Regala il DVD del Ciuffi per Natale

da questa settimana nei negozi Coop e Ipercoop di Firenze e provincia potete trovare la video intervista realizzata da Andrea Bruno Savelli al super tifoso viola Mario Ciuffi. La vita di Mario e le stagioni della fiorentina, dal primo scudetto a Prandelli, raccontate con la simpatia e le frustate di Mario Ciuffi. I momenti più divertenti delle sue trasmissioni, come la gentile contestazione della signora Franca, rivivono insieme ad aneddoti su campioni e brocchi che hanno indossato la maglia viole.

Con la Regia di Marco Cei e la produzione di Diogene Srl un regalo tutto viola da trovare sotto l’albero.

 

E’ arrivata la manovra, è arrivato il temporale…

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 8 dicembre 2011.

E’ arrivata la manovra, che è un po’ come la bufera che cantava Rascel, quella in cui c’è chi sta bene e chi sta male e chi sta come gli pare.  Nonostante il mantra “tecnico” del rigore e dell’equità anche questa volta, a naso, del primo ne vediamo molto della seconda qualche pezzetto, che è sempre meglio di niente sia chiaro, ma non consola così tanto quando si va a fare il pieno col gasolio aumentato di 11 centesimi. A meno che non si faccia come quel giornalista di sky tg24 che, proprio nel servizio dedicato all’aumento dei carburanti, definiva equa la misura perché colpisce tutti. Certo se si toglie 10 a chi ha 100 si è equi come se si toglie i soliti 10 a chi ha venti. Ma ci faccia il piacere avrebbe detto il Principe De Curtis. E forse un po’ più equi si sarebbe stati a chiedere qualche rinuncia anche a Santa Romana Chiesa, visti i tempi grami per le proprie pecorelle. Pare che persino Verdini, oltre ai soliti radicali, abbia posto il tema, mentre il PD tace e il governo dice che non ha avuto tempo di studiare. Che, se ci pensate bene, è fantastico un governo di professori, che usa la scusa più frequentemente utilizzata dagli scolari di tutto il mondo. Ma la Chiesa vive periodi difficili, va capita: c’è infatti a Prato un parroco che ha chiesto ai propri fedeli di consegnargli i propri “ninnoli” in argento per fonderli e fare un nuovo reliquiario per la sua parrocchia. Speriamo che nel frattempo, vista la crisi, i suoi parrocchiani non abbiano già impegnato tutti i gioielli di famiglia. Invece si è ancora in tempo per essere equi portando sino in fondo la riforma annunciata delle Province. Già perché la data prima anticipata di riforma delle giunte e dei consigli provinciali, fissata al novembre dell’anno prossimo, è scomparsa dal testo del Decreto e rimandata ad un’ulteriore legge che dovrà definire i tempi. Un metodo molto spesso utilizzato per non far di nulla delle cose annunciate. Il senatore Ceccanti (PD) ha proposto di modificare in aula il decreto in corso di conversione inserendo il termine naturale delle consiliature provinciali per avviare la riforma. Una posizione di buonsenso che speriamo le forze politiche, da sempre a parole favorevoli addirittura all’abolizione delle province, voteranno

Come si smacchiano i giaguari in tedesco?

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 01 dicembre 2011

Fossi in Pierluigi Bersani inizierei a chiedermi come si dice “smacchiare la coda ai giaguari” in tedesco, perché come notava giorni fa un amico su facebook, non è un gran problema se i socialisti han perso in Spagna, potrebbero persino riconfermare Sarkozy in Francia ma il tema vero è come far vincere l’SPD in Germania. Già perché è in Germania che la crisi si è arenata e rischia di portare conseguenze ancora più grandi. In fondo sia noi che soprattutto la Grecia abbiamo patito conseguenze più dolorose anche perché in questo anno si è votato a più riprese nei lander tedeschi e la cancelliera Merkel ha subordinato spesso e volentieri decisioni relative al fondo salva stati e più in generale le politiche dell’Unione alle spicciole campagne elettorali interne.

