Che fine ha fatto il cinepanettone?

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Il Natale è, anche un genere cinematografico. Inevitabile certo ma, per quanto riguarda il nostro Paese, piuttosto recente. In fondo Vacanze di Natale, il primo, è del 1983. Probabilmente nemmeno i fratelli Vanzina, potevano supporre che, proprio a partire da quell’occasione, sarebbe nato uno dei filoni più prolifici e contemporaneamente disprezzati, del cinema italiano: i cinepanettoni. Una miriade di Natale a Cortina, Miami, New York ed altre amene località di cui abbiamo perso il conto ma non la trama, essendo questa più o meno sempre la stessa, così come molti degli interpreti; uno su tutto l’inossidabile Cristian De Sica. Probabilmente per sadismo o cristiana espiazione, in questi giorni di festa, Sky ha dedicato al Natale un canale della sua offerta, in cui passavano, ossessivamente, queste pellicole. Ammettiamo che non siamo riusciti a guardare che pochi minuti delle varie pellicole, rimanendo però colpiti che aldilà della location e talvolta dei protagonisti, avresti potuto benissimo iniziare a seguire un Natale a Parigi, appisolarti per il troppo panettone, risvegliarti in India e proseguire la visione senza troppa difficoltà, come capita a chi per un periodo aveva una madre che seguiva Beautiful e si trova a riseguirlo causa fidanzata.

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Alla fine di un anno faticoso

microbn

L’anno non è ancora finito e già siamo stanchi. Eppure molte cose rimangono da fare per molti di noi in queste ultime settimane, tanto che a volte ci viene volgia di tifare per i Maya.

Tra le tante cose importanti che ognuno di noi ha da portare a termine in quest’ultimo scorcio di 2012 ne voglio ricordare una sola: la battaglia che Marco Pannella sta combattendo con il suo corpo per l’aministia, la giustizia e la libertà.

Lo fa per tutti noi, per primi per i carcerati, gli ultimi. Lo fa ricordando la visita di Giovanni Paolo II al Parlamento, i tanti sacerdoti che sono spesso gli unici, insieme al personale del carcere e della polizia penitenziaria, a dare conforto ad una umanità che anche quando colpevole non merita le condizioni inumane in cui si trova.

Carcere luogo di tortura senza torturatori, con il 40% dei detenuti in attesa di giudizio. Potenzialmente innocenti dunque e con 200.000 prescrizioni l’anno, una amnistia di classe, per chi si può permettere bravi avvocati.

Poi Pannella è un vecchio satrapo che sta sulle palle a tanti di voi, ma questo non vuol dire che le cose per cui lotta non siano giuste. Visto che molti di voi voteranno (magari si candideranno pure) alle primarie del PD e che più o meno tutti voteremo a febbraio per il prossimo parlamento, chiedetevi chi tra i partiti e i candidati potranno dedicare un po’ del loro tempo a questi temi.

Quest’anno per i miei auguri ho “rubato” una frase che il mio amico Mario Setti usa per concludere le sue mail “salta e la rete apparirà!”. E’ una frase che ci invita ad avere coraggio nelle nostre scelte. Pannella il suo salto lo ha fatto, la sua unica rete possibile siamo tutti noi.

Buon Natale e felice anno nuovo a tutti voi.

Michele

Sleeping Santa

Domani poi alle primarie che fai?

Come è probabilmente noto, non credo più nel progetto del PD da un po’ di anni. Non è questo il luogo e il momento per spiegare i tanti perché, ammesso che a qualcuno interessino ancora.

Tuttavia considero il centrosinistra il mio campo, la mia dimensione politica. Magari un centrosinistra più socialista e liberale ma tant’è. Fatto sta che quello che accade in questo campo mi interessa e in parte mi appartiene, come le primarie di domani.

Dicessi che domani si confrontano politici che mi rappresentano a pieno mentirei sapendo di mentire. Vedo rigurgiti di togliattismo e una chiusura verso la lettura storica, per esempio, del New Labour solo in funzione di contrasto all’avversario del momento che ricorda il marito che si taglia gli attributi per far dispetto alla moglie.

