Quanti grandi dimenticati

Da Nuovo Corriere di Firenze del 3 dicembre 2010

Come non essere d’accordo nell’intitolare a Mario Monicelli una strada di Firenze? Una città che pochi anni fa l’ha voluto tra i suoi cittadini onorari.

Inutile dire che non ci sono obiezioni a intitolare una strada a chi ha saputo descrivere magnificamente gli italiani e i fiorentini con la sua opera. Magari una strada o uno slargo vicino ai luoghi da lui inseriti in Amici Miei: La Nazione, Piazza Santa Croce con la cattedrale mai inquadrata e un (falso) distributore messo quasi a spregio, o piazza dell’Isolotto con il seminterrato del Mascetti. Oppure piazza del Carmine, anche essa cinematograficamente mutilata della chiesa, in Cari Fottutissimi amici.

Ma se Monicelli merita, ben altri e illustri personaggi attendono un posto nella topografia fiorentina. A partire da Enrico Berlinguer, amatissimo segretario del PCI del compromesso storico e dell’austerità che non trova ancora un tratto di città degno della sua persona. Lui che quando arrivava a Firenze riusciva a riempire all’inverosimile Piazza della Signoria e scaldare i cuori di tanti compagni. Probabilmente buona parte di quelli che governano e hanno governato questa città negli ultimi anni e che hanno saputo trovare posto (meritoriamente s’intende) a Giovanni Spadolini, all’interno del plesso universitario di Novoli o a Fabrizio De Andrè dinnanzi al Sashall.

Nessuna strada (e se non ci sbagliamo nemmeno nessuna proposta) per lo storico Giorgio Spini, primo ufficiale alleato ad entrare nella Firenze liberata e “co-salvatore” di molti dei tesori degli Uffizi dalle brame dei tedeschi in fuga. A lui ha deciso di intitolare una strada il consiglio comunale di Fiesole, all’unanimità. Speriamo che anche Firenze la segua.

Infine come dimenticare la polemica sulla strada da intitolare a Oriana Fallaci? Una vicenda che ha perso ogni valore circa la qualità della giornalista ed è finita nell’ennesima e banale battaglia fra destra e sinistra. A lei che banale di certo non era non avrebbe fatto piacere, così come non avrebbe apprezzato l’averla messa in contrapposizione con un altro grande del giornalismo Tiziano Terzani che invece la sua via a Novoli ce l’ha. Forse, e lo dico facendo anche autocritica, sarebbe ora che si rendesse omaggio alla Fallaci, a tutta la vita di questa grande donna, superando idioti steccati. Magari in una strada accanto a Via Monicelli.

Dal Porcellum al Cignalum

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 dicembre 2010.

In tutto il discutere di crisi e scenari futuri del governo, della maggioranza e delle opposizioni non manca mai il tema della riforma elettorale. Fateci caso il tema del baratro economico a cui è appeso il Paese è usato più per schermo tattico a cui appoggiare governi tecnici, per rigettare elezioni anticipate o per rinsaldare il Berlusconi quater. Ma appena si parla di riforma elettorale tutti si infiammano, tutti i partiti hanno la loro proposta. Il senatore Ceccanti (PD) ha persino presentato più proposte di legge di modifica con quasi tutti i sistemi elettorali in vigore sul globoterracqueo.

Complice la più alta (e nefasta) densità di politologi in servizio permanente effettivo del mondo la nostra politica è capace di discutere su ogni tipo di sistema elettorale (francese, tedesco, americano, buoni ultimi l’australiano e l’ungherese), di applicare un sistema di elezione diverso per ogni livello amministrativo e di governo e di aver cambiato più leggi elettorali negli ultimi anni che cappellini la regina Elisabetta nei giorni di Ascot.

Un tema quello della tecnicalità dei sistemi elettorali che tocca anche il punto del ritorno della preferenza. Invocata oggi come lo strumento principe per avvicinare il popolo all’eletto con la stessa ferocia con cui era stata additata a strumento di corruzione e malcostume negli anni in cui, spesso i soliti che oggi ne chiedono il ritorno, ne chiedevano la limitazione e poi l’abolizione.  Insomma ancora una volta si confonde il sintomo con la malattia, e si addita a una tecnicalità la responsabilità di un problema politico.

