio ragionamento. Infatti questa argomentazione, per certi versi giusta si badi bene, presuppone che i soggetti rappresentati nell’aggressione giochino tutti la stessa partita. In realtà non è così, gli estremisti che hanno aggredito Bonanni, non giocano secondo le categorie Pd/PdL contestano quel sistema non una sua parte. Dunque il gioco del cui prodest non può essere a loro imputato, anzi il fatto che la loro azione non giovi alla sinistra istituzionale finisce per essere un corollario positivo all’azione anche se magari non cercato direttamente. Rivolgersi a loro con funzione pedagogica non ha effetto alcuno, perchè il ragionamento dell’estremismo è estraneo al sistema di ragionamento che adotta la sinistra istituzionale. Rischia invece di suonare indulgente nei loro confronti (come l’intervista al padre della ragazza che la dipinge quasi come una boyscout dei centri sociali), al pari dello sciagurato “compagni che sbagliano” di tremenda memoria. Serve, oltre alla condanna del gesto, capire che la contrapposizione, il conflitto, riguardano il sistema, la politica, e non lo schieramento, la parte politica; che inpedire ulteriori salti di qualità necessita, oltre che di servizi d’ordine, di risposte politiche ai disagi che quell’estremismo nutrono e/o usano come alibi.

Sbagliare le analisi per fatica e consuetudine è un buon modo di peggiorare le cose, cercare di fermarsi a capire un salutare esercizio e spesso l’unico modo di cambiare le cose.

Per una nuova legge elettorale regionale

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 settembre 2010 p.1

Quando gli allora DS furono i principali artefici della modifica alla legge elettorale regionale, aumentando il numero dei consiglieri e togliendo le preferenze, le motivazioni che furono allora addotte erano che la prima modifica serviva a garantire la piena rappresentanza di tutti i territori regionali e la seconda che evitava i rischi e i costi che le campagne elettorali con preferenze comportano. A quella legge si opposero in pochi all’interno di quel partito; in molti si opposero sulla base dell’assioma preferenze = libertà, quasi solo il sottoscritto, allora segretario cittadino dei DS di Firenze, votò contro quella legge (sia in direzione provinciale che regionale del partito) sulla base di un altro ragionamento. Contravvenendo a quanto affermava Frank Zappa (nella lotta fra te e il mondo stai dalla parte del mondo) ero convinto, e lo sono tuttora, che le due esigenze da cui si partiva potessero essere entrambe risolte senza arrivare al “cignalum” attuale. Come? Inserendo i collegi elettorali. Piena rappresentanza elettorale e assenza di preferenze in un colpo solo. Mi si risponderà che, visti i risultati elettorali “storici” in toscana questo sistema avrebbe penalizzato oltremodo le opposizioni di centrodestra. Si potrebbe riobbiettare che questa è la politica bellezza e da convinto assertore del maggioritario sarei quasi tentato di farlo, tuttavia si sarebbe potuto pensare a un sistema di collegi elettorali con un meccanismo di assegnazione dei seggi proporzionale. Insomma il fantomatico modello tedesco. Sì proprio quello rilanciato da D’Alema in questi giorni per il parlamento nazionale.

Allora mi trovai pressoché solo nel fare questa proposta, e non credo che le cose sia cambiate a mio favore nel frattempo. Tuttavia, mentre si ricomincia a parlare di riforma elettorale credo sia giusto testimoniare che un’altra legge elettorale era possibile e lo potrebbe essere tuttora.

Costi (europei) della politica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 luglio 2010.

Mentre da noi si sbraita (senza costrutto) sui costi della politica, sulle riduzioni degli stipendi dei parlamentari, in Francia, colpita da un affaire che riguarda presunti finanziamenti irregolari al partito del presidente Sarkozy, il principale quotidiano del Paese, Le Monde, ha realizzato un inchiesta su come si finanziano i partiti nel continente europeo.

Il quadro che è esce è molto frastagliato, a partire dalla stessa Francia dove l’assenza di validi strumenti normativi ha reso possibile, negli anni, numerosi scandali legati a finanziamenti occulti ai partiti.

In Spagna, per esempio il finanziamento è, per la maggior parte pubblico, proporzionale al risultato delle ultime legislative. Si tratta di circa 140 milioni di Euro ogni anno per il funzionamento ordinario dei partiti , più rimborsi elettorali in funzione dei seggi, del numero di votanti e di iscritti.

Completamente opposto il caso inglese in cui le sovvenzioni sono essenzialmente private. Gli aiuti dello Stato si concretizzano in spazi televisivi regolamentati, agevolazioni postali e la messa a disposizione di luoghi per fare riunioni. I contributi privati devono essere divulgati solo se superiori alle 5.000 sterline (circa 6.000 Euro),mentre esistono severi tetti di spesa alle campagne elettorali.