Oppure vedo un modo di far politica che è fatto di semplificazione, mezze verità, bisogno sempre di fare la frase ad effetto e nessuna attenzione alla consequenzialità di quello che si dice con quello che realmente si potrà fare o che importerà davvero fare. Una eterna rincorsa al più uno che ha l’impressione del movimento perenne e che invece, per me, è un eterno tapis roulant in cui si dura un sacco di fatica per rimanere fermi e in cui poi comandano sempre in meno e sempre i soliti.

Sarà come dice Marco Pannella che spesso si è costretti a scegliere tra “buoni a nulla contro capaci di tutto” ed io, istintivamente, provo simpatia per i primi piuttosto che per il secondo. Sarà perché sono un vecchio arnese della politica (il copyright nei miei confronti è di Graziano Cioni) e ho letto troppe volte il gattopardo soffermandomi su quella frase che dice il Principe di Salina: “noi fummo i gattopardi, i leoni. Chi verrà dopo di noi saranno le iene e gli sciacalletti; ma tutti, iene, leoni, gattopardi e sciacalletti si sentiranno il sale della terra”.

Insomma sarà per tutto questo e per qualcosa ancora che domani con tanti dubbi il mio voto andrà a Pierluigi Bersani.

 Poi da lunedì di nuovo a far le bucce a tutto e tutti. Ostinatamente libero.

 

 

Renzi, le primarie e l’Apocalisse.

Se Julian Castro, giovane sindaco di San Antonio, leader emergente dei democratici americani avesse annunciato che in una certa data avrebbe descritto le sue idee per il giorno del Giudizio, dubito che i media americani avrebbero dato alla notizia un’evidenza entusiastica e massiccia alla cosa o che avrebbero passato i mesi dall’annuncio alla manifestazione intervistando Castro e chiosandone ogni battuta. Al massimo Jay Leno avrebbe mostrato un fotomontaggio di Castro in barba bianca e cartello con scritto la fine è vicina o Letterman avrebbe inventato la classifica dei 10 modi di passare l’ultimo giorno dell’umanità con Julian Castro.

Eppure l’Apocalisse biblica è un evento a cui milioni di persone credono,  annunciato da un personaggio autorevole e titolato a farlo, l’evangelista Giovanni, e di cui abbiamo un’idea seppur sommaria dello svolgimento e molti anni di discussioni su tutto, compreso su come selezionare i partecipanti.

Oggi, mentre scrivo, la quasi totalità dei media italiani è a Verona ad ascoltare Matteo Renzi, giovane sindaco di Firenze, leader emergente dei democratici italiani, descrivere le sue idee per le primarie del PD, dopo che negli scorsi mesi gli stessi media hanno dato alla notizia un’evidenza entusiastica e massiccia e intervistato Renzi su ogni cosa e chiosato ogni sua battuta.

Eppure le Primarie del PD sono un evento a cui milioni di persone credono, annunciate da un personaggio autorevole e titolato a farlo, il segretario Bersani, e di cui abbiamo un’idea sommaria dello svolgimento e molti anni di discussioni su tutto, compreso su come selezionare i partecipanti.

Tutto questo per ricordarsi come la scelta di guardare il dito o la luna  dipenda ormai troppo spesso da cosa inquadrano le telecamere.

 

Se le banche non prestano, io do ragione alle banche.

Oggi mi sa che scriverò una cosa che non piacerà a molti. Perché oggi di fronte alla cacofonia di quelli che si indignano (uno degli stati umani più sterili ormai) di fronte alle banche che non farebbero il loro lavoro, non prestando soldi alle imprese, io, scusatemi, mi schiero dalla parte delle banche.

Perché non prestando soldi a imprese sempre più a rischio (questo dice il bollettino della BCE quando parla di insolvibilità delle imprese italiane) le banche fanno proprio il loro mestiere: tutelare il risparmio raccolto, cioè i nostri soldi.

Perché li vorrei vedere gli indignati se scoprissero che i loro risparmi non ci sono più perché la loro banca ha prestato soldi a imprese non in grado di onorare i prestiti.

Proprio la genesi di questa crisi sta nel fatto che le banche (americane ma non solo) hanno prestato a cani e porci senza alcuna garanzia o gonfiando il valore delle garanzie (mobiliari ma soprattutto immobiliari).

