Perchè Sanremo è Sanremo.

 

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 16 febbraio 2012.

L’immagine di un Paese la si coglie anche nelle sue manifestazioni, nel suo apparire. In questo senso il Festival di Sanremo è stato per lungo tempo l’immagine dell’Italia democristiana e rassicurante. Non certo uno spaccato sociologico del Paese, piuttosto una rappresentazione scenica di quello che, la classe dirigente italiana al potere, avrebbe voluto che il Paese fosse. Retorica, buoni sentimenti, poca politica, un po’ di impegno sociale e qualche guitto (cantante o ospite) a far divertire sovrani e popolo. Dunque una celebrazione di un modello piuttosto che una fotografia dell’Italia che cambia. Se dunque questo era il tema e lo scopo del festiva dei fiori, la prima puntata andata in onda martedì, preoccupa alquanto. Televisivamente parlando uno spettacolo senza tempi, senza professionalità, con microfoni aperti sempre troppo presto e chiusi troppo tardi, vallette di rimpiazzo più fuori luogo del solito e una scrittura che tendeva al turpiloquio e all’eccesso (inteso come troppo parlare) anche senza l’intervento di Celentanoo l’incapacità di votare le canzoni che poi dovrebbe essere il cuore della manifestazione. Per non parlare delle canzoni stesse. Aldilà dei gusti personali e musicali, non c’era un testo non dico votato all’ottimismo ma almeno una vecchia rima cuore, sole, amore. Crisi, disoccupazione, Spiritualità, Dio e religione tanto per citare qualche tema comune a molti cantanti. Nemmeno si fosse al Tenco, piuttosto che a Sanremo. Inutile parlare di Celentano e il suo sermone, come notava Massimo Bordin, trattandosi di deliri non vale nemmeno la pena commentarli.

 

L’olimpiade romana

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 febbraio 2012.

Dubitiamo sinceramente che per scaldare il cuore di Monti, affinché appoggi la candidatura alle Olimpiadi di Roma del 2020, l’appello degli sportivi italiani sia la mossa giusta. Nella costruzione dell’immagine rassicurante del professore che si prende cura del Paese ci è stato fornita ogni tipo di informazione su Monti, la sua famiglia, i suoi gusti; persino quelli alimentari e in quali negozi si rifornisca la signora Monti per il cenone di Capodanno. Dei gusti sportivi invece sappiamo molto poco, solo, per esempio, che sia “moderatamente” rossonero.  Tuttavia aldilà di appelli e interessi del mondo sportivo (e imprenditoriale) il tema delle Olimpiadi a Roma può essere una cartina di tornasole di questo Paese e della sua (in)capacità di programmarsi e pensarsi. Certo nei giorni in cui la capitale è stata messa in ginocchio da una nevicata (dopo esserlo stata per un nubifragio) e in cui il Paese discute se riuscirà o meno ad evitare il default ed uscire da una crisi sistemica, il dibattito potrebbe anche non iniziare. Se proviamo ad astrarci però possiamo considerare l’evento Olimpico (come i grandi eventi sportivi) come un motore di sviluppo e un motivatore di cambiamenti incredibile. Negli anni novanta, nella stagione della pianificazione strategica degli enti locali, la finalizzazione di una trasformazione, della vocazione e della struttura di una città, veniva aiutata dall’obbiettivo di una grande occasione sportiva. Il caso di Torino e le sue olimpiadi invernali è il massimo esempio di questa stagione. Una città che si scopre post-industriale e ripensa sé stessa e finalizza la sua trasformazione prima all’aggiudicarsi, poi a gestire giochi i olimpici e le trasformazioni successive a questi. Ecco perché Manchester, impossibilitata a richiedere olimpiadi, fece di tutto per ospitare almeno i giochi del Commonwealth. Dunque più che l’investimento economico e urbanistico immediato i giochi erano pensati come occasione di investimento culturale, sociale e amministrativo. Giochi che quindi celebrano un Paese e una città che sono stati in grado di pensarsi, trasformarsi e gestirsi. Come sarà per Londra alla fine del decennio della cool Britannia o ancor di più per il Brasile potenza economica mondiale. Altrimenti risultano essere un disastro e non è un caso se nella periodizzazione del declino greco quasi tutti gli osservatori datino l’inizio della fine proprio con le Olimpiadi ad Atene. Il punto che dovrebbe farci considerare dunque l’olimpiade di Roma è  se questo Paese non sia soltanto in grado di costruire faraoinici impianti sportivi ma anche di costruire un futuro a sé stesso, in cui aldilà di quello che raccontava De Coubertin l’importante non è tanto partecipare, ma vincere.