Certo nessun governante è immune all’andamento elettorale casalingo in un sistema in cui la rappresentanza politica e democratica diretta dell’Unione semplicemente non esiste ed è demandata all’accordo degli Stati e troppo tardi ci accorgiamo di quanto avessero ragione quelli che di fronte alla proposta di Costituzione della UE profetizzavano che il non aver, allora, ceduto sovranità ad un Unione politica lo avremmo pagato caro.

Dunque il tema di come riportare al centro del dibattito l’europeismo e di cedere a istituzioni comuni democratiche ed elette direttamente, pezzi di sovranità politica, economica e fiscalità è il tema di una possibile via di uscita dalla crisi che non sia l’imbarbarimento, la fine dell’Euro e quel che appare ancora più temibile il ritorno alle Patrie alle loro alleanze e ai loro interessi confliggenti.

In Germania, anche per il peso ingombrante della propria storia nel XX secolo, l’europeismo è stato un tratto comune delle forze democratiche, spesso anzi più marcatamente evidente nel campo democristiano che in quello socialdemocratico. Oggi non solo il governo Merkel ma l’intera società tedesca avverte come meno importante il legame europeo. Lo provano le molte discussioni alla corte costituzionale sui vincoli esterni alla legislazione di Berlino e i dibattiti sempre più manifesti sulla creazione di un Euro forte che abbandoni i paesi fuori dell’influenza tedesca. Un dibattito che ha ragioni più culturali e politiche che economiche visto che la Germania ha soltanto beneficiato finora dell’unione monetaria e che Berlino esporta nell’area Euro più di chiunque altro al mondo.

Se vogliamo bene all’Europa e anche, di conseguenza al nostro Paese, forse ci dovremo attrezzare a pensare più che alle nostre perenni (e sempre più ininfluenti) campagne elettorali a quella tedesca e fare il tifo perché prevalgano quelle forze, SPD su tutte, che spingono per un una Unione Europea più forte e più democratica.

Non basta Monti per calmare i mercati

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 25 novembre 2011

Il governo apotropaico, il governo amuleto, non c’è. Noi relativisti ne eravamo certi ma oggi probabilmente ne avranno la conferma anche quelli che parlavano (o meglio scrivevano su un bigliettino) di miracolo. Perché il governo Monti in sella già da un po’ di giorni  non ha, per la sola sua presenza, calmato i mercati, abbassato lo spread e fatto crollare il rendimento dei nostri BOT come del resto non avrebbe potuto aprire le acque del Mar Rosso e fatto transitare il suo popolo fuori dall’Egitto. Sono azioni, le prime come la seconda, che si adattano ai profeti non certo ai professori. Dunque il governo Monti e l’intero Paese saranno giudicati per le politiche e le azioni che metteranno in campo e non tanto per la sola presentabilità dei nostri governanti; e non importa un fico secco a chi di numeri vive sapere che il governo sia composto da ottimi accademici piuttosto che da improbabili politici. Certo ne trarranno vantaggio le conversazioni ma i gelidi mercati contano i numeri e non la cultura. Peraltro, sia detto per inciso, solo da noi si confondono i tecnici con gli accademici e solo da noi, disabituati da quasi sempre a vedere la competenza al governo, il fatto di avere gente preparata nei dicasteri viene visto come un fatto nuovo e straordinario.  Quello che attende Monti è la stessa prova che attendeva Berlusconi conciliare rigore e crescita: infatti al fine che la riduzione dell’enorme debito pubblico sia davvero possibile non basta razziare denaro da nuove imposte e balzelli ma occorre anche che il paese ricominci a muoversi (se non a correre) generando ricchezza (tassabile) e occupazione. Se tutto questo è vero, le prime misure che trapelano del nuovo esecutivo, paiono andare nella direzione del rigore piuttosto che in quella dello sviluppo: aumento ulteriore dell’IVA, ICI, possibile patrimoniale, sono misure atte a drenare risorse e, sia detto col massimo rispetto, almeno la prima misura ha poco o punto a che fare con l’equità sociale visto che colpisce molto di più chi ha meno.  Però il governo Monti ha parlato sempre finora di pacchetti di misure e quindi crediamo e speriamo che insieme (e non successivamente) a queste misure siano messe in campo anche azioni come la diminuzione della pressione fiscale su lavoro e redditi reinvestiti o sulla ricerca (vera) in modo da compensare almeno in  parte sia gli imprenditori, che soprattutto i lavoratori. Lo scambio, come paventa qualcuno, tra misure draconiane in economia e diritti civili (cittadinanza agli immigrati e diritto di voto, dico, ecc..) potrebbe forse funzionare sull’opinione pubblica interna e sui ritorni elettorali dei singoli partiti ma, dubitiamo, che avrebbe lo stesso effetto su mercati, economia e soprattutto sui nostri conti.