Di fronte a questo non ha senso urlare alle banche di fare credito all’impresa, peraltro dicendogli anche contemporaneamente di investire in titoli di stato per ridurre il famigerato spread. Come penso chiunque possa intuire essendo la capacità economica finita se i soldi li metti in bot non li presti.

Però, si dirà, la stretta sulle imprese è davvero ogni giorno più insopportabile. Vero, verissimo anzi. Ma non è il generico appello alle banche o il rappresentarle come la mefistotelica quint’essenza del male che risolverà il problema. Sia chiaro le banche hanno enormi responsabilità nella crisi e godono di enormi irresponsabilità nel pagarne i prezzi, ma rispetto al problema di come ridare ossigeno (soldi) alle imprese italiane non è intervenendo retoricamente sulle banche, a mio avviso, che si troverà la soluzione.

Cosa fare allora? Intanto le aziende italiane vantano crediti con le pubbliche amministrazioni o coi grandi gruppi industriali enormi. Passera aveva detto all’insediamento che sarebbe intervenuto. Finora si è fatto poco o niente e persino Alfano se n’è accorto e propone misure che da anni due deputati (un PD e un radicale) propongono all’aula di Montecitorio e che una Direttiva europea imporrebbe al Paese. Intervenire su questo tema con crediti d’imposta, certificazione del debito, persino pagamenti con titoli di stato avrebbe un effetto immediato salvando centinaia di aziende, tecnicamente sane, dal fallimento.

Perché quando sento politici locali, autorevolissimi, vantarsi del fatto che qui da noi le PA pagano con una media di 90 giorni li inviterei a rimanere loro per tre mesi senza stipendio e poi parlare.

Altro tema ormai non più rimandabile è quello della pressione fiscale. Sia quella sul lavoro che quella sui soldi che gli imprenditori potrebbero reinvestire in azienda, lavoro o ricerca, con un effetto moltiplicatore che nessuna riduzione di scoperto di conto corrente potrà mai dare.

Infine, si fa per dire, intervenire sulla selva burocratica e sulla riforma della giustizia civile per rendere il fare impresa in questo paese qualcosa di possibile e conveniente.

Poi prendiamocela pure con le banche brutte e cattive ché i motivi non mancano, ma intanto facciamo ripartire questo Paese.

Dai milionari cinesi un aiuto all’autostima dell’occidente.

Pare che la Cina, anche questa volta, ci sia vicina. Ieri il post oggi alcuni quotidiani riportano la notizia che anche a Pechino si iniziano ad avvertire i primi sintomi della crisi economica che ha già colpito Stati Uniti ed Europa.

Tra gli indicatori un Pil che corre “solo” al 7,5% annuo, meno maiali macellati al giorno ed altri elementi micro e macro economici. Tra questi uno mi ha particolarmente colpito: la fuga dei ricchi cinesi.

Sì perché i milionari cinesi, una moltitudine secondo i nostri standard, pare che decidano sempre più spesso di trasferirsi, famiglia e patrimonio al seguito, fuori dalla Cina in particolare negli Stati Uniti.

Non è un fenomeno recentissimo se è vero che già da un paio di anni le richiese per la green card americane richieste per famiglie cinesi con a garanzia un patrimonio di almeno un milione di dollari sono aumentate a dismisura.

Quello che colpisce, almeno il sottoscritto, non è il dato economico della vicenda ma il suo simbolismo. Per anni ci siamo autoconvinti della Cina come del luogo del futuro. Il posto in cui si sarebbe svolto il cambiamento del mondo. Abbiamo chiamato Shangay la new york del XXI secolo e scritto di tutto su “un continente che si finge una nazione” come se non essere lì, oggi, equivalesse a vivere nel passato a precludersi futuro e ricchezza.

Oggi invece scopriamo che invece i ricchi e facoltosi cinesi pensano che per il loro agiato futuro sia meglio andarsene dalla Cina e trascorrere il resto del loro tempo nell’occidente decadente.