Come la neve fa cantare Renzi fuori dal coro della comunicazione

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 febbraio 2012.

Alla fine la neve è arrivata. Poca o tanta dipende da quale prospettiva la si guardi: seguendo la nevicata sui social media pareva che fosse in corso una “tormenta” (come twittava un autorevole amministratore cittadino), con stoici inviati di testate importanti costretti ad una notte in bianco per seguire i lavori di pulitura strade. A guardarla dalla finestra di casa ci pareva una nevicata come ne capita ogni tanto d’inverno. Detto questo va premesso che la macchina del Comune e della protezione civile ha consentito di minimizzare i disagi e liberato le strade garantendo la viabilità verso scuole e luoghi di lavoro, in città ma anche nell’hinterland. Quello che però interessa qui è la gestione della comunicazione dell’evento, con la creazione e l’amplificazione di un effetto “ansia” già presente dopo la nevicata di due anni fa e il disastro organizzativo di quell’evento. Certo a muovere gli amministratori pubblici c’era quel principio di precauzione che declinato alla fiorentina recita più o meno “meglio aver paura che buscarne”, più che comprensibile certo ma che riflette, almeno nel caso del primo cittadino fiorentino, anche un modello comunicativo fatto di enfasi, sovrapposizione tra comunicazione personale e comunicazione istituzionale e sovraesposizione di messaggi e informazioni, effimere o per la natura del media da cui si lanciano o per la durata del messaggio prima che ne arrivi un altro. Non sta a noi dire se questo tipo di comunicazione sia o meno efficace (dipende molto dallo scopo naturalmente)  ma ci pare utile sottolinearne la differenza rispetto a un modello comunicativo nazionale che, negli ultimi mesi, è profondamente cambiato. Insomma non sono più i mesi (e gli anni) di Berlusconi con la sua roboante presenza e ingombranza, tempi in cui Renzi pareva l’unico del centrosinistra a cantare intonato al mainstream comunicativo plasmato dal Cavaliere. Nell’era della sobrietà di Monti, l’effetto è quello di una voce dissonante (non per questo sia chiaro meno affascinante). Monti non sovrappone la propria comunicazione personale (anzi  non ne ha proprio) con quella del governo. Non ha account twitter o facebook, parla attraverso i canali istituzionali o in conferenze stampa fiume che hanno l’aspetto (e il rigore) di lezioni universitarie, humor compreso ma che manifestano un rapporto adulto col cittadino, messo nella condizione non solo di essere informato ma di poter capire quanto comunicato. Certo non è esente da scivoloni, come la pagina alla nordcoreana con gli estratti delle lettere al premier con la bambina che lo chiama nonno Mario.  Tuttavia siamo di fronte ad uno stile diverso che sembra essere molto meno presente sui media (poi in realtà questo governo parla un sacco), improntato a un meneghino spirito del fare, del far sapere senza però farci romanzi sopra. Dunque nel riposizionamento in corso da parte di Matteo Renzi paiono cambiate molte cose (la tempistica, l’attenzione dal nazionale al locale, una propensione a parlare di ciò che fa qui piuttosto di quello che farà per il Paese) ma non l’irruenza comunicativa, una scommessa precisa nei confronti della sobrietà dei professori.

Lo Stato “sfigato” che non paga le ditte.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 26 gennaio 2012.

