Tanti auguri di buona Pasqua, comunque la vogliare festeggiare,
Michele
Dal Nuovo Corriere di Firenze del 21 aprile 2011
L’Ungheria e la Finlandia, paesi a primo avviso che più distanti non si può, sono invece legati dal medesimo ceppo linguistico: quello ugrofinnico per l’appunto. Una comunanza linguistica a cui in questi giorni si sono accomunate due vicende inquietanti e pericolose nella nostra Europa sempre più integrata e sempre più esplosiva. Da un lato l’ascesa dell’ultradestra finnica alle ultime elezioni e dall’altro la nuova costituzione magiara che rappresenta un pericoloso modello di contrazione della democrazia anche sul piano formale.
Il fenomeno finlandese non è nuovo, purtroppo. In molti paesi europei di fronte alle paure legate alla crisi economica e all’immigrazione, la risposta di chi soffia su queste paure e propone soluzioni drastiche e repressive dei problemi suscita un appeal verso l’elettorato spesso meno istruito e più povero. Un fenomeno già visto in Francia, Olanda e Germania e che ebbe nel governatore della Carinzia Haider un precedente anche per quanto riguarda la presenza e l’importanza nei governi nazionali degli stati. In Finlandia il partito di Timo Soini passa dal 4 al 19% divenendo fondamentale in ogni possibile combinazione governativa. Quello che colpisce è il momento in cui questa vittoria avviene, cioè quando è forte il riflusso dell’idea d’integrazione europea e la destra “classica” rischia di essere trascinata in una corsa al ritorno degli stati nazione, mentre la sinistra progressista e socialista, rimasta orfana di un modello vincente, stenta a ritrovare modi e valori con cui riproporsi all’elettorato, soprattutto popolare. Insomma c’è il rischio che i finlandesi possano fare da apripista, spostando l’asse della destra europea (al momento al governo quasi ovunque) verso un euroscetticismo o peggio un’ostilità piena verso Bruxelles fino alla disgregazione dell’Unione, soprattutto se la crisi richiederà sforzi ulteriori per salvare altri paesi dopo Grecia, Irlanda e Portograllo. Il fatto che tra questi paesi possa esserci l’Italia non dovrebbe farci trascurare la cosa.
Fa poi specie che sia il nord scandinavo, portato a modello da noi come IL modello progressista di riferimento, appena sia leggermente minacciato il proprio stile di vita e sviluppo faccia schizzare a doppia cifra partiti per cui la nostra lega nord pare un’accolita di moderati.
Il caso ungherese invece dice molto su come la democrazia sia un concetto in divenire. La nuova carta magiara, oltre ad essere permeata di un forte spirito confessionale, attua una distinzione di diritti tra i cittadini magiari e le minoranze etniche. Viene dunque meno uno dei cardini delle costituzioni democratiche come le conosciamo e riappaiono fantasmi in territori segnati nel secolo scorso profondamente dai conflitti etnici. Oltre a ciò la nuova costituzione segna limitazioni dei poteri di garanzia, primo su tutti quello della corte costituzionale, nei confronti dell’operato del governo e della maggioranza parlamentare. Un processo di accentramento di potere che si somma alla legge sulla libertà di stampa approvata nei mesi scorsi che limitava già fortemente un altro fondamentale potere di controllo.
Ben poco rassicurante pare essere la presenza di un complicatissimo sistema elettorale che dovrebbe impedire derive plebiscitarie e lo strapotere di un singolo partito, visto che le ultime elezioni hanno visto la creazione di un forte esecutivo di destra.
Se dunque sono questi i venti che spirano dal nord e dall’est europeo ci pare ancora più surreale il dibattito politico italiano tutto bloccato a discutere della riforma della giustizia per uno solo. Da parte delle forze progressiste invece sarebbe l’ora che si tornasse a porre al centro la patria europea e non l’Europa delle sole regole.
Dal Nuovo Corriere di Firenze del 14 aprile 2011.
