Quel che resta della Piazza


Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 febbraio 2011

Che c’entrasse poco con la dignità (in generale) delle donne, la manifestazione di domenica, lo han detto altre e altri ben più bravi di me. Che c’entrasse ancor meno col precetto rabbinico da cui prese ispirazione Primo Levi per il titolo della sua ultima opera e da cui il titolo, se non ora quando?, della manifestazione è anch’esso noto. Tuttavia le piazze di domenica sono state un indubbio successo politico da non sottovalutare né da archiviare in fretta proprio per il loro significato politico antiberlusconiano. Intanto perché mostrano limiti e potenzialità di una opposizione politica che, forse, potrebbe in caso di elezioni diventare un eterogenea ma possibile maggioranza parlamentare.

E’ vero, come scrive un amico, che nessuna opposizione ha mai vinto con una manifestazione ma nessuna ha mai vinto senza, per cui quello che è sceso in piazza sabato è qualcosa di più di un corteo. E’ un popolo disponibile, direbbero i dottori della politica, alla grande alleanza dalemiana, no è il popolo del Tutto tranne Berlusconi ribatterebbe Ferrara. Di sicuro è una parte della popolazione italiana che è stufa di Berlusconi in quanto tale e che alla fine di quest’ultimo subordina qualsiasi cosa.

Il che è giustificabile in una folla un po’ meno in un partito politico. Lo sa bene il PD, che per la prima volta vede intorno a sé condizioni politiche a lui favorevoli. Intanto Di Pietro incapace di riprendersi da Scilipoti, chiuso in un angolo, coi consensi erosi da SEL e umori intercettati dalla società civile del Palasharp, poi Vendola e i competitor interni che l’accelerazione della crisi potrebbe mettere fuori gioco, così come le primarie (interne o di coalizione) che il precipitare degli eventi metterebbe gioco forza in naftalina, consentendo a buona parte del gruppo dirigente nazionale (in special modo quello di seconda fascia) di sopravvivere un’altra legislatura.

Un PD che è stato sicuramente essenziale nella manifestazione di domenica ma che deve fare i conti con un successo che è solo in parte suo, che fa intravedere (ancora una volta) il rischio di un partito portatore d’acqua a una guida esterna, sia essa Casini o il papa nero di Largo Fochetti.

Bersani questo lo sa e ha provato a trarvi rimedio. Intanto mettendo in campo una proposta politica economica con le 41 liberalizzazioni. A parte una scarsa capacità di comunicazione con le 41 proposte che in realtà sono 34 in attesa delle altre 7 (eppure bastava chiedere da queste parti come si fa a moltiplicare i punti di programma) e qualche scarso coraggio (si parla blandamente di riformare gli ordini professionali) hanno il merito di rispondere a chi dice che il PD non ha un idea.

Il bivio però che il PD ha di fronte è se cavalcare la protesta da CLN, come proponeva ieri Veltroni con l’idea di una manifestazione con le sole bandiere italiane, oppure provare a dare gambe e proposte politiche a questo movimento. Inutile dire quale preferisca chi scrive, anche se non si nasconde il rischio di perdere non poca di quella spontaneità che domenica era in piazza. Ma l’idea che, una volta sgomberato il campo da Berlusconi, tra le macerie il centrosinistra non abbia la minima idea di cosa fare e passi il tempo a litigare è una paura ben più grande.

Cultura commestibile n.2

Sabato 12 febbraio esce il n.2 di Cultura commestibile l’inserto de Il Nuovo Corriere a Firenze, Prato, Arezzo, Lucca e Versilia. Per festeggiare, presentare e critcare i primi due numeri dell’inserto abbiamo organizzato un piccolo apertivo alla  caffetteria della biblioteca delle Oblate a Firenze a partire dalle ore 11.

Vi aspettiamo con la mano alla fondina.

