La Befana vien di notte

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 6 gennaio 2011

L’epifania tutte le feste se le porta via, insieme anche a un bel numero di buoni propositi per l’anno nuovo svaniti come gli aghi dell’abete appena dismesso.

La dieta solennemente giurata il giorno di Natale allentando la pressione sulla pancia sganciando il bottone dei pantaloni appena dopo gli antipasti, si è smaterializzata di fronte al primo 3 per 2 di panettoni e pandori, con la stessa fermezza che uno Scilipoti qualsiasi può opporre di fronte alle lusinghe di Silvio.

E così l’anno riparte, ahinoi, dove l’abbiamo lasciato. Con la politica che continua a discutere di elezioni, crisi, governi tecnici un giorno sì e l’altro pure. Un balletto che fa contenti solo i giornalisti che possono comporre con amena faccia di tolla un pezzo che giura elezioni il martedì e governo tecnico il mercoledì.

Intanto il Paese vive la sua crisi quotidiana e l’inflazione, ci dicono quasi di sfuggita, ha toccato l’1,9% su base annua, mentre i salari (chi ce l’ha) son rimasti fermi.

E così ci si divide su chi sta con Marchionne e chi sta con la FIOM, mentre sì è sinceramente tentati di aderire al vecchio adagio, né con l’uno né con l’altro; visto che nessuno domanda al canadese d’Abruzzo come intenda recuperare quote di mercato sull’auto non prevedendo alcun nuovo modello per il 2011. Già perché nell’anno appena andato, finiti gli incentivi statali, le case automobilistiche che hanno messo il segno  più davanti alle cifre delle vendite in Italia sono state quelle che hanno introdotto nuovi modelli e alla fine dell’anno FIAT per la prima volta è scesa sotto il 30% delle nuove immatricolazioni in Italia. Non era mai accaduto e dubito fortemente che il problema siano le relazioni industriali.

Così come non suscita, in chi scrive, simpatia un sindacato che si ricorda dello statuto dei lavoratori a fasi alterne, che si mobilita come di fronte all’avvento della dittatura se si parla di modificare l’articolo 18 e poi grida egualmente al fascismo quando si applica l’articolo 19.

E così tra i buoni propositi dell’anno nuovo ci sarebbe piaciuto quello di non vedere più gli appelli dei soliti intellettuali a favore delle solite battaglie. Primo perché ormai paiono moduli prestampati a cui cambiare solo intestazione e propagatore della dittatura di turno, secondo perché a memoria non si ricorda un unico esito positivo di tali forme di lotta salvo aumentare la tiratura di un paio di quotidiani.

Così come ci piacerebbe vedere per il 2011 i giovani che continuano a manifestare per il loro futuro in piazza, evitando però di confondere una minima riforma universitaria con la fine della speranza, incazzandosi perché colpisce troppo poco quel sistema che non li soddisfa e chiedendosi dove stanno sbagliando se il barone che ha appena piazzato moglie, nuora e figlio in cattedre spesso inutili, è al loro fianco e urla che hanno ragione.

Poi per il 2011 mi piacerebbe vedere il PD. Verrebbe da dire in qualsiasi forma si manifesti, ma in realtà mi piacerebbe vedere un partito che discute di primarie, cosciente che si tratta di un mezzo e non di un fine, che ad ogni uscita del segretario non si affanna a proporre mille distinguo, che definisca una proposta per il Paese bella o brutta che sia ma che sia sua, che finalmente valuti le interviste di Aldo Cazzullo a Walter Veltroni per quello che sono: un genere letterario che spesso confina con la fantascienza.

Il paradosso di Fassino

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 31 dicembre 2010.

Un paio di settimane fa su queste colonne ho espresso una posizione piuttosto indulgente sul PD e sulla gestione dei giorni della mozione di sfiducia da parte del segretario Bersani. Come spesso accade il pezzo è stato commentato, criticato e ha ricevuto molti giudizi taluni dei quali negativi o confutativi.

Quello che mi ha colpito è che la maggior parte dei giudizi negativi o sfiduciati nei confronti della mia tesi venissero da iscritti al PD. Ora è evidente che la platea delle mie conoscenze, reali e virtuali, non rappresenta una platea rappresentativa essendo in massima parte soggetti che hanno, o hanno avuto, interesse per la politica coté PD in maggioranza. Tuttavia non può sfuggire una capacità autocritica molto sviluppata all’interno del maggiore partito d’opposizione. A questo si aggiunga poi che la maggior parte delle critiche veniva da esponenti che all’ultimo congresso avevano appoggiato proprio Pierluigi Bersani.