Ben strano partito il PD. Passa da un segretario che imposta un’intera campagna elettorale sul fatto di non citare mai il nome del principale esponente dello schieramento avversario a un altro che chiede alla presidente di Confindustria, dopo che questa si è lamentata del fatto che la politica e il governo hanno lasciato sole le imprese e il Paese, di fare un passo avanti chiedendo non di appoggiare il centrosinistra e il PD ma di liberarsi di Berlusconi.
Chiariamo non mi ha colpito la proposta di per sé, peraltro immediatamente rigettata da Marcegaglia con due argomentazioni piuttosto convincenti: Confindustria si è spinta già oltre con la prima dichiarazione supplendo a un compito di altri (tra i quali l’opposizione stessa) e la dichiarazione era rivolta sì principalmente al governo ma più in generale alla politica tutta e anche al PD.
Se dunque la dichiarazione di Bersani interessa poco sul piano dei contenuti rischia di essere rivelatrice del punto minimo (e forse massimo) delle aspettative del PD in questo momento: va bene qualunque governo, anche senza il PD, purché a guidarlo non sia Berlusconi. Il che sarebbe piuttosto bizzarro per un segretario di un partito politico che dovrebbe volere la vittoria del proprio partito come bene primario e la sconfitta dell’avversario come conseguenza della sua vittoria e non come fine a sé stesso.
Insomma pare dire Bersani: non m’importa che vinca la Fiorentina basta che perda la Juventus. Un modo piuttosto minimo, mi sia concesso, di declinare quell’”oltre” che campeggia sui manifesti del PD, soprattutto se raffrontato al tanto lavoro di elaborazione che il partito di Bersani ha fatto e sta facendo sui punti e su un possibile programma di governo.
E dispiace vedere uno come Bersani che è l’immagine stessa della concretezza di governo del PD perdersi da quando è segretario in alchimie elettorali e antiberlusconismo a prescindere: una “roba”, come direbbe lui, che non sta in piedi.
Dal Nuovo Corriere di Firenze del 7 aprile 2011
Due sindaci due stili. Il primo è il Sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Come sindaco ha sempre costituito la città parte civile nei processi che si sono aperti e che riguardavano l’urbanistica. E lo ha fatto nonostante in quei processi fossero implicati ex amministratori, dirigenti e funzionari dello stesso comune. Una scelta di tutela della città, saggia, di fronte a ipotesi accusatorie che, se provate, dimostrerebbero un danno reale e pesante per la città. Naturalmente, giova sempre ricordarlo, i processi sono in corso ed è tutta da dimostrare la tesi accusatoria della procura come prevede saggiamente il codice.
L’altro sindaco è quell’Alemanno, riconquistatore per la destra del Comune di Roma, dopo i mandati di Rutelli e Veltroni. Ieri all’apertura del processo sugli appalti per i mondiali di nuoto il Comune di Roma non si è costituito parte civile. E ciononostante le ipotesi accusatorie della Procura romana parlino di diversi milioni di euro sottratti alle casse dello stesso comune. Anche in questo caso totale presunzione d’innocenza nei confronti dei 33 imputati, tuttavia ci si sarebbe potuti aspettare un principio di precauzione da parte del Comune e dei soldi dei suoi cittadini.
E non è la prima volta che il sindaco Alemanno non “schiera” la propria amministrazione al fianco della magistratura. Era accaduto per esempio nel processo contro Don Ruggero Conti condannato recentemente in primo grado a 15 anni e 4 mesi per abusi su sette minori. Parroco che si era molto speso nella campagna elettorale dello stesso sindaco.
Ecco, tra le piccole e grandi differenze di intendere e praticare il mestiere di Sindaco, c’è anche questa e non ci pare che sia una cosa da poco.
P.s. Oggi sono anche su Labouratorio 2.0 con una lettera aperta al segretario generale delle Nazioni Unite a cui chiedo di invadere l’Italia.