E’ forse utile ricordare un po’ la stagione dell’abolizione della preferenza per approcciarci a questa nuova stagione del suo possibile ritorno. Nei primi anni ’90 alla progressiva perdita di peso dei partiti, al loro crollo di credibilità e alla fine delle ideologie, la classe politica subì da un lato l’offensiva giudiziaria e dall’altro un movimento referendario che chiedeva l’abolizione della preferenza plurima; per alcuni, i Radicali e Segni, al fine di spostare il sistema verso un maggioritario puro, per altri (tra questi l’allora PDS) nella speranza di conquistare e guidare il cambiamento in atto.  La scelta di abolire la preferenza multipla fu difesa come modo per limitare gli aspetti clientelari e di infiltrazioni malavitose nell’agone elettorale.

Ciò però, insieme all’inserimento di forme di elezione diretta per sindaci e presidenti di Provincia, unito alla debolezza di partiti sempre meno aderenti alla realtà sociale del Paese portò, anche con la preferenza unica, a una progressiva personalizzazione e persino familiarizzazione della rappresentanza, creando legami tra l’eletto e il territorio che non scongiuravano affatto pecche di moralità nella classe politica, oltre ad indebolire i partiti ogni giorno di più.

Vi era dunque un terreno fertile per Berlusconi e il berlusconismo anche nella società politica italiana. E’ forse utile ricordarlo oggi che se ne profila la fine.

Negli anni successivi quel che restava dei partiti politici ha continuato a cercare di mettere argine alla propria decadenza immaginando nuove soluzioni elettorali o, per dirla con il vecchio Marx, ha badato alle sovrastrutture piuttosto che alle strutture della rappresentanza e del conflitto politico e sociale.

In questo la nostra regione per prima ha affrontato il tema del superamento delle preferenze pur mantenendo un sistema proporzionale. Anche qui molti in buonafede negli allora DS giustificavano questa scelta come barriera al personalismo e ai costi delle campagne elettorali (dunque con una funzione morale) e come modalità che avrebbe riportato al centro i partiti politici e avrebbe ridato primato alla politica collettiva.

Accanto a questo è entrato prepotentemente sulla scena il tema delle primarie, almeno nel versante del centrosinistra. Anche qui, aldilà delle competizioni squilibrate come quella per l’elezione di Prodi, le primarie hanno verificato l’impotenza dei partiti a determinare gli esiti della competizione. Segno che il tema, ancora una volta, non fosse tecnico ma politico.

Dunque oggi visto che uno dei possibili scenari nazionali è quello della correzione del porcellum attraverso la reintroduzione della preferenza o che tale direzione pare essere quella con più consenso in regione per la riforma del cignalum o, infine, che nel PD si parla apertamente di scaricare le primarie occorre tenere presente che non saranno scelte tecniche a ridare forza ai partiti e che non si risolveranno così i problemi di lontananza tra cittadini ed eletti.

Tanto perché, come tanti personaggi di Altan, non si finisca per guardare il dito dimenticandosi dell’ombrello infilato proprio lì.

E il centrosinistra che fine ha fatto?

Da il Nuovo Corriere di Firenze del 25 novembre 2010

Caro Direttore,

oggi aprendo il tuo giornale come al solito, mi imbatto in prima pagina nel “manifesto” a doppia firma di Andrea Barducci e Renzo Crescioli, titolato impegnativamente Terza Via a sinistra. Vista l’autorevolezza delle firme, il titolo assai attraente per un “blairiano” come il sottoscritto e la posizione a me cara in cui lo hai pubblicato ho iniziato subito a leggerlo.

L”articoletto si chiude con due parole molto suggestive ed evocative: libertà ed eguaglianza. L’ultima peraltro proprio il sottoscritto l’aveva adoperata sul tuo giornale chiedendo ai giovani rottamatori di inserirla nella loro discussione leopoldina. E dunque mi viene da interloquire coi due estensori del documento. Intanto mi chiedo, e chiedo loro, perché iniziare un manifesto in difesa? Dite che non è tempo di rottamare ma di costruire e lo fate ponendovi subito altri rispetto a un movimento che, almeno uno dei due, ha legittimato intervenendo e portando lì i propri argomenti. Perché cercare legittimazione a partire da un iniziativa, un movimento, che si considera non pienamente proprio e riconoscibile? E perché porlo come minaccia all’alienazione della politica da parte delle giovani generazioni quando proprio queste ultime erano maggiormente protagoniste dell’iniziativa della Leopolda? Forse più utile, sia detto senza polemica ma con spirito costruttivo come raccomandato dai due estensori, sarebbe interrogarsi sul modello attrattivo messo in campo dai rottamatori e chiedersi come estenderlo a quelli che alla Leopolda non c’erano e a quei tanti giovani che non sono raggiunti da quei messaggi o da quegli strumenti tecnologici. Dunque interrogarsi sui mezzi è necessario visto che questi prefigurano sempre i fini e serve a poco presumere di avere le idee migliori se queste non valicano i confini, certo familiari, delle nostre case del popolo.