Negli stessi giorni Piero Fassino ha sciolto le sue riserve e si candida alle primarie per Sindaco di Torino. Ora, personalmente, conservo di Piero Fassino un ottimo giudizio e, dei vecchi dirigenti DS, è quello per il quale nutro grandissima stima, simpatia personale e affetto, dunque il mio giudizio su di lui è pregiudizialmente positivo.  Non so cosa possano pensare gli adepti della rottamazione ma trovo che un dirigente così importante decida di mettersi in gioco, di mettere a disposizione la propria esperienza e le proprie capacità per la propria città, sia un modo intelligente da un lato di fare ricambio nel gruppo dirigente nazionale e dall’altro di garantire, se eletto, un buon amministratore a una città importante.

I primi sondaggi paiono peraltro confermare un giudizio largamente positivo su questa candidatura, appare dunque ancor più bizzarra (almeno ai miei occhi) una certa ritrosia nei circoli torinesi nel PD e una retorica del rinnovamento per il rinnovamento che ha accolto la sua candidatura. Un problema avvertito dallo stesso Fassino che ha tenuto a precisare come fosse forte il suo radicamento con la città e che lui non fosse un candidato imposto da Roma.

Un vero e proprio paradosso per colui che è stato il segretario del partito erede del PCI, un partito in cui l’investitura romana avrebbe garantito sostegno incondizionato almeno all’interno delle sezioni del partito, quelle che oggi sono forse le più ostili alla candidatura.

E’ un segno dei tempi che cambiano, probabilmente anche in meglio non c’è dubbio, ma non stupiscono, se consideriamo il dibattito intorno e nel PD a tutti i livelli, le parole di un autorevole  parlamentare del pd che descrive il suo partito come “sdraiato sul lettino dello psicanaliasta”.

Dall’ordinario all’emergenza

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 23 dicembre 2010

Nella ricerca delle responsabilità per il caos neve dello scorso fine settimana è tutto un fiorire di ipotesi e “colpevoli”.

Si definisce fenomeno la neve a dicembre, si contestano i centimetri previsti rispetto a quelli veramente caduti, è colpa degli autobus, no è colpa degli spargisale, non c’era il sale, il sale c’era ma non serve e tutti si improvvisano ingegneri, meteorologi o dirigenti della protezione civile, con la stessa disinvoltura con cui si trasformano in allenatori della nazionale di calcio.

Uno dei punti più sottolineati, e non a torto, da amministratori e commentatori è stato la congestione del traffico privato che ha paralizzato i mezzi pubblici e quelli di soccorso.

Un problema che, però, è ben presente anche senza la neve. Soltanto il mercoledì precedente alla nevicata la città era infatti stata paralizzata da un incidente sui viali e, complice il freddo e il Natale, il traffico era e rimane sostenuto in città.

Dunque come si può immaginare che una città che è abituata a muoversi con il mezzo privato lo lasci a casa proprio nel giorno in cui fa più freddo e l’uso di motorini e biciclette è precluso o ancor più faticoso?

Certo si può fare appello al senso civico dei propri cittadini invece che rassicurarli con frasi a  effetto sull’efficacia del proprio piano neve, ma è dura pretendere senso civico un giorno l’anno dopo aver fatto passare il messaggio opposto in continuazione.

Non deve sfuggire nella riflessione sull’emergenza il messaggio che questa amministrazione ha dato ai propri cittadini fin dalla campagna elettorale. Pur con intenzioni certamente diverse, la somma di alcuni provvedimenti ha dato il senso quasi di un invito all’uso dell’auto.

Prima l’abolizione dei vigilini che multavano le infrazioni delle ZCS, poi il ridisegno stesso delle ZCS che hanno assunto le dimensioni di interi quartieri non funzionando più da dissuasori alla mobilità interna agli stessi. Infine il ridisegno delle linee ATAF a seguito della pedonalizzazione del Duomo che ha, di fatto, reso meno comodo e pratico il servizio autobus.

Anche la discussione sulla tramvia fuori dal centro non ha, a mio avviso, contribuito a far crescere nei cittadini la voglia di mezzo pubblico.