La rottamazione di Tremonti

Da il Nuovo Corriere di Firenze del 10 febbraio 2010

Non ha dato interviste sul tema. Non è apparso in tutti i talkshow e non ha riempito una vecchia stazione di Varese, ma zitto zitto Tremonti, insieme a Calderoli, pare aver impostato una rottamazione della classe politica che, se arriverà in porto, rimescolerà e di parecchio le carte della politica italiana. Parliamo del settimo decreto attuativo del cosiddetto federalismo. Le cronache poco si sono soffermate su questo testo di 18 articoli pesanti come macigni. Cosa dice in sintesi questo decreto? Che gli amministratori pubblici dovranno rispondere dei loro bilanci e che in caso di “fallimento” ne pagheranno le conseguenze non potendosi più candidare al ruolo ricoperto e, in casi di gravi violazioni, a qualsiasi carica politica italiana o europea.

Sei il governatore di una regione e la tua sanità perde a bocca di barile? Non c’è narrazione che tenga, nel progetto tremontiano il presidente del consiglio non lo puoi fare. E questo vale anche per sindaci e presidenti di provincia, ineleggibili fino a 10 anni. Ma il meccanismo non si arresta agli amministratori, incentiva anche i partiti a scegliere amministratori capaci, pena una decurtazione fino al 30% del contributo elettorale percepito.

Naturalmente siamo ancora alla prima proposta del governo, maggioranza e opposizione non mancheranno di provare a modificare profondamente il testo approvato dal consiglio dei ministri nel novembre scorso, mentre l’Anci ha già dichiarato il suo no definendo il testo incostituzionale.

Tuttavia quella tremontiana appare una rivoluzione non c’è che dire e come tutte le rivoluzioni troverà sulla strada nemici in tutti gli schieramenti e forse, oggi, è una delle poste maggiori sul piatto della possibile fine anticipata della legislatura.

Cultura Commestibile

Domani col Nuovo Corriere a Firenze, Prato, Arezzo, Lucca e Versilia troverete un nuovo inserto di 8 pagine curato dal sottoscritto insieme a Aldo Frangioni, Rosaclelia Ganzerli e Simone Siliani che prova a parlare di cultura senza essere indigesti.

Spero che molti di voi domani lo leggano e ci facciano sapere se ci siamo riusciti o in cosa possiamo ancora migliorare. Oppure se sia proprio il caso di smetterla subito qui.

Dalla morale al moralismo

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 febbraio 2011

All’epoca del caso Lewinsky qua da noi il commento generale era, più o meno, “in Italia non sarebbe possibile”. Troppo poco moralista la nostra società, più aperta, più evoluta, si diceva.

Invece a leggere alcune cronache di questi giorni si rischia di cambiare idea e di chiedersi se i padri pellegrini invece che sulle coste del Maine siano sbarcati intorno a Ostia.

Non parlo solo di Ruby e delle notti di Arcore; penso all’ex governatore Marrazzo “sputtanato” di nuovo perché trovato in auto con un trans senza che il controllo di polizia avesse nulla da rilevare, oppure quel parlamentare “sorpreso” a guardare un sito porno col suo ipad. E mi spavento se il metro del giudizio dovesse diventare quello che contengono i nostri hard disk perché in tanti anni di lavoro sui pc degli altri non ricordo una cronologia internet al di sopra di ogni sospetto.

Ma ancora le proteste per Miss Padania a San Miniato, quelle del consiglio comunale di Firenze contro il calendario Toscani, un moralismo serpeggiante che coinvolge anche le istituzioni e che fa venire i brividi, evocando modelli di stato etico che pensavamo sconfitti.

Che poi qualche dubbio sulla reale “moralità” di queste campagne ti prende se a farle è quella Repubblica dello stesso gruppo editoriale che pubblica l’Espresso, indimenticato campione della classifica “tette e culi” di Cuore. Un uso politico della morale che stride, contrasta, inferocisce quando lo vedi venire in particolare da sinistra, ti pare soltanto in nome del TTB (Tutto tranne Berlusconi), incapaci di capire che cose sbagliate, come diceva Sciascia, non saranno mai in grado di costruire cose giuste.

Certo non si discute che sia in atto nella nostra società un modificazione della gerarchia dei valori, ma di questo il sesso e la sessualità sono sintomi e non cause, come le scorciatoie del successo dei talentshow, l’esasperazione dello sport agonistico, e le famiglie che desiderano questi destini per i loro figli come i nostri genitori desideravano per noi che studiassimo e trovassimo un “lavoro serio”.