Forse sarebbe utile parlare di comunicazione o ancora meglio farla, e metterla al servizio di quelle parole così solenni e impegnative che chiudono l’articolo.

Infine un altra notazione, più generale che lascio come interrogativo ai due estensori e forse al PD tutto. Dicono, Barducci e Crescioli, che servono parole e temi di sinistra, in analogia a quanto il segretario del PD Bersani elencava pochi giorni fa alla trasmissione di Fazio e Saviano. Figurarsi se il sottoscritto non è d’accordo. Ma se tale è il bisogno di parte così autorevole di tanti dirigenti del PD e non solo, non sarebbe forse necessaria anche una riflessione su un partito che era nato per essere qualcosa di più e di diverso dalla sola sinistra? Se è finito, non avvertito, il bisogno di centrosinistra e si ritiene necessario, certo aldilà di una semplice distinzione correntizia, riproporre la sola sinistra come identità e cammino non è forse arrivato il momento di un giudizio su un partito che molti finiscono per non sentire proprio, impalpabile e indefinito per i propri dirigenti, figurarsi per iscritti ed elettori. Seguire una strada di lento consumo, di ritorno al passato in contenitori che si dicono nuovi è un espediente che rassicura ma non convince e non attrae.

Ai costruttori dunque un in bocca al lupo sincero confidando che se anche non terza possano aiutare a trovare una via all’eguaglianza e alla libertà.

Sul vagone dei rottamatori

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 novembre 2010 p.1

E alla fine il treno dei rottamatori è arrivato alla Stazione Leopolda, o per meglio dire da lì è partito. Sì perché tutto nella tre giorni fiorentina, dall’assenza dichiarata di programma alla non selezione di temi e interventi, era all’insegna dell’avvio, del movimento anche, forse, fine a sé stesso.

Una tre giorni iniziata senza relazioni introduttive ma conclusa da Matteo Renzi con un discorso che ricordava più un’introduzione che delle vere e proprie conclusioni. Grandi visioni, immagini, un repertorio di brillanti battute, temi evocati, sfiorati mai morsi per davvero, lasciati lì pronti per il prossimo appuntamento. Già perché scegliere oggi sarebbe equivalso a selezionare. Selezionare temi e proposte e anche qualcuno dei presenti, sopra e sotto il palco.

Evidentemente per Renzi non è ancora il momento, gli interessa più unire e consolidare il movimento e lo spirito di Firenze insieme alla propria indiscussa e inattaccabile leadership. Una leadership che Civati non può contendere, né oggi né mai, e infatti il consigliere regionale lombardo appare in tutta questa vicenda come uno dei personaggi dei film horror americani, uno di quelli che sai fin dalla prima inquadratura che non arriveranno in fondo al film.

Quello che ti colpisce della Leopolda è lo spirito. L’entusiasmo e la voglia di esserci e partecipare. E’ una bella sensazione, soprattutto nel vedere che è diffusa in ogni ordine e grado. Quello che colpisce è anche, per dirla con le parole di un caro amico, che ti aspetteresti una gran voglia di dare calci nel sedere e scopri una gran voglia di stringere le mani.

Un modo ben strano di iniziare una rivoluzione ma forse una garanzia per provare a finirla, visto come sono andate quelle con la rabbia addosso.

Non c’è rabbia nemmeno nel chiedere (chiedere e non esigere peraltro) il ricambio e la rottamazione nei molti interventi sul tema, l’unico forse realmente condiviso e digerito di qua e di la dal palco.

Per ora l’unico vero rottamato a Firenze è il veltronismo, con Renzi che si candida a occupare lo spazio dell’immaginario, del sogno. La prova nell’intervento di Giovanna Melandri a cui i due in consolle non avrebbero dovuto dare il gong alla fine dei 5 minuti ma tre canti del gallo.