Per contro le corsie preferenziali restano le stesse, non aumentano e non sono protette, in continuità con quanto fatto (male) in precedenza e il governo nazionale ha, sciaguratamente, tagliato pesantemente i fondi al trasporto pubblico.

Se dunque si mettono in fila tutti questi provvedimenti che presi singolarmente possono risultare persino piacevoli per il cittadino e si mischiano alla pigrizia, allo scarso senso civico e a una certa ritrosia alle norme del codice della strada, si ottiene una miscela esplosiva a cui la neve ha fatto solo da bianco detonatore.

Perchè Bersani non ha perso

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 dicembre 2010

Come non molti prevedevano Berlusconi ha intascato una risicatissima fiducia in entrambe le camere. Forte dell’ennesimo cambio di casacche parlamentare, come già quello che gli consentì nel 1994 di ottenere la maggioranza al Senato, Berlusconi incassa e prosegue. Pochi riescono immaginare per quanto e con quali risultati, visto che partendo da un distacco di quasi 100 deputati è riuscito a fare così poco anche prima degli strappi di Fini.

Chi esce ridimensionato, per non dire distrutto, è Fini che dimostra ancora una volta di essere un personaggio comunque di contorno nel panorama politico italiano, incapace di giocare autonomamente una partita e fiaccato dalla troppa tattica e dai pochi e non chiari orizzonti lunghi.

Chi invece salva la faccia, oltre al serafico Casini, e alla fine forse non porta a casa una sconfitta è il PD di Bersani.  Un PD fortunato per il calendario, con la manifestazione dell’11 dicembre caduta a fagiolo tra la compravendita dei deputati dipietristi e il voto “affondafini”.

Bersani è stato capace di smarcarsi infatti dall’alleato Di Pietro, lasciandolo solo di fronte all’ennesimo passaggio di parte di suoi parlamentari e svuotando così, senza alcuno sforzo, la retorica dell’”unica opposizione a Berlusconi”, risultando il partito dell’ex PM anzi decisivo per la vittoria del governo. Di più si è smarcato, anche qui senza clamore, da Fini il cui abbraccio avrebbe potuto essere mortale per il segretario emiliano. Lo ha fatto con una manifestazione di partito (a vocazione maggioritaria si potrebbe definirla), senza appelli ad essere in piazza agli alleati presenti, passati e futuri e giocando la sua carta migliore; quella retorica pragmatica, fatta di gente comune, di cenni alla vita reale e anche sul fatto di conoscere per davvero quanto costa un litro di latte, dimostrando di essere qualcosa di più e di meglio della sola alchimia di palazzo.

Nessun cedimento nemmeno a Vendola, al quale il PD ha dimostrato di essere capace comunque di una mobilitazione e di una possibile “narrazione” autonoma dalla tattica delle alleanze.

Un Bersani molto poco dalemiano se vogliamo, che si è posto (e il voto di fiducia paradossalmente rafforza) come capo unico e possibile dell’opposizione intanto parlamentare.

Un credito che dovrà esser bravo a salvaguardare, difendendolo dall’iper tatticismo di chi lo consiglierà di giocare la solita partita dell’alleanza con Casini, sia da chi da dentro e da fuori il partito lo bombarderà con critiche continue, seppur magari un po’ più deboli dopo recenti scivolate all’ora della merenda.

Per farcela il segretario dovrà semplicemente continuare come ha fatto in questi giorni, mettendo in campo la sua solita concretezza e rispondendo alle tattiche con quella semplice (ma efficace) domanda: “ma lei lo sa quanto costa un litro di latte?” .

Certezza d’innocenza

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 dicembre 2010

E’ stata depositata pochi giorni fa la sentenza con la quale il tribunale di Firenze ha assolto gli allora sindaci di Firenze, Sesto, Campi, Signa, Calenzano  e Scandicci, i loro assessori all’ambiente e l’ex presidente della Regione Claudio Martini e il suo assessore all’ambiente Marino Artusa.

Il processo è quello passato alle cronache come quello al PM10 in cui gli amministratori erano imputati di non aver messo in campo le azioni necessarie a combattere contro l’inquinamento dell’area fiorentina.  Siccome però era un processo penale agli imputati non veniva contestato di non aver adempiuto alla normativa nazionale ed europea in materia ma di aver cagionato, col loro governare, danni alla salute dei cittadini. Un accusa grave dunque.