Le debolezze dei partiti sono la forza di Monti

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 novembre 2011.

C’eravamo raccontati che tra i tanti mali del porcellum questi aveva avuto almeno il merito di semplificare di molto la presenza dei partiti in parlamento. In realtà le interminabili consultazioni che hanno portato alla nascita del governo Monti hanno mostrato che la frammentazione del sistema politico era solo nascosta non scomparsa.

In fondo tutto questo avviene anche in sistemi più maturi del nostro, persino nella patria del bipolarismo come la Gran Bretagna i tre principali partiti al loro interno rappresentano istanze e particolarismi i più vari, tuttavia sono istanze e reti d’interessi territoriali legati al collegio in cui il parlamentare viene eletto mentre da noi sia ha qualcosa di più dell’impressione che gli interessi rappresentati da questi minuscoli gruppi siano quelli degli stessi soggetti coinvolti o al massimo dei loro parenti e sodali.

Così abbiamo visto salire al Quirinale o a Palazzo Giustiniani improbabili referenti di altrettanto improbabili partiti politici. Tra gli altri Riccardo Nencini, caso assolutamente diverso sia chiaro, che grazie al passaggio all’ultimo tuffo di Vizzini dal PdL alla componente socialista nel gruppo misto, è potuto recarsi a Roma ed essere audito. Va dato atto al segretario del PSI che almeno si è presentato a Monti con un edizione del Boccaccio ma non del Decamerone, come invece avrebbe forse apprezzato il predecessore, ma dei trattati geografici, per aiutarlo a trovare il cammino.

Altro tenore devono aver avuto le consultazioni dei gruppi meridionalisti provenienti dal PdL i quali, probabilmente non sapendo che dire, hanno segnalato la necessità, al candidato allora incaricato, di inserire ministri meridionali nel prossimo governo. Pare che il professore abbia risposto loro, mantenendo la solita flemma, “aspettavo voi…”.

Un cambio di stile che prelude a un cambio di sostanza come dimostra la scelta dei ministri, di sicuro Monti sa bene che i veti dei partiti più grandi rappresentano un problema e un anticipazione delle difficoltà parlamentari che il suo governo potrebbe incontrare. Ma sono anche un elemento da cui potrà trarre forza giocando sulle divisioni e le fratture interne agli stessi due principali partiti. Infatti da un lato il PdL appare in grosse difficoltà e pare avere come unico collante il solito Berlusconi, quasi costretto suo malgrado e non potersi ritirare, dall’altra parte il PD ha dimostrato in questa vicenda di non aver un nome interno del profilo tecnico che mettesse d’accordo le anime interne oltre una pregiudiziale, nel caso di Amato, contro quei riformisti che non vengono dalla due anime principali del PD. Problemi di lungo periodo che scorreranno talvolta sottotraccia, talvolta in modo evidente nel corso della tortuosa avventura del governo Monti che va a cominciare.