180 giorni, 6 mesi. Il tempo che passa tra la befana e il due giugno. Si fa in tempo a vedere la neve e a fare i primi bagni. E’ il tempo che, in media, occorre alla pubblica amministrazione italiana per pagare le ditte o i professionisti che hanno lavorato per lei. E parliamo di dato medio, che è quindi fatto dei trenta giorni del comune virtuoso ma anche dei più di due anni che ci sono voluti ad una cooperativa sociale per farsi pagare da una ASL campana. Nel frattempo l’imprenditore ha emesso fattura (non si lavora a nero per lo Stato) e pagato l’IVA, gli stipendi e i contributi ai propri lavoratori. Ma ha fatto di più, ha svolto anche il lavoro di esattore delle tasse per lo Stato, svolgendo il compito di sostituto d’imposta e, per farlo, quasi certamente si è rivolto (pagando) a un professionista. Poi gli sarà pure capitato di pagare in ritardo qualcuno di questi tributi, il che può succedere quando non ti pagano, ed allora si sarà visto recapitare una bella cartella con spropositati tassi di interesse per il ritardato pagamento. Nel frattempo le banche anticipano sempre meno il credito e anzi spesso ti chiedono di rientrare: “sa c’è la crisi”. Non va molto meglio se l’imprenditore si trova a lavorare per conto di grandi gruppi industriali. Ormai i contratti prevedono di regola i pagamenti a 90 giorni, tre mesi. Senza interessi, naturalmente. Da lunedì, un parlamentare radicale,  Marco Beltrandi è in sciopero della fame per chiedere al governo Monti di approvare una legge di cui Beltrandi insieme al democratico Misiani è primo firmatario che chiede i pagamenti entro 60 gironi. Una legge proposta prima ma che recepisce o meglio anticipa una Direttiva Europea che chiede proprio questo. Il governo, attraverso il ministro Passera, ha detto che non aspetterà il termine previsto per dare attuazione alla Direttiva e cioè metà 2013; anche se è ben cosciente che ad oggi lo Stato non è in grado di onorare i propri creditori a meno di non creare ulteriore debito pubblico. Di certo però, e a somma zero per le casse dello Stato, potrebbe agire verso le grandi aziende. Rimane comunque necessario muoversi presto , ad oggi infatti , calcola il sole24ore, il 31% dei fallimenti è causato proprio nel ritardo dei pagamenti. Ditte quindi che potrebbero vantare un credito significativo e con creditori solvibili devono comunque chiudere mandando a casa i propri lavoratori perché ottengono pagamenti con tempi biblici. Parafrasando il sottosegretario Martone potremmo dire che ci pare sfigato uno Stato che non paga chi ha lavorato con lui.

I due polli di Renzi e De Magistris

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 19 gennaio 2012.

Tempi duri per i polli dei sondaggi, quei due pennuti che, secondo la famosa definizione di statistica, se io ho in sorte di mangiarne due e il mio vicino nessuno, le statistiche rilevano che ne abbiamo comunque mangiati uno a testa.

Indici, spread, serie annuali ormai segnano la nostra vita quotidiana e sono ormai argomento di conversazione comune come una volta lo erano il pressing, il fuorigioco o la moglie dell’arbitro. Dati che entrano e che escono (a proposito i CDS, le assicurazioni sul rischio di fallimento degli Stati che fine han fatto non li cita più nessuno?) che ci mettono di buono o cattivo umore e che ci fanno comunque sentire tutti un po’ esperti di economia, finanza.

Non bastasse l’interpretazione dei dati passati, ci si mettono anche i vaticinatori di futuro, le agenzie di rating, che svolgono l’ancestrale funzione assolta nei tempi antichi da oracoli e sacerdoti senza sgozzare capretti o interpretare il volo degli uccelli.

Infine mai vanno in pensione i sondaggi, che rilevano intenzioni di voto, percezioni e umori e che, tecnici o non tecnici al governo, affollano le agende e i pensieri dei nostri politici, tanto che molto spesso si è avuta l’impressione (e non solo quella) che fossero queste rilevazioni statistiche a campione a dettare l’agenda e a muovere le decisioni degli attori politici nazionali o locali. Ecco perché fa rumore la classifica del gradimento degli amministratori locali che ogni anno pubblica il sole 24 ore. Un’indagine che non rileva la qualità di un sindaco o presidente di regione o provincia ma solo il suo gradimento, categoria ben difficilmente quantificabile in numeri.

Spiegato quindi perché capita, come è capitato quest’anno, che il primo cittadino di Firenze, crolli dal primo al 51° posto di tale classifica. In termini calcistici un tonfo paragonabile soltanto a una retrocessione dalla finale di Champions alla terza divisione. Eppure se guardiamo l’azione amministrativa svolta nel 2011 da Renzi, non si scorgono, pur in presenza di una conflittualità sociale più elevata e di alcune decisioni meno condivise, azioni che per numero e portata dovrebbero evidenziare un tale tonfo. Se poi si gira per la città la popolarità del sindaco non appare crollata, per non parlare della stampa locale dove gode, seppur in maniera minore, di un’ottima popolarità.