Stranamente opaco il sistema svedese che non obbliga i partiti a rendicontare l’origine dei loro fondi, tuttavia i partiti pubblicano autonomamente questi dati.

In Germania invece non esistono limiti al finanziamento privato che anzi è particolarmente invogliato dalla detassazione di tali somme. I contributi superiori a 50.000 Euro sono pubblicati dal sito del parlamento mentre quelli inferiori non subiscono alcun controllo. Nonostante lo scandalo dei fondi neri alla CDU di Helmut Kohl, il sistema non pare capace di garantire la necessaria trasparenza.

E in Italia? Se per una volta il nostro Paese può dirsi in buona compagnia con gli altri partner europei, bisogna riconoscere che da noi, al solito, le cose sono ancora più complicate.

Intanto non dovrebbe esistere, stante il risultato di un referendum abrogativo, alcun finanziamento pubblico ai partiti. E infatti dal 1994 si chiama rimborso elettorale. Ora, il termine rimborso, implicherebbe che uno spende dei soldi e questi vengono restituiti. Non è così però che funziona; infatti ogni formazione politica che ottenga l’1% (era il 4% fino al 2002) dei voti validi alle elezioni partecipa alla ripartizione dei fondi che sono calcolati non sul numero dei votanti ma degli aventi diritto. Tanto per dare due cifre l’impegno di spesa per la penultima legislatura è di 468.853.675 Euro.

Accanto a questo quasi nulli i controlli ai fondi privati. Esiste una modesta detassazione per i contributi superiori ai 500 Euro ma nessun obbligo stringente sui bilanci dei partiti. Discorso a parte la sovvenzione pubblica alla stampa di partito che, in realtà, più che sovvenzionare i partiti tiene in vita molti dei quotidiani in edicola.

Infine pochissimi sanno che è possibile donare il 4 per mille del proprio IRPEF anche ai partiti politici.

Il fatto che nessun partito abbia mai fatto una campagna di comunicazione su questo tema dimostra come ci sia, all’interno dei partiti stessi, la consapevolezza di non essere in sintonia col Paese su questo tema.

Com’è profondo il mare

Scrivere dei libri degli amici non è mai semplice. Se non ti piace il libro ti dispiace ferire l’amico, se ti piace hai paura che il giudizio sulla persona renda meno credibile il giudizio sull’opera. Tuttavia quando un amico scrive un libro come La memoria dei Pesci, diventa difficile non parlarne.

Pippo Russo arriva al suo terzo romanzo e lo fa spiazzandoci un altra volta. Tre libri, tre storie completamente diverse e tre stili di scrittura sempre nuovi.

Questa volta siamo in un futuro talmente prossimo da essere presente, il 2011, e in una Firenze talmente vera da farti male, con le sue contraddizioni, i suoi luoghi estranei alle guide turistiche. I suoi colori e i suoi sapori. In questa città solare ma cupa al tempo stesso si muove Brando, un antieroe la cui vita all’apparenza di successo, deraglia sia sentimentalmente che professionalmente. E deraglia a partire dall’intreccio di reale e virtuale in cui Brando, come tutti noi, è immerso. Così tra second life, costruzione di biografie digitali (l’invenzione e il lavoro di Brando), donne amate per l’immagine che danno di se sull’iphone, Brando è chiamato dal mondo virtuale a fare i conti con se stesso e la sua memoria.

Un’ educazione sentimentale di un adulto dei nostri giorni. Un uomo, un maschio, verso cui l’autore non è affatto indulgente e che risalta, in negativo, per contrasto alle donne splendide che ha intorno.

Una scrittura decisa, spigolosa come il personaggio, sottolinea un libro che ci dice molto di come siamo e cosa stiamo diventando.

Pippo Russo, La Memoria dei Pesci, Cult Editore, 2010.

Ok panic!

Polillo è un piccolo editore. Un piccolo editore coraggioso. In questi anni ha lanciato una collana che si chiama i bassotti e che raccoglie una selezione di gialli inglesi e americani degli anni trenta e quaranta. Quella che viene, a ragione, definita l’epoca d’oro del thriller.

Polillo è andato a scovare un romanzo inedito (qui in Italia) scritto da Hellen McCloy nel 1944. Una storia di spie, codici segreti e panico. Panico che è appunto il titolo italiano del romanzo, traduzione fedele dell’originale Panic inglese,  e devo ammettere che il titolo è azzeccato.

Raramente un libro mi ha tenuto così in tensione soprattutto nelle descrizioni delle notti insonni della protagonista in uno sperduto casolare perso nei boschi senza elettricità.

Un romanzo di genere ma colto e intelligente, così come la sua autrice, versatile giornalista americana con un profondo retroterra culturale europeo.

Una scrittura cinematografica che ti trascina all’interno della storia e te la mostra in tutti i dettagli. Suspence compresa.

Per notti insonni.

Hellen McCloy, Panico, Polillo Editore.