Giocare la tripla sull’esito della crisi

Dal Nuovo Corriere del 10 novembre 2011

Risolto il problema Mihajlovic e arrivato Delio Rossi l’argomento di conversazione preferito, almeno  nel bar sotto casa mia, è “ma icche fa i’Renzi?” domanda speculare e complementare a quella su cosa succederà a Roma e al governo.

Premesso che dare una risposta in queste ore equivale a giocare la buona e vecchia tripla al totocalcio, tutti gli scenari sembrano plausibili dopo il voto e la salita al colle di ieri di Berlusconi, anche perché le volontà in gioco sono molteplici, contrastanti tra loro e soprattutto mutevoli. Certo a leggere la bella intervista del direttore de La Stampa a Berlusconi ieri si sarebbe tentati a pensare che le elezioni a febbraio siano possibili se non probabili e per di più con Angelino Alfano candidato premier del centro destra. Tuttavia le pressioni di molti, partiti, interessi, istituzioni internazionali, sembrano spingere con forza per una soluzione tecnica in grado di intervenire drasticamente sulla situazione economica e sui conti pubblici. Di certo posticipando la sua uscita di scena dopo l’approvazione della legge di stabilità Berlusconi ha di nuovo preso in mano il boccino dei tempi e dei modi della crisi, riprendendo l’iniziativa che i “traditori” gli avevano soffiato e lo ha fatto prospettando a Napolitano, in caso di dimissioni immediate, una crisi al buio, lunga e dagli esiti incerti che sarebbe stata fatale per il Paese nella turbolenza dei mercati.

In casa PD non pare davvero chiaro quale sia l’interesse prevalente, persino nello stesso segretario Bersani che parla (e pensiamo convintamente) di governo di larghe intese ma che probabilmente, se dovesse guardare al suo tornaconto, preferirebbe elezioni immediate che potrebbero consentirgli o di saltare eventuali primarie o di non consentire ai possibili comptetitor, interni ed esterni, di recuperare quel margine di vantaggio che ogni sondaggio gli accredita. Diversamente l’appoggio ad un governo “lacrime e sangue” lo esporrebbe alla critica di chi, da fuori, potrebbe predicare ogni giorno da posizioni non esposte. Se un minimo conosciamo Bersani sappiamo che l’interesse personale non prevarrà mai di fronte all’interesse generale (o almeno in quello che egli ritiene tale) e che dunque le scelte che farà il PD saranno dettata solo da questo pensiero. Tuttavia un buon dirigente deve tenere presente gli scenari futuri e pare che, in casa PD, molti pensino che, in caso di governo tecnico, sarà necessario far succedere a Bersani un altro candidato per la corsa alle primarie future.

Dunque per tornare alla domanda del bar sotto casa, è probabile che Renzi starà a guardare, pronto a tutti gli scenari anche ad una candidatura contro Bersani in improbabili primarie natalizia, ma con una (non tanto) segreta predilezione per uno scenario di transizione e di logoramento

L’assalto al cielo che parte dalla Leopolda

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 novembre 2011.

Nel caso di Matteo Renzi, per Pierluigi Bersani, la paura fa ’80. Come gli anni 80 evocati dal segretario del PD in risposta all’adunata renziana di Firenze. Sgombriamo subito il campo, Bersani non ce l’aveva certo contro Duran Duran o Spandau Ballett, ma piuttosto verso il decennio dell’affermazione neoliberista nel mondo e di Craxi nella sinistra italiana. Un tabù che si pensava superato dopo l’apertura che fece l’allora segretario DS Fassino e che invece rimane come anatema assoluto da scagliare verso il nemico di turno. Un anatema che, nella migliore tradizione inquisitoria, della “bestia” cela persino il nome.

Ma almeno Bersani ha, come scusante, di aver pronunciato quell’anatema quando ancora il big-bang non aveva prodotto i cento punti, che, una volta letti, possono tranquillizzare chi vive come un’ossessione quella stagione di riformismo e d’innovazione del paese e ne vede tracce dappertutto  anche laddove, come in questo caso, non ve ne sono.