E poco serve a contrastare questo cambiamento (qualora naturalmente lo si ritenga sbagliato) l’indignazione, il richiudersi nel rassicurante recinto della superiorità morale, che anzi finisce per isolare ancora di più dal resto della società e ciò temo valga in modo maggiore quando ci si rivolge alle donne.

La sinistra, le donne, in questo Paese hanno fatto durissime battaglie perché il corpo delle donne fosse a queste restituito. Libere di farci quel che a loro pare, anche se a noi non piace. Non sarà giudicandole che restituiremo loro la capacità di scegliere cosa sia meglio.

Le due sponde della rivolta (reprise)

Dato che il sito di Labouratorio è ancora sotto attacco informatico pare da parte dei cinesi pubblico qui l’articolo che mi era stato pubblicato.

Poco più di 600 chilometri, separano Roma da Tunisi. Due capitali in rivolta se si da per buona l’interpretazione di chi legge i movimenti degli studenti dei mesi scorsi come altro e di più della lotta a una modesta riforma universitaria.

Quanti giornali, analisti, commentatori, politici ci hanno raccontato di una generazione che scendeva in piazza perché le stavano rubando il futuro? Gli stessi che, probabilmente troppo occupati a immaginare il regime italiano, non si accorgevano di un regime (quello sì non democratico) che crollava davvero e alle porte di casa nostra.

Da un lato una generazione, come raccontava Labouratorio nel numero 52, con la pancia piena, spesso privilegiata, che finiva per difendere lo status quo, piuttosto che lottare per una riforma reale e piena del loro sistema di formazione.

Ma questo poco conta per i nostalgici del conflitto, coloro i quali le immagini dello scontro servivano da madeleine proustiane, per scatenare il tempo perduto della gioventù sessantottina o, più di nicchia ma più ascoltati nelle (i)stanze della protesta, del fallimento del G8 di Genova.

Lo stesso immaginario di chi lamenta la vittoria del sì a Mirafiori come opera del tradimento del “proletariato dal collare bianco”, come se oggi nel 2011 la dimensione del conflitto di classe avesse ancora quelle forme e quel lessico, come se postfordismo, toyotismo e divisione internazionale del lavoro, fossero scivolati indenni sul nostro tempo.

Dall’altra parte del mediterraneo invece la stessa generazione è scesa in piazza e ha sovvertito il potere a partire dalla più antica delle proteste: quella per l’aumento del prezzo del pane (mica del prezzo dell’iphone), lo ha fatto apparentemente senza un piano, senza una giuda definita. E oggi si trovano probabilmente spiazzati di fronte ad avvenimenti non previsti né prevedibili.

Dal nostro occidente, da troppo tempo inadeguato a capire cosa accade nel continente africano, prima abbiamo ignorato, poi ci siamo raccontati la storia della rivoluzione su twitter. L’assolutoria e rassicurante versione di una società civile, colta ed europea, pronta a portare la Tunisia nel nostro condominio occidentale.

Nulla però, a livello di governi, pare muoversi per spingere in tale direzione; anzi le uniche parole che sa pronunciare il nostro ministro degli esteri sono un elogio alla riforma locale del dittatore Gheddafi. Di fronte al tiranno che fugge si finisce per parteggiare per i suoi simili proponendo la versione aggiornata al XXI secolo delle brioches di Maria Antonietta.

Nel frattempo tutta l’Africa del nord pare in procinto di esplodere, perché nulla spinge di più di un esempio positivo. La Tunisia, Paese profondamente laico, rimane in bilico tra democrazia e fondamentalismo islamico; se la rivolta dovesse estendersi in Egitto, Algeria, Mauritania possiamo prevedere un peso assai maggiore delle forze estremiste.

Non è da oggi che Al Quaeda del Magreb Islamico ha profondamente messo radici in questi Paesi, ed è pronta a sfruttare lo spazio che la caduta dei regimi potrebbe fornirgli soprattutto verso le plebi del Cairo o di Algeri.

La comunità internazionale, l’occidente, appaiono alla finestra, incapaci di capire i rischi (ma anche le opportunità) di un Africa finalmente democratica, sospesi da un neo attivismo spesso pasticcione degli USA (vedi referendum del Sud del Sudan) e un interesse cinese che guarda ai mercati e alle materie prime senza troppo andare per il sottile su democrazia e diritti.