Eppure tra Renzi e Veltroni qualche differenza corre. Non solo d’età. Di Veltroni possono non piacere tante cose (e a me non piacciono) ma quel che diceva ha provato a fare, rendendo azioni le parole spese, anche se discutibili e non sempre felici. A Roma si è inventato il festival del cinema, a Firenze abbiamo avuto il festival del gelato. Ha posto il tema del rinnovamento e ha portato in parlamento (certo con risultati non tutti felici) scrittori, ricercatori e imprenditori, a Firenze si chiama in Comune un dirigente neo-pensionato e non certo la precaria magari in attesa del posto della Finocchiaro.

Sul piano locale Renzi, consolida e certifica la propria egemonia nei confronti di amministratori e partito se il cuore degli interventi del segretario regionale Manciulli e del Presidente della Provincia Barducci sono, per il primo, “il rinnovamento lo stiamo facendo” e, per il secondo, che non serve il limite di tre mandati ma due sono addirittura troppi. Segno che il tema dei rottamatori non solo era giusto ma persino da perseguire e anticipare.

Ma anche a Roma, Renzi c’è e la tre giorni leopoldina, lo fa assumere a soggetto imprescindibile in quelle che saranno le dinamiche del PD del prossimo futuro, anche se la mossa di Gianfranco Fini di accelerare la fine del Berlusconismo rischia di giocare un brutto scherzo ai rottamatori, lasciando a Bersani e al gruppo dirigente nazionale l’onere delle scelte e delle decisioni e che soprattutto in caso di elezioni anticipate vedrebbero inevitabilmente il popolo democratico stringersi al proprio partito contro il centrodestra, diminuendo lo spazio per il dissenso.

Ma il treno è appena partito e crediamo che chi vi è salito e il suo conducente abbiano tutte le risorse, di capacità e di tempo, per giocare molte partite nel futuro.

Alla rivoluzione senza programmi

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 novembre 2010 p.1

Sia detto qui in cima a sorta di premessa: Evviva Renzi e Civati e il loro allegro rottamare. Evviva la tre giorni alla Leopolda.

Già perchè, aldilà delle critiche che anche qui verranno fatte, l’evento che si apre stasera qui a Firenze ha meriti incancellabili. Intanto pone un problema vero, quello di un gruppo dirigente del PD che ha passato indenne, senza che finora nessuno ne chiedesse conto, più di 10 anni di vita politica italiana, vincendo anche ma perdendo molto di più. Non innovando la società italiana quanto avrebbe avuto necessità e quanto, almeno con l’Ulivo, avevano promesso. Non portando a compimento un’unione ideale, politica e partitica dei riformisti italiani, come promesso col PD, ma riproponendo le antiche liti e beghe in un contenitore nuovo dalla grafica bruttina e dall’appeal modesto.

Eppure questi che oggi i rottamatori vogliono togliere dalla prima fila hanno avuto occasioni, contesto e capacità: l’Ulivo come stagione politica, la cosiddetta terza via come orizzonte ideale e la vittoria elettorale del 96 per trasformare quella idea in azione di governo.

Quella stagione fu l’ultima stagione di proposta e innovazione politica per il centro sinistra italiano, di obiettivi (magari non sogni ma raramente la politica del governo è sogno), di internazionalità, di superamento vero e non pubblicitario di steccati ideologici (dai progressisti all’ulivo c’è più rottura di tabù che in tre anni di PD). Da allora è stato un susseguirsi di riti, di fughe in avanti seguite da imponenti marce indietro, di leader consumati al ritmo di un merenghe, di vecchi programmi spacciati per nuovi, di GAD, FED e Unione, vocazioni maggioritarie e ritorni al Partito con la p almeno maiuscoletta. Una sorta di commedia dell’arte che mette in scena il solito canovaccio con le solite maschere.

E a quelle maschere si rivolge il dinamico sindaco di Firenze e quelle maschere svela nella loro immutata fisionomia, nel loro apparire sempre uguali, bidimensionali. E quelle maschere molto si arrabbiano. Lo giudicano irriverente, maleducato, sgarbato. E che diamine vi vuol seppellire, ci mancherebbe che fosse educato o garbato. Che poi lo foste voi quando spediste il vecchio Natta e tutto il rimanente gruppo dirigente comunista nemmeno alla Fondazione Gramsci ma direttamente in pensione? Le cronache dell’epoca ci dicono di no. E non poteva essere altrimenti. Certo vale per gli ex Pci ma che dire degli ex DC? Loro magari avrebbero potuto essere anche garbati ma non lo sapremo mai, visto che del ricambio (chiamiamolo così) nel loro partito se ne occupò la magistratura e non certo loro e da questo vizio d’origine (l’aver acquisito il comando senza l’aver combattuto) forse deriva quella loro innata titubanza, lo scarso coraggio dimostrato. Quel coraggio che avrebbe dovuto trovare in loro, i Franceschini i Letta, i veri esclamatori del rinnovamento nei confronti dei D’Alema, dei Veltroni e dei Bersani.