Ora leggere le sentenze non è mai semplice ma è sempre molto istruttivo. Di solito ci si trova di fronte ai dubbi che ai giudici si sono presentati durante l’inchiesta e, soprattutto, durante il dibattimento. Affiorano perplessità e la responsabilità di decidere della vita di altri uomini. Di solito. Questa volta invece siamo di fronte, almeno a parere di chi scrive, ad una sentenza senza alcun dubbio. Gli imputati sono innocenti e senza tanti fronzoli e tutte le argomentazioni dell’accusa sono analizzate e demolite punto per punto.

Ci si potrebbe fermare alle prime pagine della stessa per capirlo. Quando il giudice estensore descrive le varie perizie resesi necessarie per stabilire se la tesi dell’accusa avesse spessore scientifico ovvero se fosse quella della difesa ad averlo, giungendo alla “presa d’atto della insanabile divergenza delle tesi e conclusioni sull’argomento, in un ambito peraltro di pari dignità scientifica” che di conseguenza, da sola, avrebbe reso gli imputati assolti.

Insomma, aggiungo io, se invece di un processo si fosse fatto un dibattito scientifico ci saremmo potuti accorgere che nessuno ha la bacchetta magica contro l’inquinamento e che questo ha poco a che fare con l’azione penale.

Ma in sintesi la tesi del giudice è che se si guarda a come sono migliorate le condizioni igienico sanitarie dei territori europei in così breve tempo dalla peste manzoniana, anche grazie alla motorizzazione di massa, “le disquisizioni sulla presenza oggi nell’aria del PM10 […] e della sua relativa nocività perdono ogni connotazione drammatica, ed evidenziano come solo popolazioni evolute […] possono porsi in maniera così coinvolgente problemi come quello di cui si occupa il presente processo

Insomma mi rassicura che non sono stato il solo a pensare a questo processo come un azione a dir poco discutibile, che è durata diversi anni, che è costata tempo e denaro a tutti noi, che ha distolto uomini e risorse ad una giustizia penale che, probabilmente, aveva altre priorità.

Il tutto senza che nessuno possa, vista la mancanza una vera legge sulla responsabilità civile dei magistrati, chiedere conto di questo processo, senza poi che la carriera dei magistrati abbia la benché minima traccia del tempo perso.

Nel frattempo una classe politica è stata descritta, per diversi anni, come pericolosa per i cittadini, è stata inquisita, processata e infine giudicata. Innocente.

Quanti grandi dimenticati

Da Nuovo Corriere di Firenze del 3 dicembre 2010

Come non essere d’accordo nell’intitolare a Mario Monicelli una strada di Firenze? Una città che pochi anni fa l’ha voluto tra i suoi cittadini onorari.

Inutile dire che non ci sono obiezioni a intitolare una strada a chi ha saputo descrivere magnificamente gli italiani e i fiorentini con la sua opera. Magari una strada o uno slargo vicino ai luoghi da lui inseriti in Amici Miei: La Nazione, Piazza Santa Croce con la cattedrale mai inquadrata e un (falso) distributore messo quasi a spregio, o piazza dell’Isolotto con il seminterrato del Mascetti. Oppure piazza del Carmine, anche essa cinematograficamente mutilata della chiesa, in Cari Fottutissimi amici.

Ma se Monicelli merita, ben altri e illustri personaggi attendono un posto nella topografia fiorentina. A partire da Enrico Berlinguer, amatissimo segretario del PCI del compromesso storico e dell’austerità che non trova ancora un tratto di città degno della sua persona. Lui che quando arrivava a Firenze riusciva a riempire all’inverosimile Piazza della Signoria e scaldare i cuori di tanti compagni. Probabilmente buona parte di quelli che governano e hanno governato questa città negli ultimi anni e che hanno saputo trovare posto (meritoriamente s’intende) a Giovanni Spadolini, all’interno del plesso universitario di Novoli o a Fabrizio De Andrè dinnanzi al Sashall.

Nessuna strada (e se non ci sbagliamo nemmeno nessuna proposta) per lo storico Giorgio Spini, primo ufficiale alleato ad entrare nella Firenze liberata e “co-salvatore” di molti dei tesori degli Uffizi dalle brame dei tedeschi in fuga. A lui ha deciso di intitolare una strada il consiglio comunale di Fiesole, all’unanimità. Speriamo che anche Firenze la segua.