Infine il medio oriente, con Israele che finirebbe ancor più in trincea di fronte a un radicalizzarsi dei regimi a lui vicini, e un Libano pronto a sprofondare di nuovo in lotte, come dimostra l’uscita di Hezbollah dal governo di fronte al timido tentativo dell’ONU di celebrare i processi per l’assinio dell’ex premier.

Sarebbe allora un futuro piuttosto spiacevole quello in cui si troverebbero a vivere anche i giovani manifestanti italiani e per di più a due passi dalle loro playstation.

L’importanza del ricordo

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 27 gennaio 2011

Fu Tullia Zevi, ha ricordato martedì in Parlamento Furio Colombo, a suggerire la data del 27 gennaio per il giorno della Memoria. La storica presidente delle comunità ebraiche scomparsa in questi giorni infatti collaborò alla stesura della legge istitutiva che, nei lavori preliminari, prevedeva come data del ricordo il 16 ottobre: il giorno dell’anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma.

La Zevi, sono le parole del senatore Colombo, chiese che la data fosse quella del 27 gennaio, oltre che per conformare la celebrazione italiana a quella degli altri Paesi, perché, con la caduta dei cancelli di Auschwitz si sarebbe ricordato un giorno di speranza e, soprattutto, si sarebbe celebrata la memoria di tutti i sommersi dell’universo concentrazionario nazista.

Gli ebrei, in primis certo ma anche i deportati politici, i rom, gli omosessuali. Tutti quelli che con l’assurda efficienza dei campi di morte venivano schedati, classificati e marchiati in base a un pregiudizio folle e razionale.

A differenza di tante celebrazioni, pompose talvolta e poco sentite, a distanza di 10 anni il giorno della memoria rimane vivo e vissuto nella stragrande maggioranza dei cittadini. Un evento vero, che non perde autenticità, nonostante il passare degli anni. E questo si deve ai tanti che in questi anni hanno saputo onorare il giorno della memoria in modo sempre nuovo, mai scontato. Iniziative di storici, artisti, amministrazioni, hanno sempre avuto la volontà di coinvolgere e non solo di celebrare. Un lavoro che si ripete ogni anno, con sempre la stessa forza, soprattutto verso i ragazzi delle scuole. Ragazzi che ho sempre visto attenti, di un attenzione che non riservano normalmente alle iniziative extrascolastiche. Non solo quelli che partecipano ogni anno al treno della memoria, indifesi e incapaci (come chiunque) di fronte alla sproporzione di quel male che ti trovi attorno nel freddo polacco. No, appaiono attenti anche alla lezione, o allo spettacolo, al ricordo del deportato.

E’ per loro innanzitutto che oggi celebriamo la memoria dei sommersi e dei salvati. Perché non abdichino mai all’ottusità dell’odio. Alla scorciatoia della barbarie che la regolarità delle baracche di Auschwitz ci ricorda potersi vestire di normalità e crescere senza troppo rumore attorno a noi.

Meno male che Silvio c’è

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 20 gennaio 2011

Oggi mi voglio mettere nei panni di un elettore del centrodestra. Uno convinto; che ha votato dal 1994 prima Forza Italia e poi Pdl. Uno che meno male Silvio c’è forse non arriva a cantarlo ma a pensarlo di sicuro. Un elettore attento. Che segue i dibattiti su tv e giornali.

Ecco fossi questa persona oggi di Ruby non me ne fregherebbe niente. No non c’entra il regime, la lobotomizzazione delle tv e tutta quella roba che proclama la sinistra dei professionisti dell’antiberlusconismo (se ci si immedesima bisogna farlo bene).
Non mi interesserebbe perchè da diciasette anni mi sento ripetere dalla mia parte politica che un pool di magistrati politicizzati blocca il governo e quindi il Paese e che siamo strozzati da lacci e laccioli primo fra tutti le tasse.