E invece ci son voluti Renzi e Civati, coi rischi che questi comportano, come giustamente si nota in questo dibattito sui rottamatori. La mancanza d’esperienza, la mancanza di contenuti. Come negarlo? Eppure se guardiamo da chi vengono queste critiche, seppur giuste, ci appaiono tardive, interessate. Come dare credito ai Rondolino, ai Velardi, o ai Morassut? Intelligenti spin doctor dei rottamandi leader che paiono più giustificare sé stessi e il loro pensiero che muovere una riflessione.

Ed allora tutto bene e trovata in Prossima Fermata Italia la soluzione ai problemi del PD? Magari, ma temiamo non sia così. Intanto l’assenza, dichiarata e voluta, di contenuti rischia di far tendere al minimo l’accordo che a Firenze si potrà trovare. Andare alla Rivoluzione senza programmi, come rivendica lo stesso Renzi su il Post, è infatti sicuramente d’effetto, molto moderno (o postmoderno) ma preannuncia, se le idee non sono semplicemente nascoste ma effettivamente assenti, un accordo sui mezzi che si trasformano così in fini e un minimo comun denominatore sui contenuti che è uguale (e contrario) alle mille pagine del programma dell’Unione.

In questo senso un po’ ci attraggono le trovate sceniche proposte (la consolle del dj, i video, la musica…), un po’ ci spaventano perchè quell’armamentario di presidenze, ragionamenti, interventi scritti, erano certo liturgia ma anche il modo che, finora, si era trovato per ragionare e discutere a un livello superiore di quello della chiacchera da bar.

Guardiamo a Firenze con curiosità lo ammettiamo, ma anche con in mente le parole di Verazzoli sulla rivista di quel giovane ottantenne di Emanuele Macaluso: “contrariamente a quanto avvenuto sia tra i laburisti che tra i socialdemocratici, l’attacco sferrato da Renzi ai massimi dirigenti del Partito Democratico si è basato unicamente sulla necessità di una loro sostituzione; senza altre spiegazioni”.

Il che non significa che a Renzi, o a Civati, manchino idee o programmi. Il punto è quanto queste idee siano masticate, digerite e condivise tra di loro e tra quelli a cui si rivolgono.

Di sicuro è condiviso, largamente, il bisogno da loro posto, quello di svecchiare il PD; da questa tre giorni forse capiremo non tanto se avranno la forza per rottamare chi sta di fronte a loro ma se, una volta conquistato il ponte di comando, avranno una minima idea di dove mandare la nave.

La parola che manca

Dal Nuovo Corriere di Firenze di oggi.

Alcuni giorni fa Matteo Renzi, promuovendo e preparando la tre giorni della Leopolda ha chiamato i suoi amici di Facebook a indicare quale parola avrebbero voluto trovare a quell’appuntamento.

Tante le risposte, la più frequente come notava anche Marzio Fatucchi sul Corriere Fiorentino era onestà. In buona posizione meritocrazia e futuro.

Assente, completamente assente, la parola Eguaglianza. Una delle triadi del motto rivoluzionario francese, pilastro della sinistra mondiale nel XX secolo. Una parola che ha mosso masse, dato speranza, battezzato anche tragedie ma declinato pure un futuro possibile per quell’umanità che si voleva mossa verso un avvenire migliore.

Una parola che ha molto a che fare, se declinata in eguaglianza delle opportunità come seppe dire e fare Tony Blair e il suo New Labour, con il tema della cosiddetta rottamazione. Perchè non c’è rottamazione possibile se gli ultimi resteranno ultimi, se non avranno le possibilità di dimostrare il loro valore e la loro bravura.

Ed è strano che questo tema sia così assente proprio qui in Italia, un Paese in cui la mobilità sociale è tra le più basse del mondo (non solo occidentale), in cui persistono corporazioni che assomigliano più a caste che a categorie, in cui il destino dei figli è segnato troppo spesso dal mestiere dei padri.