Perché intanto i cento punti di Renzi non sono affatto un programma di governo. E c’entra poco la vocazione wiki (un programma che si crea in rete grazie all’apporto di tutti) ma piuttosto lo scopo che i cento punti e la Leopolda II hanno. E lo scopo di Renzi non è, al momento, quello di proporsi al governo del Paese piuttosto quello di ottenere primarie libere e conseguentemente vincerle.

Non occorre quindi accanirsi contro la disomogeneità delle proposte, la vaghezza di molte e in alcuni casi il fatto che quelle cose o sono state fatte o sono in contrasto con altre proposte. A Renzi non interessa un‘idea di Paese da governare, interessa un’offerta in cui tutti, o almeno molti, possano riconoscersi e prendere un pezzettino all’interno del supermarket della contemporaneità che rappresenta (splendida definizione di Stefano Menichini direttore di Europa).

Questo è lo scopo celato sotto il “tocca a te” vergato da Edoardo Nesi: tocca a te scegliermi perché le mie 100 offerte sono lì  belle e colorate. Come lo erano quelle per i Fiorentini, cambia la scala non il marketing. Così come il frigorifero SMEG in bella posta sul palco, oggetto comune ma in versione trendy, riconoscibile a tutti ma desiderabile nel suo essere come quello che abbiamo in casa ma meglio.

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Cosa va in onda nel Pd.

 

Da Il Nuovo Corriere di Firenze del 27 ottobre 2011

 Se per capire cosa accade nel PdL forse sarebbe necessario affidarsi ad una negromante, per capire cosa accade nel Pd è forse più utile un esperto di televisione. Sarà per questo che tra i nuovi spin doctor di Matteo Renzi nella preparazione del big bang appare anche Giorgio Gori artefice della stagione più innovativa delle reti Mediaset che coincise, casualmente, anche all’apice del berlusconismo politico.

Ma torniamo al PD e al suo “palinsesto”. Da parte del leader Bersani è andato in onda nelle settimane scorse “il festival dell PD”, format classico, rassicurate che come il festival di San Remo è lì da sempre a tranquillizzare nonne e nipoti del passare del tempo. Magari non avvincente come una volta ma con un suo fascino. L’edizione del festival che si è vista al palazzo dei Congressi di Firenze non si è smentita, tra nuove proposte e big che calcano le scene da anni, riproponendo un  repertorio gradevole di facile ascolto e lettura. Poi, proprio come al festival dei fiori, quelli che han parlato vengono tutti, come i conduttori delle ultime edizioni del festival, dalla medesima scuderia, nel caso fiorentino quella dei DS. Immaginiamo che qualche problema a catturare l’audience, pardon l’elettorato, ex margherita questo lo ponga, ma non paiono curarsene troppo dalle parti del PD fiorentino.

Sabato e domenica scorsa invece è andato in onda lo spin-off della Leopolda dello scorso anno. Uno dei due protagonisti, Civati, un nuovo cast “giovane” e qualche guest star dai passati fasti a tentare di rivitalizzare un serial che partiva, nelle premesse, un po’ moscio. Ma si sa che gli spin-off (le serie che partono da una serie di successo sviluppandone temi o personaggi) sono difficilmente apprezzati dal pubblico salvo casi rari come quelli di CSI. In questo caso i due protagonisti Civati Serracchiani han tentato di “italianizzare” il format americano alla Renzi e han giocato la carta Rosy Bindi in una specie di Cameo alla Joan Collins, la cattiva di Dinasty, per attrarre pubblici anche un po’ attempati.