Dal Nuovo Corriere di Firenze del 31 marzo 2011
Cosa regalare a un uomo che ha praticamente tutto per il proprio compleanno? Una classica domanda che lunedì deve essere serpeggiata nella redazione de il Giornale in vista della ricorrenza del plurigovernatore della Lombardia Formigoni. Alla fine il giornale di proprietà del fratello del Presidente del Consiglio ha optato per una bella intervista, tuttavia non ha mandato un proprio inviato, magari di prestigio, al Pirellone, ma ha scelto di prendere l’intervista, immaginiamo prodotta dall’ufficio stampa dello stesso presidente, dallo stesso sito di Formigoni. Insomma l’apoteosi del marzulliano motto: “si faccia una domanda, si dia una risposta”.
E invece di domande da fare a Formigoni ce ne sarebbero state così tante. Dalla sua rielezione, in spregio se non alla lettera almeno allo spirito della normativa che vorrebbe il limite di due mandati per la carica di governatore regionale. Oppure la vicenda delle firme false, archiviata di fretta sul piano amministrativo, ma ancora pendente sul piano penale. Infine le dichiarazioni dello stesso governatore sull’intervento libico, giudicato troppo frettoloso. Una posizione “eretica” come la fu quella dello stesso Governatore ai tempi della guerra in Iraq.
Nulla di tutto questo troverete su il Giornale o sul sito del Presidente, così come mai queste domande furono poste, per esempio, nelle sue numerose partecipazioni nella tana del “nemico” Santoro. Una grazia di Stato che accompagna il governatore lombardo, anche nei rapporti con l’opposizione democratica, e fa prefigurare a qualcuno un suo prossimo futuro da dopo-Berlusconi. Il casto Formigoni, come lo chiama profeticamente Marco Pannella, pronto a far dimenticare i “turpi lupanari di Silvio”.
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Di seguito l’articolo completo pubblicato sul Nuovo Corriere di Firenze del 24 marzo 2011.
Quando era presidente Massimo D’Alema e l’Italia era impegnata sopra i cieli del Kossovo fu coniata l’espressione di difesa attiva, che faceva capire che i nostri aerei partecipavano ai bombardamenti ma in modo diverso a quello di altri Paesi. Con Berlusconi presidente si abbandonano i sofismi della lingua politica e si proclama un più spiccio “i nostri aerei sorvolano la Libia ma non bombardano”. In entrambi i casi sono parole che pesano, sia internamente che nei rapporti internazionali. All’interno suonano ipocrite, mistificatorie, e sicuramente ingenerose per quei professionisti che stanno rischiando la vita sopra i cieli di Tripoli mentre i loro connazionali si convincono che siano lì per voli di piacere. Una posizione che, peraltro, convince pochi, forse solo quel parlamentare PD che nei mesi della finanziaria chiedeva sul proprio profilo facebook di togliere soldi all’acquisto di aerei militari per destinarli alla scuola e poi nei giorni scorsi reclamava a gran voce, sulla solita pagina, l’avvio della no-fly zone. Sono parole che hanno a che fare con la costituzione materiale e formale del Paese. Dal punto di vista formale sono meccanismi che allontanano le decisioni del Parlamento e danno quasi carta bianca all’esecutivo non solo nella condotta delle azioni militari, che è sacrosanto, ma anche della loro legittimazione, dei confini e dei compiti di quell’azione stessa. Dicendo che non siamo in guerra o coinvolti in azioni militari dirette l’esecutivo scansa il dibattito parlamentare e si riserva aree in cui muoversi. Un meccanismo che esiste in altri ordinamenti, quello americano per esempio, dove il Presidente ha il potere di agire ma all’interno di meccanismi di controllo certi e per un periodo di tempo breve e limitato: poi deve comunque rendere conto al parlamento. Da noi, no. E il modo che il Parlamento ha per mettere bocca nelle “missioni di Pace” è quasi esclusivamente quello del finanziamento delle missioni stesse. Basti pensare che al momento i nostri aerei sorvolano un Paese formalmente a noi alleato in virtù