Un paese in cui lo studio, le professioni, il lavoro ed anche la politica, sono quadri immobili e inaccessibili. Non c’è ricambio (generazionale e non ) se non c’è immissione di forze nuove, linfa nuova, voglia nuova.

Non è un caso se il sistema formativo degli Stati Uniti, principalmente privato e dove peraltro si applica da secoli la cooptazione come metodo di selezione, applica con micidiale efficienza il sistema delle borse di studio per i meno fortunati ma più talentuosi, fino a farli diventare persino Presidenti.

Ecco perchè alla Leopolda e in tutti i posti in cui la sinistra prova a ricreare sé stessa, mi piacerebbe che questa parola antica eppure così moderna risuonasse come faro di futuro.

Perchè Renzi ha già vinto il congresso PD

Dal Nuovo Corriere di Firenze di oggi.

E’ probabile che alla fine i candidati appoggiati da Renzi prevarranno, ma anche se così non fosse il sindaco, il congresso del PD lo ha già vinto. Per (molti) suoi meriti e per (molti) demeriti dei suoi avversari.

Intanto Renzi in questo anno e mezzo ha fatto il sindaco e mai il segretario di partito, a differenza del suo predecessore. Non ha messo bocca nelle vicende del PD fiorentino e poco anche in quelle del gruppo consiliare, ha conservato il suo ottimo rapporto coi cittadini, ha mantenuto consenso personale e ha occupato la scena della politica amministrando e facendo operazioni di comunicazione e di costruzione del consenso perfette come i 100 luoghi. Non occupando la scena del partito è riuscito ad occuparne il campo, a surrogarne i compiti e ad essere oggi lui l’unico soggetto politico.

Accanto a ciò ha ridimensionato o ammansito i suoi vecchi oppositori ed adesso lascia loro la (possibile) partita per le candidature alle prossime politiche. Un potere non piccolo direte? Una partita che Renzi, però, non ha bisogno di giocare. Il suo potere all’interno del PD non passa da qui. La partita di Renzi è ormai una partita romana, ha saputo diventare un leader nazionale e i suoi interlocutori sono Veltroni, D’Alema e Bersani non certo i loro luogotenenti locali.

Infine ha, anche qui per molti demeriti altrui, pressoché annullato la componente pistelliana approfittando della lontananza di Lapo, della frammentazione dei suoi simpatizzanti e della mancanza di leader possibili per capacità e autorevolezza riconosciuta. Risultato? La scomparsa di una componente organizzata che, sulla carta, poteva essere la vera “opposizione” interna.

Se questi i meriti di Renzi, quali i demeriti dei suoi avversari? Uno su tutti, lo sguardo rivolto al passato. Vale per Cioni e i cioniani innanzitutto. In una città che ha tripudiato Renzi in quanto fine del “regime” Domenici, come può apparire credibile l’ “opposizione” di Cioni e di Albini? Per quanto possano essere in buonafede i due rappresentano un sistema di potere che Firenze aveva finito per detestare e che nessuno vorrebbe oggi indietro. Ma lo sguardo al passato è lo stesso che caratterizza il competitor istituzionale Barducci. Per i metodi innanzitutto: caminetti nelle stanze di palazzo, accordi con sindaci e “potentati” locali. Anche i contenuti però non mancano: Barducci è stato per cinque anni il vice di Renzi, senza nulla da ridire né sui modi né sui contenuti.

Analogo discorso vale per i sindaci della Piana, prima hanno atteso la fine di Domenici confidando nella perdita di potere di Firenze per aumentare quello loro di veto. Quando poi si sono trovati davanti il dinamico Matteo non hanno fatto altro che esercitare quel veto. Posizione che forse renderà sul piano amministrativo ma di certo non costruisce egemonia.

Infine il cosiddetto “partito dei circoli”, che pensa di rispondere alla comunicazione in tempo reale di Renzi con documenti della base, assemblee e ritorno alle sezioni come luogo di mediazione degli interessi. Un po’ come dire che una volta inaugurata la TAV debba essere percorsa da locomotive a vapore.

Ecco perchè Renzi ha già vinto, perchè la sua è al momento l’unica chiave di lettura della città contemporanea, e quindi, qualunque sia il risultato dei congressi, lui resterà, se non l’unico e possibile, almeno il prevalente interlocutore dei cittadini nei confronti della politica sul versante PD.