Non so cosa significhi di preciso, di sicuro non significa certo che la Cina sia finita e che non occorra continuare a cercare di capire quel posto o sottovalutare la sua importanza nella politica e nell’economia globale; ma mostra a noi occidentali che la percezione che si ha di noi, della nostra qualità della vita, della nostra cultura, della nostra ricchezza, non è così in declino come ci stiamo autorappresentando.

Se i tra i più ricchi del pianeta le nostre città, le nostre libertà, il nostro modo di vivere e godere sono ancora più attraenti del produrre a qualunque condizione (economica, politica, sociale ed ambientale) forse c’è speranza che questa parte di mondo si rialzi magari anche in fretta e continui a mantenere la propria egemonia sul resto del globo terracqueo.  E magari esporti, con la forza della sua way of life, diritti, democrazia e libertà nel resto del mondo.

 

E’ terminata la spinta propulsiva delle facce nuove?

Alla fine gira e rigira il vecchio principe di Salina la spunta sempre. Che tu sia un paludato funzionario di partito o un innovatore/rottamatore devi sempre fare i conti con quello che l’intorno a te ti offre e da quello muovere le tue scelte. Tigri, gattopardi o sciacalletti: le scelte le fai con quello che la savana ti offre e con la certezza che tutti si sentiranno sempre il sale della terra.

Dopo tre anni di facce nuove al potere anche Matteo Renzi, di fronte al primo vero rimpasto politico della sua giunta, deve guardarsi indietro e ignorare bellamente i dettami del politicamente corretto che avevano sinora dettato la scelta dei “suoi” uomini al governo cittadino.

Le prima vittime del gioco che si è fatto improvvisamente duro, sono genere ed età anagrafica. Due uomini (anche se la parità complessiva di genere è mantenuta) e non proprio due ragazzini (sia detto con il dovuto rispetto). Il secondo è quello del rinnovamento, pardon rottamazione, con il vecchio regime dominiciano. Le facce nuove per l’appunto.

Certo Givone e Petretto non hanno mai ricoperto incarichi di governo nell’amministrazione Domenici né in quella regionale Martini prima e Rossi poi. Tuttavia il loro ruolo di “consiglieri”, tecnici, in quelle amministrazioni non è mai stato un mistero. Anzi sia nella loro funzione istituzionale (Prorettore l’uno, Direttore dell’IRPET l’altro) che in quella di commentatori sulla stampa e convegni hanno avuto molto spesso modo di dire la loro (certo anche criticando) sul governo fiorentino.

Due uomini di indubbia qualità analitica e di grande competenza nei loro campi che hanno certamente tutte le carte in regola per ben figurare nel nuovo mestiere di amministratori, ma che non avresti sinora annoverato tra i rottamatori delle precedenti amministrazioni.

Ricordo personalmente il contributo di Petretto al gruppo per il programma del PD alle scorse amministrative e se certo quanto scritto in quel programma non può certo dirsi responsabilità diretta sua, io che coordinavo quel gruppo posso testimoniare quanto le sue riflessioni (non solo in ambito economico) siano state poi recepite nel lavoro finale. Un lavoro che, sinora, Renzi ha dimostrato di non aver apprezzato fino in fondo.

Forse, scherzando, possiamo dire che la spinta propulsiva delle facce nuove a Palazzo Vecchio sia terminata e si apra un fase di rilettura del passato cittadino diversa, in cui non ci sia bisogno di rinnegare (almeno in termini di comunicazione perché sull’amministrare altro alla fine è stato fatto) quello che la precedente amministrazione (peraltro di stesso segno politico) di buono aveva fatto. Lo si fa ripescando due ottime persone e due ottimi tecnici; per ora non lo si fa ricostruendo un rapporto di squadra coi partiti e più in generale coi soggetti di intermediazione sociale. Tuttavia c’è un cambio, anche simbolico, di atteggiamento che non va ignorato, anche nel rispondere alla domanda (che se fossimo Renzi ci avrebbe decisamente rotto) se alla fine Renzi andrà via o resterà qui.

Il Nuovo Corriere mancherà a Firenze (anche al suo sindaco).