di un vergognoso trattato di amicizia, non ancora sospeso o cancellato, di cui si preferisce non parlare visto che fu votato da tutti con l’eccezione di Radicali, UdC e due deputati PD. L’altro punto ha a che fare con la retorica di pace e col profondo sentimento “pacifista” che pervade l’opinione pubblica italiana, ed è qui che la cosa, a parere di chi scrive, si fa ancora più ipocrita. Io rispetto i pacifisti convinti e integrali, apprezzo meno chi impegna i propri soldati in missioni internazionali e poi le definisce missioni di pace, si fa bello in tv del fatto che i propri aerei sorvolano il campo nemico privi di armi come in Afghanistan (con peraltro un evidente controsenso economico visto quanto costa mantenere mezzi come quelli). L’Italia partecipa attualmente a missioni importanti e pericolose. I suoi soldati muoiono, il suo strumento militare è, con difficoltà, messo in grado di operare alla pari con quello degli altri paesi occidentali, i nostri militari partecipano e sono apprezzati dagli alleati, comandano altri contingenti eppure qua da noi continuano a essere dipinti come crocerossine col fucile. Una retorica che influisce anche nel ruolo internazionale del Paese e ne rende deboli, come accade in queste ore, le richieste di contare di più nella definizione di compiti e strategie degli interventi. Si ha un bel dire di voler dire la propria solo mettendo a disposizione la retrovia mentre sono gli altri a rischiare la pelle. Quello che accade in Libia in queste ore non è una scampagnata. Se si pensa, ed io lo penso, che fosse giusto e necessario intervenire militarmente si abbia il coraggio di dirlo e di rivendicarlo, si dia innanzitutto al Parlamento la possibilità di discuterne pubblicamente e con trasparenza e si dia ai cittadini la possibilità di conoscere e decidere.
Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 marzo 2011
Evviva l’Italia. Quella Liberata, quella da liberare. Evviva il nostro Paese, che indice una festa e ci mette tre mesi per decidere se di festa vera si tratti o di mera sottolineatura del calendario. Evviva il Paese che, come per i còrsi in Francia o i baschi in Spagna, quando suona l’inno vede i rappresentanti di quei territori uscire dalle aule. Peccato però che non stiano al governo e non esprimano il ministro dell’Interno. Evviva gli stessi ministri leghisti che come Moretti in Ecce Bombo s’interrogano se si notano di più se vanno o se non vanno alle celebrazioni di questo pomeriggio in parlamento. Evviva Silvio che fu ferito come Garibaldi. Evviva il suo cerottone-lenzuolo degno di un martire risorgimentale. Evviva pure il dibattito sul nucleare, quello sulla giustizia, quello sulla bioetica, il testamento biologico, l’aborto, le canne, la pena di morte e tutto quello di cui si dibatte e di cui poco si fa. Evviva il Paese che evade e quello che produce pagando le tasse. Evviva un Paese che al contrario di tutto e di tutti rimane una delle sette potenze economiche del mondo. Evviva il vincolo esterno per abbassare il rapporto debito Pil. Evviva un paese litigioso, ingegnoso, pieno di umanità e retorica. Evviva i tanti tricolori alle finestre, e quelli agli occhielli delle giacche di ex extraparlamentari di sinistra che trent’anni fa gridavano “uno, cento, mille, Vietnam”. Evviva l’Italia che si celebra e non ricorda, che rimuove il proprio passato coloniale, il ventennio fascista, che rimpiange la DC (anche in quelli che sempre trent’anni fa le auguravano diossina), che fa sfoggio di passato e poi nell’occasione del 150° non apre nessuna seria riflessione storica sul proprio passato e la propria identità. L’Italia dei Santi e soprattutto dei santini, quella che anche quando prega si affida all’intermediario piuttosto che al diretto interessato. Evviva un Paese anziano che però parla e mostra sempre giovani belli atletici e perfetti. Evviva i cervelli in fuga e quelli che, nonostante tutto, restano. Evviva l’Italia e soprattutto viva gli italiani.