Dunque non esiste alcuna possibilità per chi ha una visione politica diversa, non omogenea a Renzi? No qualcosa potrebbe esserci. Intanto Renzi non è il renzismo, anzi il renzismo non esiste. Renzi è ditta individuale, il suo non è un sistema di potere plurimo. Non che non esista un inner circle renziano di fidati e validi collaboratori, ma questi sono più “tecnici” che “politici”.

Un uomo solo, per quanto bravo e per quanto possa lavorare come Stakanov, resta un uomo solo, soprattutto di fronte ai problemi. Costruire su questo opzioni, non in contrasto, ma in ausilio alla politica del sindaco è uno spazio politico che si potrà aprire. Servono però competenze e idee da offrire, poco spazio per le ambizioni personali e un orizzonte che al momento può apparire lungo.

Altra strada da percorrere è quella di essere più contemporanei di Renzi. Di “sfidarlo” sul suo terreno, essendo capaci di parlare la lingua (avendo naturalmente qualcosa da dire) con la quale Renzi si rivolge ai cittadini. Occupare il suo stesso spazio politico. Non è un problema di anagrafe ma di freschezza mentale. Di riferimenti culturali e politici.

Quest’ultima è una strada ancora più lunga, significa rompere con rassicuranti abitudini e posizioni di rendita, di rimettersi a studiare e di fare sfoggio di umiltà. Di imparare dai propri errori e dalle capacità dell’avversario.

Alla fine però resta l’unico modo per costruirsi come alternativa o come interlocutore vero. Per rappresentare qualcosa di più di sé stessi o al massimo dei propri (pochi) iscritti.

Scava Pietro scava

Non ho mai conosciuto davvero Pietro Mirabelli, il minatore morto ieri in Svizzera e che fu responsabile della sicurezza nei cantieri della TAV a Barberino. Ho avuto la fortuna di parlare con lui una sola volta. Ho però conosciuto Pietro dalle pagine di Simona Baldanzi (Figlia di una vestaglia blu, Fazie Editore) e dalle parole della riduzione teatrale che di quel libro ha fatto il mio amico Andrea Bruno Savelli. Il “mio” Pietro aveva la faccia e la pronuncia di Fulvio Cauteruccio che lo interpretava, ma pur sempre “sue” erano le parole che pronunciava. Alcune in particolare mi colpiscono oggi, quelle in cui Pietro raccontava di come lui e la sua gente, quasi un intero paese giù in Calabria, avesse scavato gallerie in tutto il mondo. E infatti Pietro è andato a morire in Svizzera. Parole che suonano uguali a quelle del minatore raccontato da David Van de Sfroos in Pica!, pezzo dedicato proprio a questi lavoratori dimenticati e oscuri come le gallerie che scavano.E allora capisci che non c’è sud e non c’è nord quando devi faticare e vivere lontano da casa, senza sicurezza sia fisica, che economica. Estraneo e lontano. C’è solo la speranza della lotta per migliorare la tua condizione, per farti conoscere e per farti sentire accettato e apprezzato.

Pietro aveva due sogni, quello di una statua dedicata ai suoi compagni morti sul lavoro da erigere nel suo Paese e quello che quelle morti si arrestassero. Il primo sogno lo ha avverato, il secondo, purtroppo, no. E oggi quella statua da lui voluta è diventata un monumento anche a lui.

Una moschea a Firenze oggi, mica nel 1523

L’autore del progetto della Moschea di Firenze apparso nei giorni scorsi sui quotidiani, l’architetto David Napolitano, affida anche a Facebook la difesa del suo progetto criticato quasi unanimemente da esperti, colleghi e cittadini comuni. Una critica che faccio mia pensando che quanto visto sia una pessima scopiazzatura di edifici fiorentinti rinascimentali pensata più con l’intento di “mimetizzare” le differenze che altro. Un progetto brutto, senza appello, sia sul piano estetico che su quello del messaggio che vuole inviare, almeno per chi scrive.

Ma il suo progettista non pago di aver messo d’accordo praticamente tutti (favorevoli e contrari alla moschea) sul no a quel copia incolla in salsa finto rinascimentale, prova a difendere il suo lavoro con quattro pagine fitte di citazioni dal Vitruvio Pollone, ai pitagorici, passando per il Corano, Salomone e (come poteva mancare?) Leon Battista Alberti.