Per più di un anno ho scritto sul Nuovo Corriere di Firenze. L’ho fatto usurpando la prima pagina quasi tutte le settimane, grazie al suo direttore Alessandro Rossi e alla incredibile libertà di cui ho goduto. Una libertà che è difficile da descrivere.

L’ho fatto pensando di non essere un giornalista nè un professionista dell’informazione ma semplicemente un piccolo osservatore con qualcosa da dire. Ho goduto di quello spazio cercando di non approfittarmente, provando a rispettare il lavoro dei professionisti che quel giornale (e tutti gli altri) ogni giorno compongono con un lavoro che è tutt’altro (e con tutt’altre difficoltà e pesantezze) da quello di mettersi davanti a pc e esprimere un’opinione sul mondo.

Io, dunque, smetto di scrivere, loro di lavorare e sono loro i protagonisti (loro malgrado) di questa chiusura e sono loro quelli a cui dobbiamo dedicare attenzione e sforzi perchè tornino presto a fare il loro mestiere. Tuttavia in questo anno e mezzo mi son sentito parte se non di una famiglia, almeno di una squadra. Ospite non solo tollerato ma anche parte di un’esperienza che, soprattutto con Cultura Commestibile, è stata grande e profonda.

Per questo mi sento di scrivere queste parole. Di dire che, alla fine, quella che ci rimette davvero è Firenze. Perchè il Nuovo Corriere, nel bene e nel male è stato un unicum del giornalismo fiorentino. Un momento di confornto, dibattito ma anche di ilarità. Mancherà al mio amico Lorenzo che mi segnalava le locandine le più fantasiose. Mancherà ai clienti del bar di Alessandro che ogni giorno glielo proponeva. Mancherà ai politici e ai cittadini fiorentini che trovavano nel corriere notizie e spazio per dire la loro. Sempre e comunque, di qualunque colore fossero. Mancherà anche a quelli che il corriere più criticava. Mancherà anche al Sindaco di Firenze e dispiace che proprio lui pare non averlo capito non spendendo una parola per un giornale che chiude nella sua città.

Non avrebbe cambiato le cose ma il non farlo è un segno non bello. L’assenza di gravitas che David Allegranti ha descritto nel suo libro dedicato al primo cittadino, penso che stia anche in queste cose a dimostrazione che si possono prendere i voti (parafrasando un titolo storico del Nuovo Corriere) e il potere ma non è necessariamente detto che si acquisti anche il necessario distacco che serve per esercitarlo nel modo più giusto.

Capiamoci, quando facevo politica, certi titoli ed articoli della redazione fiorentina di un grande quotidiano mi facevano girare fortemente i coglioni e con certi capo redattori non è che proprio abbia ancora voglia di andarci a cena (cosa del resto reciproca). Ma ho semplicemente smesso di comprare quel giornale in edicola; però se mai dovesse chiudere penso che sarebbe un problema per questa città. Non è retorica è intelligenza ed è buon gusto.

Spero che abbia ragione Alessandro Rossi nell’editoriale apparso oggi sul Nuovo e che potete leggere qui sotto. Che quello di oggi possa essere un arrivederci. Perchè da oggi siamo tutti un po’ più poveri. Per davvero.

Il giornale con le calze rosse

di Alessandro Rossi, dal Nuovo Corriere di Firenze del 14 maggio 2012

Non so ancora, in tutta onestà, se questo è un addio o un arrivederci. Comunque sia non è un gran momento. E’ uno di quei momenti in cui ti passa davanti agli occhi il film della tua vita. Ho avuto la fortuna, nella mia professione di giornalista, di avere solo maestri grandi o grandissimi.