Che dire poi invece del sequel che andrà in onda questo fine settimana a Firenze? Stessa location intanto, la Leopolda, e format che ancora più della prima edizione punterà sul one man show, nonostante lui, la star, si spertichi nel dire che si tratta di un lavoro di squadra. Un atteggiamento che ricorda quello, rimanendo nel paragone televisivo, di Paolo Bonolis che non dimentica mai di parlare di squadra e poi occupa il video concedendo spazio solo al povero Laurenti, maschera utile a risaltarne le qualità e persino la magnanimità. In contemporanea, proprio come nelle controprogrammazioni televisive, la ditta Bersani mette in scena un appuntamento napoletano che forse vuole rincorrere i successi di “un posto al sole”.

Infine gli ultimi arrivati: i giovani curdi. Ci sia concesso ma al momento ci sembrano uno di quei programmi di nicchia che vanno in onda a tarda notte su Rai 3. Interessantissimi magari se il sonno o la noia non via hanno già portato su altri canali.

L’impietoso rito dell’analisi del voto

 

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 20 ottobre 2011.

Quando una vita fa facevo il giovane dirigente (e vabbé) politico una delle cose a cui ci insegnavano di dare più attenzione era l’analisi del voto. Rito pseudoscentifico che si compiva dopo ogni elezione, dunque molto spesso, in cui qualcuno ci spiegava, sulla base dei duri numeri, cosa era andato storto e cosa era andato bene, e dunque come modificare l’agire politico per essere più efficaci. Naturalmente ad ogni analisi gli errori erano sempre più o meno gli stessi segno che, evidentemente, tra un’elezione e l’altra non seguivamo molti di quei consigli. Deve essere per questo che oggi neanche più si aspetta la conta dei numeri per rilasciare dichiarazioni e dire le proprie verità sui risultati elettorali così come viene.

Non sfugge a questa “regola” neanche l’elezione in Molise. E dire che la prima analisi dei numeri dell’istituto Cattaneo (da cui riprendo le cifre di questo articolo) erano disponibili in contemporanea alle prime dichiarazioni dei nostri esponenti politici.

Proviamo ad andare con ordine. Tra i primi a dichiarare il Presidente della Regione Enrico Rossi che ha affermato che la colpa della sconfitta era da attribuirsi non solo ai grillini ma anche al fatto di aver scelto un candidato presidente troppo moderato. Ecco a giudicare dai dati questa analisi pare piuttosto deboluccia, almeno come gradimento degli elettori: il povero Frattura, di cui francamente ignoro la moderazione o il radicalismo, il suo l’avrebbe fatto guadagnando rispetto al suo schieramento un più 5,7% a differenza del vincitore Iorio che ha svolto la funzione di handicap rispetto al suo schieramento con un meno 9,4%.

Ma anche la vulgata, maggioritaria ed autoassolutoria, dei grillini responsabili della sconfitta lascia un po’ perplessi di fronte ai duri numeri. Il PD in Molise rispetto alle politiche del 2008 perde il 49,8% dei voti e l’Idv il 70,9%. Ben oltre i 10.000 voti presi dai grillini.

La sommatoria dei due dati, voto disgiunto e voti ai partiti, dimostra che il problema principale è stata proprio l’offerta politica del centrosinistra a non convincere gli elettori molisani che puniscono molto di più il centrosinistra che il centrodestra. Infatti nel momento più basso del berlusconismo il PdL perde, rispetto al 2006 23.787 voti con il PD che però ne perde ben 28.842.

Una causa tra le tante? Beh ecco, a modesto parere di chi scrive, dare un occhiata alle liste del PD aiuta. Non conosco nessuno dei candidati ma un dato balza all’occhio: nelle due circoscrizioni elettorali il PD ha candidato una sola donna. Una. In barba al proprio statuto, alla logica e al buon senso. Pensare di attirare in questo modo l’elettorato femminile e quello più politicamente “maturo” è, ad esser buoni, un suicidio neanche troppo assistito.

Se dunque il rito trito e ritrito dell’analisi del voto non va più di moda, cosa che ci può pure stare,  pare che le geniali strategie delle alleanze siano egualmente efficaci nel perpetrare i medesimi errori.