Infine come dimenticare la polemica sulla strada da intitolare a Oriana Fallaci? Una vicenda che ha perso ogni valore circa la qualità della giornalista ed è finita nell’ennesima e banale battaglia fra destra e sinistra. A lei che banale di certo non era non avrebbe fatto piacere, così come non avrebbe apprezzato l’averla messa in contrapposizione con un altro grande del giornalismo Tiziano Terzani che invece la sua via a Novoli ce l’ha. Forse, e lo dico facendo anche autocritica, sarebbe ora che si rendesse omaggio alla Fallaci, a tutta la vita di questa grande donna, superando idioti steccati. Magari in una strada accanto a Via Monicelli.

Dal Porcellum al Cignalum

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 dicembre 2010.

In tutto il discutere di crisi e scenari futuri del governo, della maggioranza e delle opposizioni non manca mai il tema della riforma elettorale. Fateci caso il tema del baratro economico a cui è appeso il Paese è usato più per schermo tattico a cui appoggiare governi tecnici, per rigettare elezioni anticipate o per rinsaldare il Berlusconi quater. Ma appena si parla di riforma elettorale tutti si infiammano, tutti i partiti hanno la loro proposta. Il senatore Ceccanti (PD) ha persino presentato più proposte di legge di modifica con quasi tutti i sistemi elettorali in vigore sul globoterracqueo.

Complice la più alta (e nefasta) densità di politologi in servizio permanente effettivo del mondo la nostra politica è capace di discutere su ogni tipo di sistema elettorale (francese, tedesco, americano, buoni ultimi l’australiano e l’ungherese), di applicare un sistema di elezione diverso per ogni livello amministrativo e di governo e di aver cambiato più leggi elettorali negli ultimi anni che cappellini la regina Elisabetta nei giorni di Ascot.

Un tema quello della tecnicalità dei sistemi elettorali che tocca anche il punto del ritorno della preferenza. Invocata oggi come lo strumento principe per avvicinare il popolo all’eletto con la stessa ferocia con cui era stata additata a strumento di corruzione e malcostume negli anni in cui, spesso i soliti che oggi ne chiedono il ritorno, ne chiedevano la limitazione e poi l’abolizione.  Insomma ancora una volta si confonde il sintomo con la malattia, e si addita a una tecnicalità la responsabilità di un problema politico.

E’ forse utile ricordare un po’ la stagione dell’abolizione della preferenza per approcciarci a questa nuova stagione del suo possibile ritorno. Nei primi anni ’90 alla progressiva perdita di peso dei partiti, al loro crollo di credibilità e alla fine delle ideologie, la classe politica subì da un lato l’offensiva giudiziaria e dall’altro un movimento referendario che chiedeva l’abolizione della preferenza plurima; per alcuni, i Radicali e Segni, al fine di spostare il sistema verso un maggioritario puro, per altri (tra questi l’allora PDS) nella speranza di conquistare e guidare il cambiamento in atto.  La scelta di abolire la preferenza multipla fu difesa come modo per limitare gli aspetti clientelari e di infiltrazioni malavitose nell’agone elettorale.

Ciò però, insieme all’inserimento di forme di elezione diretta per sindaci e presidenti di Provincia, unito alla debolezza di partiti sempre meno aderenti alla realtà sociale del Paese portò, anche con la preferenza unica, a una progressiva personalizzazione e persino familiarizzazione della rappresentanza, creando legami tra l’eletto e il territorio che non scongiuravano affatto pecche di moralità nella classe politica, oltre ad indebolire i partiti ogni giorno di più.

Vi era dunque un terreno fertile per Berlusconi e il berlusconismo anche nella società politica italiana. E’ forse utile ricordarlo oggi che se ne profila la fine.

Negli anni successivi quel che restava dei partiti politici ha continuato a cercare di mettere argine alla propria decadenza immaginando nuove soluzioni elettorali o, per dirla con il vecchio Marx, ha badato alle sovrastrutture piuttosto che alle strutture della rappresentanza e del conflitto politico e sociale.

In questo la nostra regione per prima ha affrontato il tema del superamento delle preferenze pur mantenendo un sistema proporzionale. Anche qui molti in buonafede negli allora DS giustificavano questa scelta come barriera al personalismo e ai costi delle campagne elettorali (dunque con una funzione morale) e come modalità che avrebbe riportato al centro i partiti politici e avrebbe ridato primato alla politica collettiva.