Facendo il paragone con una carriera scolastica si potrebbe dire che ho fatto le materne con Maurizio Boldrini (uno dei fondatori della facoltà di scienze della comunicazione a Siena), le elementari con Gabriele Capelli (semplicemente maestoso per professionalità e umanità) all’Unità di Firenze, le medie con Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani a la Repubblica, le Superiori con Paolo Panerai a Milano Finanza/MF e l’Università con Mike Bloomberg. Ma ho conosciuto tanti altri personaggi e colleghi due dei quali, più di tutti, insieme ai miei maestri, hanno lasciato il segno nella mia formazione e nella mia coscienza: Romano Bilenchi e Guido Vergani. Del primo tutti sanno tutto a cominciare dalle vicende del suo Nuovo Corriere a cui, almeno nella testata, questo giornale ha avuto la presunzione di ispirarsi. Bilenchi era geniale da rasentare la follia, si batteva per la sua indipendenza come contro le sue malattie, spesso immaginarie, da cui non riusciva a staccarsi. Intellettuale sofisticato, amava le storie semplici. Di paese. Non piegò mai la testa. Comunista critico, libertario, sostenitore del dialogo con i cattolici. L’ho incontrato qualche volta a casa sua, a Firenze e mi chiamava “Pallino”. Lui chiamava tutti Pallino. Mi diceva. “Pallino, Il Nuovo Corriere è morto. Non ne voglio parlare. E’ morto e non ci sarà mai più un giornale come quello”. Aveva ragione Bilenchi. Un giornale non è mai uguale a un altro anche se oggi si fa a gara a somigliarsi. Ma almeno al suo tempo ogni giornale era una piccola opera d’arte. Sono sempre stato affascinato da quello scimmione di Colle Val d’Elsa, sbracato sul divano che si toccava continuamente la testa. E ho sempre sognato di poter lavorare al “suo” Nuovo Corriere. Di Guido Vergani, figlio del famoso Orio, si sa molto meno. L’ho conosciuto a Repubblica a Milano. Era uno e bino, trino, o chissà quante altre ancora: borghese ma progressista, non era bello ma piaceva alle donne, frequentatore e animatore dei salotti che poi raccontava senza pietà. Grande affabulatore, sempre ironico, elegante anche con i vestiti ciancicati. Qualcuno di lui scrisse che “nel suo lungo percorso non è mai caduto nell’errore di annacquare la sua libertà di giudizio con il senso dell’opportunità”. Guido indossava sempre delle calze rosse, quasi cardinalizie. Un modo di dichiararsi diverso anche nei particolari. A Vergani e Bilenchi ho cercato di rubare tutto quello che gli potevo rubare: l’onestà intellettuale, l’indipendenza di giudizio, l’attenzione alla scrittura, la voglia di stare dalla parte della gente comune. E poi l’ironia. Pur sapendo che la mia preziosa refurtiva, disgiunta dai proprietari originari, era meno commerciabile, ho provato a venderla lo stesso. Anzi, a regalarla. Ho cercato di condividere, spesso senza dirlo, l’eredità Bilenchi-Vergani con la redazione e con tutti quelli che in questi anni hanno lavorato con me a Il Nuovo Corriere, “il giornale più libero di Firenze”, ci dicevamo sempre. Insieme abbiamo fatto battaglie indimenticabili, scoop, inchieste, interviste, titoli divertenti, pungenti, cattivi. Provando a fare quel lavoro che dovrebbero fare tutti i giornalisti: non consentire niente al potere, rispettarlo ma affrontarlo senza paura. E poi dare voce a chi non ha voce: le nostre pagine sono state sempre piene di nomi, di interventi, di richieste, di lamentele, di indicazioni, di proteste di chi non viene mai ascoltato. Anche Cultura Commestibile, felice intuizione di Aldo Frangioni, è nata per dare spazio a uno squadrone di intellettuali, anche di altissimo valore, che non si riconosce nei modi tradizionali e omologati di fare cultura, quelli che fanno audience ma non fanno riflettere, non stimolano. E Asilo Politico? Quando Il Manifesto ha chiuso le sue pagine fiorentine abbiamo aperto le nostre alle loro idee. Ne condividiamo pochissime, ma cosa importa? L’importante è che non restassero senza voce. Avremmo fatto lo stesso anche con altre testate di qualunque parte politica nella stessa situazione. Ora che è arrivato il nostro momento non abbiamo voglia di scrivere la parola fine. Per un motivo semplice: lo spirito de Il Nuovo Corriere non morirà mai. Vivrà sempre in quei giornalisti che sapranno fare il loro dovere e il loro mestiere “senza cadere nell’errore di annacquare la libertà di giudizio con il senso dell’opportunità”.