Ecco fossi un elettore del centrodestra io non mi preoccuperei di quello che Berlusconi fa la notte ma di quello che non fa il giorno. Quella riforma delle tasse promessa da sempre, proposta un paio di volte e che al momento nemmeno pare in agenda del governo del fare. Se poi fossi un elettore del centrodestra lavoratore subordinato mi chiederei come mai in 17 anni, di cui 9 passati da Silvio al governo, le tasse prese direttamente dal “sostituto d’imposta” (una delle altre cose che B. doveva abolire) siano aumentate così come i costi dei servizi pubblici che mi servono (asili, acqua, ecc…)

Poi mi chiederei come mai in questi 17 anni, di cui 9 passati dal centrodestra al governo, di riforma della giustizia si è parlato tanto ma fatto niente. Perché si è sprecato il tempo a fare, uno dopo l’altro, provvedimenti per salvare il capo (lodi Schifani e Alfano, depenalizzazioni, legittimo impedimento,ecc..) che non l’hanno nemmeno salvato e non si sono fatte quelle due o tre riforme per tutti che, forse, avrebbero fatto comodo anche a B.: separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati e abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Tornassi infine ad essere un elettore di centrosinistra, mi chiederei perché, di fronte a un Paese evidentemente sordo di fronte alla questione morale e all’uso privato delle istituzioni, la mia parte politica non passasse il suo tempo a rinfacciare il fallimento, da destra, della politica berlusconiana.

La Mole della ricchezza

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 13 gennaio 2011

Durante le sue lezioni universitarie sul riformismo nel secondo dopoguerra, Paul Ginsborg era solito usare, come immagine della disuguaglianza di reddito tra i molti poveri e i pochi ricchi, la mole antonelliana di Torino.

Quella strana costruzione, pensata prima come sinagoga e che ha poi avuto molteplici usi, sino ad essere oggi un museo del cinema molto apprezzato, è un monumento maestoso, la cui imponente altezza si basa su una base quadrata molto amplia. Ecco, ci diceva il nostro Professore, la nostra società è fatta così, una grossa base e una ristrettissima punta divise da centinaia di metri e da migliaia di denari.

Se oggi volessimo aggiornare quella rappresentazione dovremmo forse immaginarci una mole che rivaleggi, per altezza e dimensioni, con i grattacieli più alti del mondo che spuntato tra lo smog di Shangai e il deserto del Dubai.

E’ un dato pubblicato dall’ISTAT di questi giorni infatti che ci mostra come il paese sia largamente bloccato, nei consumi e negli stipendi, mentre le imprese ricominciano a fare, seppur timidi, utili. Dunque la possibile ripresa non si traduce in ricchezza per tutti, e in nuovo lavoro. Tanto che molti analisti parlano tranquillamente di una ripresa che coinciderà con un aumento della disoccupazione per ancora almeno un paio di anni.

Non si investe in nuovo lavoro per paura, perché si teme che la ripresa sia effimera, e che quel poco guadagno che si intravede non basti a garantire, nel medio lungo periodo, nuove assunzioni. E allora si preferisce aumentare qualche ora di straordinario, qualche ora a nero, a scapito di garanzie, controlli e soprattutto opportunità per quelli che sono fuori dal circuito del lavoro.

E ciò è più vero in un Paese in cui il tessuto produttivo è fatto da micro piccole imprese, forza e maledizione del nostro sviluppo.

A questi tanti imprenditori, poco si può rinfacciare in molti casi. Chi se la sente di accusarli di non investire in nuovo lavoro oggi? Ci sono certo quelli che han preferito non reinvestire l’utile in ditta e si sono innalzati nella scala della Mole, cambiando il SUV o la casa al mare, ma ci sono tanti che hanno acceso l’ennesimo fido in banca per pagare gli stipendi e usano la ripresa per estinguerlo.

Il punto dovrebbe essere di sistema, di capacità di fornire servizi comuni alle piccole imprese, di garantire loro credito, innovazione, ricerca e internazionalizzazione. Di fornire loro opportunità per crescere, magari vincolando questa loro crescita a nuova occupazione e nuovo reddito.

Accanto a questo sarebbe necessario che si risolvessero quei problemi strutturali che oggi rendono non convenienti gli investimenti, in modo magari anche da non essere costretti al “bere o affogare” dell’unico che parla di investire in Italia e cioè Marchionne. Insomma invece di fare il tifo tra Marchionne o la FIOM sarebbe più utile che si risolvessero i veri impedimenti agli investimenti: legislazione, giustizia, infrastrutture e tasse.

Non si sarebbe più costretti a discutere tra investimenti e diritti, ma si potrebbe finalmente rispondere ai bisogni e alle opportunità.