Accanto a questo è entrato prepotentemente sulla scena il tema delle primarie, almeno nel versante del centrosinistra. Anche qui, aldilà delle competizioni squilibrate come quella per l’elezione di Prodi, le primarie hanno verificato l’impotenza dei partiti a determinare gli esiti della competizione. Segno che il tema, ancora una volta, non fosse tecnico ma politico.

Dunque oggi visto che uno dei possibili scenari nazionali è quello della correzione del porcellum attraverso la reintroduzione della preferenza o che tale direzione pare essere quella con più consenso in regione per la riforma del cignalum o, infine, che nel PD si parla apertamente di scaricare le primarie occorre tenere presente che non saranno scelte tecniche a ridare forza ai partiti e che non si risolveranno così i problemi di lontananza tra cittadini ed eletti.

Tanto perché, come tanti personaggi di Altan, non si finisca per guardare il dito dimenticandosi dell’ombrello infilato proprio lì.

E il centrosinistra che fine ha fatto?

Da il Nuovo Corriere di Firenze del 25 novembre 2010

Caro Direttore,

oggi aprendo il tuo giornale come al solito, mi imbatto in prima pagina nel “manifesto” a doppia firma di Andrea Barducci e Renzo Crescioli, titolato impegnativamente Terza Via a sinistra. Vista l’autorevolezza delle firme, il titolo assai attraente per un “blairiano” come il sottoscritto e la posizione a me cara in cui lo hai pubblicato ho iniziato subito a leggerlo.

L”articoletto si chiude con due parole molto suggestive ed evocative: libertà ed eguaglianza. L’ultima peraltro proprio il sottoscritto l’aveva adoperata sul tuo giornale chiedendo ai giovani rottamatori di inserirla nella loro discussione leopoldina. E dunque mi viene da interloquire coi due estensori del documento. Intanto mi chiedo, e chiedo loro, perché iniziare un manifesto in difesa? Dite che non è tempo di rottamare ma di costruire e lo fate ponendovi subito altri rispetto a un movimento che, almeno uno dei due, ha legittimato intervenendo e portando lì i propri argomenti. Perché cercare legittimazione a partire da un iniziativa, un movimento, che si considera non pienamente proprio e riconoscibile? E perché porlo come minaccia all’alienazione della politica da parte delle giovani generazioni quando proprio queste ultime erano maggiormente protagoniste dell’iniziativa della Leopolda? Forse più utile, sia detto senza polemica ma con spirito costruttivo come raccomandato dai due estensori, sarebbe interrogarsi sul modello attrattivo messo in campo dai rottamatori e chiedersi come estenderlo a quelli che alla Leopolda non c’erano e a quei tanti giovani che non sono raggiunti da quei messaggi o da quegli strumenti tecnologici. Dunque interrogarsi sui mezzi è necessario visto che questi prefigurano sempre i fini e serve a poco presumere di avere le idee migliori se queste non valicano i confini, certo familiari, delle nostre case del popolo.

Forse sarebbe utile parlare di comunicazione o ancora meglio farla, e metterla al servizio di quelle parole così solenni e impegnative che chiudono l’articolo.

Infine un altra notazione, più generale che lascio come interrogativo ai due estensori e forse al PD tutto. Dicono, Barducci e Crescioli, che servono parole e temi di sinistra, in analogia a quanto il segretario del PD Bersani elencava pochi giorni fa alla trasmissione di Fazio e Saviano. Figurarsi se il sottoscritto non è d’accordo. Ma se tale è il bisogno di parte così autorevole di tanti dirigenti del PD e non solo, non sarebbe forse necessaria anche una riflessione su un partito che era nato per essere qualcosa di più e di diverso dalla sola sinistra? Se è finito, non avvertito, il bisogno di centrosinistra e si ritiene necessario, certo aldilà di una semplice distinzione correntizia, riproporre la sola sinistra come identità e cammino non è forse arrivato il momento di un giudizio su un partito che molti finiscono per non sentire proprio, impalpabile e indefinito per i propri dirigenti, figurarsi per iscritti ed elettori. Seguire una strada di lento consumo, di ritorno al passato in contenitori che si dicono nuovi è un espediente che rassicura ma non convince e non attrae.