Verrebbe quindi da pensare che o fossero troppo ben disposti con lui nell’anno passato i fiorentini intervistati o troppo astiosi quelli sondati quest’anno e che, in questo caso, non abbia digiunato Renzi nel 2011 lasciando a De Magistris i due polli, ma che comunque almeno una coscia l’abbia mangiata pure lui e che non avesse nel 2010 rischiato l’indigestione nemmeno lui.

L’arresto del deputato dopo i fochi.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 12 gennaio 2012.

L’autorizzazione all’arresto dei Parlamentari è una delle (tante) irrazionalità che popolano la giustizia italiana, figlia dell’ennesima legislazione fatta sulle emozioni piuttosto che sui ragionamenti e sulla coerenza. Infatti il nostro codice prevede l’arresto prima della sentenza soltanto in presenza di uno di tre casi concreti: pericolo di fuga, inquinamento delle prove e reiterazione del reato. Com’è comprensibile si tratta di tre situazioni che richiedono ai magistrati di agire piuttosto velocemente nei confronti dell’imputato.
Nel caso invece dell’autorizzazione all’arresto dei parlamentari passano settimane, anzi mesi, da quando il giudice emette l’ordinanza di arresto a quando l’aula decide. Mesi in cui l’imputato può scappare all’estero, far sparire prove compromettenti o continuare nelle azioni malavitose che gli vengono imputate. Certo non è colpa dei magistrati ma dei politici che nella stagione di mani pulite si tolsero l’immunità parlamentare ma decisero di mantenere qualche forma di salvaguardia in modo del tutto raffazzonato.
Dunque siamo di fronte a un paradosso che rende peraltro molto complicato il lavoro dei deputati che devono giudicare non l’imputato ma i giudici, cioè se esista nei confronti dell’imputato uno spirito di persecuzione da parte dei giudici e come non farsi assalire dal ragionevole dubbio che un procuratore, ben cosciente del tempo che intercorre tra richiesta e voto del Parlamento, non si stia muovendo sul pericoloso filo tra ricerca della verità giuridica e costruzione di un teorema accusatorio.  Se poi, come molte volte si tratta, la fattispecie di reato contestata è quella di concorso esterno in associazioni mafiose, reato non definito dal codice, la confusione aumenta a dismisura.
Ecco quindi che, nel caso Cosentino discusso l’altro giorno in commissione e che andrà in aula oggi, colpisce come la maggior parte delle attenzioni si siano incentrate sul voto del radicale Turco. Uno che ha studiato le carte, ha ragionato su queste e sul merito dell’inchiesta come è inevitabile fare se si deve accertare che i magistrati stiano o meno perseguendo il deputato e, alla fine, ha espresso un voto contrario all’arresto con motivazioni, che si possono o meno condividere, ma che sono tutte nel merito della questione.
Peraltro Turco ha sempre agito con questo metodo, addivenendo ogni volta a decisioni diverse di caso in caso. Stupiscono quindi reazioni del tipo “il solito radicale” (come se fosse un insulto e non un complimento) o tanta attenzione a chi, non ha fatto altro che il suo dovere. Ma stupisce anche la reazione dei radicali, subito pronti a definire “non determinante” il voto del proprio deputato, che è poi, in sedicesimo,  la stessa logica, perversa, che porta la Lega a decidere della libertà di un uomo in attesa di giudizio sulla base di conte interne tra correnti o al bisogno di rifarsi una verginità ora che sono all’opposizione.