Sul suo progetto poche a mio avviso inutili righe finali in cui afferma che il suo progetto si pone nella pienezza della “dottrina” e che “la finalità [dell’]architettura classica non è la novità, ma l’armonia” e poi, commentando la nota, si definisce colui il quale è “capace di riprendere il discorso interrotto a Firenze nel 1523”.

Ora, intanto se quel discorso da circa cinque secoli si è interrotto e l’architettura è andata avanti qualche motivo ci sarà, ma volendo anche riprenderlo per buono, ciò non significa che la ripresa significhi riproposizione tale e quale di quanto già visto e già fatto. L’architetttura oltre che scienza é pure sfida, tecnica e simbolica, è lettura del presente e prefigurazione del futuro. Capacità di sopravvivere alle mode e al momento. La forma di arte più immediata e di consumo generale. Insomma tutta l’architettura è stata contemporanea, anche quella classica e proporre non la rivisitazione, l’omaggio al classico ma la sua palese e manifesta riproposizione è sintomo di vecchiaia intellettuale e del fatto che la conoscenza della dottrina è condizione necessaria per superare l’esame di storia dell’architettura non per progettare, oggi, un edificio così simbolicamente pregnante.

Infine il giudizio sul valore simbolico dell’opera. Una moschea in occidente e di questi tempi è uno degli edifici di più difficile concezione. Deve evitare di essere un simbolo di sfida a un occidente smarrito e impaurito di fronte all’islam ma, a mio parere, deve anche evitare il rischio opposto, quello di essere un’ipocrita e rassicurante copia di quanto a noi noto e conosciuto. Entrambe le scelte finiscono per rendere quel luogo ostile, altro ed estraneo alla città in cui si dovrà collocare. Quale soluzione? Forse quello di ibridarsi, di mescolare concezioni e tecniche. Cercando elementi di comunione (architettonica, simbolica e religiosa) e elementi di rottura, dosando bene entrambi. Mi viene in mente la facciata dell’Institut du Monde Arabe progettato da Jean Nouvel a Parigi, dove centinaia di diaframmi meccanici compongono un disegno di arabeschi.

Insomma gioverebbe, allo sterile e immobile dibattito moschea sì, moschea no; un progetto all’altezza del presente e della sfida posta dalla costruzione di una Moschea a Firenze oggi e non nel 1523.

Il concetto del favore

L’aggressione a Bonanni avvenuta alla festa nazionale del PD di Torino è certamente un fatto grave, esecrabile, da non sottovalutare.

Tuttavia la lettura maggioritaria dei commenti all’episodio da’ un interpretazione circa “l’utilità” del gesto operato dagli esponenti dei centri sociali torinesi.  Soprattutto a sinistra si è affermato che l’attacco di Torino avrebbe, di fatto, favorito la destra e indebolito la sinistra e i lavoratori. Un modo di vedere le cose che ricorda più un riflesso pavloviano che un vero e proprio ragionamento. Infatti questa argomentazione, per certi versi giusta si badi bene, presuppone che i soggetti rappresentati nell’aggressione giochino tutti la stessa partita. In realtà non è così, gli estremisti che hanno aggredito Bonanni, non giocano secondo le categorie Pd/PdL contestano quel sistema non una sua parte. Dunque il gioco del cui prodest non può essere a loro imputato, anzi il fatto che la loro azione non giovi alla sinistra istituzionale finisce per essere un corollario positivo all’azione anche se magari non cercato direttamente. Rivolgersi a loro con funzione pedagogica non ha effetto alcuno, perchè il ragionamento dell’estremismo è estraneo al sistema di ragionamento che adotta la sinistra istituzionale. Rischia invece di suonare indulgente nei loro confronti (come l’intervista al padre della ragazza che la dipinge quasi come una boyscout dei centri sociali), al pari dello sciagurato “compagni che sbagliano” di tremenda memoria. Serve, oltre alla condanna del gesto, capire che la contrapposizione, il conflitto, riguardano il sistema, la politica, e non lo schieramento, la parte politica; che inpedire ulteriori salti di qualità necessita, oltre che di servizi d’ordine, di risposte politiche ai disagi che quell’estremismo nutrono e/o usano come alibi.

Sbagliare le analisi per fatica e consuetudine è un buon modo di peggiorare le cose, cercare di fermarsi a capire un salutare esercizio e spesso l’unico modo di cambiare le cose.