Ai costruttori dunque un in bocca al lupo sincero confidando che se anche non terza possano aiutare a trovare una via all’eguaglianza e alla libertà.

Sul vagone dei rottamatori

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 novembre 2010 p.1

E alla fine il treno dei rottamatori è arrivato alla Stazione Leopolda, o per meglio dire da lì è partito. Sì perché tutto nella tre giorni fiorentina, dall’assenza dichiarata di programma alla non selezione di temi e interventi, era all’insegna dell’avvio, del movimento anche, forse, fine a sé stesso.

Una tre giorni iniziata senza relazioni introduttive ma conclusa da Matteo Renzi con un discorso che ricordava più un’introduzione che delle vere e proprie conclusioni. Grandi visioni, immagini, un repertorio di brillanti battute, temi evocati, sfiorati mai morsi per davvero, lasciati lì pronti per il prossimo appuntamento. Già perché scegliere oggi sarebbe equivalso a selezionare. Selezionare temi e proposte e anche qualcuno dei presenti, sopra e sotto il palco.

Evidentemente per Renzi non è ancora il momento, gli interessa più unire e consolidare il movimento e lo spirito di Firenze insieme alla propria indiscussa e inattaccabile leadership. Una leadership che Civati non può contendere, né oggi né mai, e infatti il consigliere regionale lombardo appare in tutta questa vicenda come uno dei personaggi dei film horror americani, uno di quelli che sai fin dalla prima inquadratura che non arriveranno in fondo al film.

Quello che ti colpisce della Leopolda è lo spirito. L’entusiasmo e la voglia di esserci e partecipare. E’ una bella sensazione, soprattutto nel vedere che è diffusa in ogni ordine e grado. Quello che colpisce è anche, per dirla con le parole di un caro amico, che ti aspetteresti una gran voglia di dare calci nel sedere e scopri una gran voglia di stringere le mani.

Un modo ben strano di iniziare una rivoluzione ma forse una garanzia per provare a finirla, visto come sono andate quelle con la rabbia addosso.

Non c’è rabbia nemmeno nel chiedere (chiedere e non esigere peraltro) il ricambio e la rottamazione nei molti interventi sul tema, l’unico forse realmente condiviso e digerito di qua e di la dal palco.

Per ora l’unico vero rottamato a Firenze è il veltronismo, con Renzi che si candida a occupare lo spazio dell’immaginario, del sogno. La prova nell’intervento di Giovanna Melandri a cui i due in consolle non avrebbero dovuto dare il gong alla fine dei 5 minuti ma tre canti del gallo.

Eppure tra Renzi e Veltroni qualche differenza corre. Non solo d’età. Di Veltroni possono non piacere tante cose (e a me non piacciono) ma quel che diceva ha provato a fare, rendendo azioni le parole spese, anche se discutibili e non sempre felici. A Roma si è inventato il festival del cinema, a Firenze abbiamo avuto il festival del gelato. Ha posto il tema del rinnovamento e ha portato in parlamento (certo con risultati non tutti felici) scrittori, ricercatori e imprenditori, a Firenze si chiama in Comune un dirigente neo-pensionato e non certo la precaria magari in attesa del posto della Finocchiaro.

Sul piano locale Renzi, consolida e certifica la propria egemonia nei confronti di amministratori e partito se il cuore degli interventi del segretario regionale Manciulli e del Presidente della Provincia Barducci sono, per il primo, “il rinnovamento lo stiamo facendo” e, per il secondo, che non serve il limite di tre mandati ma due sono addirittura troppi. Segno che il tema dei rottamatori non solo era giusto ma persino da perseguire e anticipare.

Ma anche a Roma, Renzi c’è e la tre giorni leopoldina, lo fa assumere a soggetto imprescindibile in quelle che saranno le dinamiche del PD del prossimo futuro, anche se la mossa di Gianfranco Fini di accelerare la fine del Berlusconismo rischia di giocare un brutto scherzo ai rottamatori, lasciando a Bersani e al gruppo dirigente nazionale l’onere delle scelte e delle decisioni e che soprattutto in caso di elezioni anticipate vedrebbero inevitabilmente il popolo democratico stringersi al proprio partito contro il centrodestra, diminuendo lo spazio per il dissenso.

Ma il treno è appena partito e crediamo che chi vi è salito e il suo conducente abbiano tutte le risorse, di capacità e di tempo, per giocare molte partite nel futuro.