Liberalizzare non vuol dire obbligare

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 gennaio 2012

Il presidente della Regione, Enrico Rossi, ha annunciato ricorso contro il provvedimento del governo Monti sulla liberalizzazione degli orari e delle aperture dei negozi. Il principio su cui si basa il ricorso è, probabilmente, fondato dato che il titolo V della Costituzione prevede la potestà regionale in materia; tuttavia le motivazioni politiche su cui giustifica quel ricorso, a parere di chi scrive, molto meno.
Infatti ci dice Rossi che la liberalizzazione obbligherà i commercianti a stare aperti sempre e andrà a danno dei piccoli esercenti contro i grandi gruppi. Il punto di fondo, sta in quel verbo: obbligare. Se una cosa dovrebbero fare le liberalizzazione è togliergli gli obblighi e lasciare facoltà al cittadino di scegliere. Dunque con la liberalizzazione i negozi dovrebbero poter decidere se essere aperti e, nel caso di attività a conduzione singola o familiare, questo sarebbe un problema che al massimo attiene all’organizzazione di quella famiglia. Caso diverso laddove esistono dipendenti e, in quel caso, non solo è ammessa ma necessaria la regolamentazione del pubblico non limitando le aperture ma consentendo condizioni economiche e lavorative eque e degne ai lavoratori, come rispetto dei turni e pagamento di straordinari. Su questo, dovrebbe concentrarsi l’azione di politica e sindacati, non nell’impedire l’apertura perché non si è in grado di controllare e garantire le condizioni dei lavoratori. C’è infine un soggetto che nella nostra discussione sul mercato del lavoro stenta sempre a inserirsi: il cittadino consumatore o utente. Come se nella nostra vita fossimo soltanto lavoratori o inoccupati o al massimo elettori, mai invece tutelati nella nostra funzione di consumatori/utenti. Dei nostri diritti di consumatori o della nostra convenienza o della nostra organizzazione di vita o familiare (con le ricadute per esempio sul traffico) si stenta sempre a prendere coscienza di fronte ai (sacrosanti) diritti dei lavoratori. Come se fossimo persone diverse.
Caso diverso, invece, la tutela dei giorni di festa. In quel caso l’azione limitante delle Istituzioni è, a mio avviso, necessaria. La costruzione infatti di uno Stato, di un sentimento di identità comunitaria, passa infatti anche da riti e simbolismi come sono appunto le feste. E’ così da millenni e mantenere insieme uno spirito comunitario è compito delle istituzioni. In quel caso la singola libertà è valore minore della libertà collettiva che si celebra (sia quella del lavoro, della Liberazione o di un sentimento religioso condiviso).
Infine, sia detto per inciso, ci si poteva risparmiare il richiamo alle autorità cattoliche. Come se in questo Paese il monopolio delle festività e del riposo sia appannaggio di un’unica tradizione religiosa, seppur maggioritaria. Come se i cittadini (da sempre) abituati a pregare di giorno lavorativo avessero ancor meno tutela di quelli che alla domenica vanno a messa.

Ma questi ricchi devono piangere o no?

Ieri Simone Siliani ha risposto, sulle colonne del Nuovo Corriere di Firenze al mio pezzo di giovedi (che potete leggere qui) con un’argomentato articolo in cui teorizza con molti argomenti a favore della redistribuzione della ricchezza. Apparentemente distanti i nostri punti di vista, sono (a scavare un po’) molto più vicini di quello che si pensi. Intanto però leggetevi il pezzo di Simone sul suo blog e buon anno a tutti.

Se non basta far piangere i ricchi (ammesso che piangano).

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 dicembre 2011.