 

 

Il centro non serve. Almeno in Francia

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 4 maggio 2012.

Mentre da noi si da’ molto rilievo al disconoscimento imbarazzato da parte di Sarkozy di Silvio Berlusconi durante il dibattito televisivo con Françoise Hollande per il secondo turno delle elezioni francesi, in Francia la discussione, giustamente, si appunta più sull’efficacia dei due candidati.

Intanto tutti i commentatori paiono convenire sul punto che i due pretendenti hanno badato più a consolidare i propri schieramenti che nel cercare di rubare voti all’avversario. Comprensibile, almeno sulla carta, da parte di Sarkozy che vede nel bottino di voti del Fronte Nazionale, un bacino potenzialmente conquistabile. Peraltro Sarkozy ha rotto anche uno dei tabù più longevi della quinta Repubblica dichiarando la Le Pen compatibile con la Repubblica, spazzando via quella regola non scritta che diceva, per la destra francese, sì ai voti del FN no ai suoi dirigenti. La Le Pen pare non dare troppa retta, almeno pubblicamente, a questi corteggiamenti ma non è chiaro come risponderanno i suoi elettori soprattutto di fronte ad un Hollande che calca molto coerentemente il suo lato socialista e di sinistra.

Un lato che, personalmente con qualche pedanteria di troppo e non proprio spigliatezza comunicativa, ha ribadito molto anche nel dibattito di mercoledì sera. Si vede che il mantra italiano de “le elezioni si vincono al centro” in Francia non devono conoscerlo. Hollande ha fatto la sinistra, certo moderna, certo riformista, e non ha vezzeggiato i cosiddetti moderati che seppur deludenti al primo turno, potevano rappresentare il campo di battaglia di entrambi i contendenti.

Vedremo domenica quale dei due richiami alle ali sarà stato più efficace ma, almeno oggi, il grande centro francese pare essere un non luogo della politica. Impossibile pensarlo da noi. O no?

La Liberazione del Carcere

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 26 Aprile 2012.

Quando ci si “libera” da un regime, uno dei primi cancelli a cadere è quello delle carceri. Dalla Bastiglia alle prigioni di Bagdad e Kabul non c’è quasi Liberazione che non abbia abbattuto il luogo principe del manifestarsi del giogo dell’oppressore. Dunque non scandalizzi né stupisca che proprio ieri, il 25 aprile, festa della Liberazione dal nazifascismo, i Radicali abbiano deciso di organizzare una marcia per chiedere l’amnistia contro le inumane condizioni carcerarie italiane. Un vero e proprio crimine di Stato, ripete Pannella da anni, in cui chi vive il carcere (non solo detenuti ma anche la polizia penitenziaria) si trova in condizioni inumane contrarie ad ogni standard di legge e umanità. Una condizione definita di “prepotente urgenza” dallo stesso Presidente Napolitano questa estate senza che poi nulla si sia davvero fatto per cambiare lo stato delle cose. Nel frattempo in questo 2012 i morti in carcere sono stati già 57 di cui 20 i suicidi, mentre i detenuti in attesa di giudizio superano la soglia del 40%. Non bastassero questi dati il sovraffollamento cresce nonostante i provvedimenti cosiddetti svuota carcere che in realtà non svuotano un bel niente e le continue condanne del nostro Paese in sede europea per le condizioni carcerarie e la lentezza dei processi. Nel frattempo le forze politiche non vogliono sentir parlare di Amnistia (precondizione per una vera riforma della giustizia) e a parole si dicono pronti ad una riforma della giustizia che in realtà o non vogliono fare o che torna comodo a pochi interessati, già forti dell’amnistia di classe che si chiama prescrizione. Quella prescrizione contro la quale si scaglia il partito delle manette che urla alla luna dei potenti liberati (senza incidere sul loro destino processuale) ma dimentica i tanti disgraziati in carcere solo per la loro misera condizione economica. Il governo tecnico, infine, si diceva all’avvio pronto a riformare la giustizia italiana, visti anche gli enormi costi economici che questa inefficienza comporta, per poi far sparire sotto il tappeto la questione.  Dunque ben venga la marcia per l’amnistia e la richiesta di un’altra vera Liberazione.