Anche i ricchi piangono, a leggere le cronache di questi giorni sulla manovra Monti, pare essere un mantra consolatorio di una parte, non proprio piccola, del PD e del centrosinistra tutto. Un riflesso pavloviano di una certa sinistra, non soltanto italiana, che fece affermare diversi anni fa al leader socialdemocratico Olof Palme che il nemico da combattere non era la ricchezza ma la povertà.
Se questo rimane vero, forse il tema da affrontare con maggiore urgenza, per la sinistra italiana, dovrebbe essere quello non solo di come garantire ordine e funzionamento delle casse pubbliche, ma come si immettono elementi di redistribuzione del reddito e di eguaglianza (declinabile sia in termini di diritti che di opportunità) sia in termini generazionali che anche, vista la situazione, immediati di ripresa economica e riavvio di una società (non solo economicamente) bloccata.
E il fatto di non essere all’opposizione, ma neanche al governo, forse dovrebbe essere vista come una possibilità, da parte dei dirigenti del PD, per farsi venire qualche idea nuova, provare a portare a sintesi le posizioni (e le relative politiche) che convivono in quel partito.
Un po’ come provano a fare i laburisti inglesi di fronte a un report pubblicato nei giorni scorsi dal think thank di Peter Mandelson, blairiano di ferro e dunque “nemico” dell’attuale segretario Milliband.  Di fronte a un documento in cui si parla apertamente di riduzione delle tasse e di appropriarsi della politica fiscale dei conservatori non si è risposto sprezzantemente che si trattava di idee di una sparuta minoranza né, d’altro canto gli estensori del rapporto, si sono limitati a chiedere le dimissioni di Ed Balls, il responsabile economico del partito. No, si sono seduti intorno ad un tavolo e ne hanno discusso, intanto a porte chiuse. Tutto il contrario della prassi nostrana dove ci si parla spesso per comunicati stampa e soprattutto si sfiora la buccia delle cose senza mai andare al merito e ci si riempie spesso la bocca di slogan o modelli esterofili di cui neanche si sa il colore della copertina.
E non è un caso che l’unico quotidiano che ha dato notizia del documento laburista e del dibattito innescato da questo sia stato (almeno allo stato della mia conoscenza) il Foglio con Claudio Cerasa, mentre i quotidiani di centrosinsitra occupavano pagine su pagine nell’ennesimo scontro tra Fassina e qualche lib dem. Argomento che probabilmente appassiona poco anche i diretti congiunti dei contendenti.
Ma siccome non voglio essere accusato di far soltanto le punte ai lapis, come direbbe Bersani, per chi fosse interessato a capire un po’ come si può pensare qualcosa di diverso trova il report di cui parlavo all’indirizzowww.policy-network.net

Il razzista al nostro fianco

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 dicembre 2011.

Non so se ha senso disquisire della follia di Casseri, come quella di Breivik, o dei tanti, troppi, omicidi che popolano questo mondo. Di sicuro però ha senso ragionare, conoscere, estirpare, l’odio che li muove che ne nutre la follia omicida. Sia quell’odio organizzato, militante, di cui Casseri era espressione, sia quello latente che serpeggia in tanti cittadini comuni, che di Casa Pound conoscono l’esistenza solo per i manifesti che inzozzano i nostri muri. Ai primi, peraltro più facilmente rintracciabili, si risponde applicando le leggi che il nostro Stato si è dato a partire da quell’apologia di fascismo o alla legge Mancino oggetto di una rivisitazione culturale e politica nefasta negli ultimi anni. E’ di qualche anno fa la bella inchiesta di Paolo Berizzi Bande Nere (Bompiani 2009) in cui vengono descritte le decine di movimenti della nuova destra sempre meno legata ai vecchi miti del ventennio e molto più in grado di calarsi nelle realtà sociali delle nostre città, nell’odio che serpeggia, nel bisogno, umano e ancestrale, di trovare un nemico (di solito l’altro) a cui dare la colpa. Ed è indubbio che si è avvertito un lassismo nei confronti di questi movimenti, sia per sottovalutazione politica sia per una società civile non più adusa a pensarsi come una comunità, un tutto interdipendente. E’ in questo terreno che sorge il razzismo latente, quello di solito che ha in premessa espressioni come “io non sono razzista però…” oppure “io ho molti amici ebrei, gay, neri…” E anche le cronache dei giornali di ieri sono tristemente piene di queste espressioni. Dai commercianti di piazza Dalmazia (tra i quali segnala un amico barista qualcuno non ha avuto nemmeno il cuore di rispettare i 10 minuti di lutto cittadino) al consigliere regionale Donzelli (chi altro altrimenti?) che ha emesso un delirante comunicato in cui alla fine dava la colpa dei fatti di sangue di martedì ai senegalesi e alla sinistra che governa la città. Un comunicato in cui è assente una qualsiasi forma di pietas nei confronti di persone uccise in mezzo a una strada, una cassa di risonanza non certo ai facinorosi neonazisti (almeno lo speriamo nelle intenzioni) ma a quell’odio sordo del razzista che abita accanto a noi. Che, fortunatamente, non armerà la mano come Casseri ma sempre più tollererà e dimenticherà anche la violenza e l’odio. Ieri tutte le istituzioni, comprensibilmente, hanno dichiarato che Firenze non è razzista. Purtroppo non è così anche se ancora si tratta di minoranza ma non certo isolate, occorre allora agire e anche in fretta, con le armi della conoscenza e della giustizia.