Il lungo percorso verso l’ikeitudine

Dopo quello che mi era successo all’ikea e che ho raccontato qui ieri si è aggiunta un ulteriore puntata. Nel pomeriggio mi chiama un gentilissimo signore della logistica per conto ikea che mi informa che nel montaggio della cucina che ho comprato non è compreso l’allaccio ad acqua, luce e gas. Sarebbero altri 140 €.

Ma come altri 140€? e soprattutto non potevate dirmelo e farmelo pagare in negozio? E allora dico basta, interrompo il mio lungo percoro verso l’ikeitudine mi ribello e dico no. All’allaccio ci penso io. Avrò una cucina bellissima e probabilmente inutilizzabile. Ma non avrò ceduto.

P.s. Se ci sono idraulici che mi leggono e vogliono sostenere la mia battaglia sono ben graditi.

Il mago di Joz

Durante la campagna delle primarie il caporedattore di Republica Firenze imbastì una polemica a mio avviso strumentale ed esagerata sul fatto che uno dei candidati non avesse risposto a una richiesta di “una battuta” sul caso Englaro. (qui trovate la storia dal mio punto di vista). Due editoriali in due giorni con grandi richiami ai valori, alla laicità, alla necessità che anche un potenziale primo cittadino dovesse intervenire su un dibattito siffatto.

Poi tra ieri ed oggi il consiglio comunale di Firenze ha discusso sulla cittadinanza onoraria a Beppino Englaro. Lo ha fatto dopo una lunga presa di posizioni fuori e dentro il Pd. Con un candidato sindaco che, coerentemente coi suoi valori e con la sua storia, ha dichiarato che non avrebbe votato la delibera, con un sindaco in carica che interviente in aula (evento piuttosto raro), col partito di maggioranza relativa che vota in modo difforme (senza peraltro troppi drammi e lacerazioni) e con un Vescovo che interviente pesantemente (e a mio avviso in modo esagerato).

Ecco che in tutto questo bailame La Repubblica Firenze decide di aprire (unico fra gli innumerevoli quotidiani locali) sulla strigliata di Della Valle alla Fiorentina. Tema che da tifoso apprezzo anche di più ma che non mi pare proprio azzeccatissimo e soprattutto in linea con il giornale che dirige e con le aspettative dei suoi lettori.

ikea of sweden

Dovendo traslocare ho dovuto comprare cucina e camera da letto nuova. Pochi soldi, poco tempo; dunque si va all’ikea.

Intanto si parte dalla progettazione. Catalogo, sito internet e poi il magico programmino per progettare gli interni. Dunque prendi le misure della casa. Dove stanno le prese, dove sta l’acqua. Rilievi così accurati che nemmeno per spostare Abu Simbel.

Poi il gran giorno. Decidi di andarci in mezzo alla settimana evitando il fine settimana dove all’ikea ci sta più gente che al Franchi per Fiorentina Milan. Pensi di cavartela in mezza giornata e fissi tranquillamente i tuoi appuntamenti per il pomeriggio tanto che vuoi che ci voglia? Ho già previsto tutto, so già che voglio, ci metto poco.

Scarichi quindi il figlio dai nonni e ti presenti alla porta del magazzino all’orario di apertura: le 10. Ti porti al banco progettazione cucine e ti chiedi come mai seppure sia stato tu ad aiutare il commesso ad aprire il bandone stiano servendo il 202 e tu hai il numero 207.  In un angolo della tua mente si insinua il dubbio che qualcuno abbia pernottato qui. Forse su Karlstad divano. Ma è ancora presto e nulla ti turba ancora.

Il display da anche le indicazioni di quanto più o meno dovrai attendere. Il calcolo indica 22 minuti. Che diventano presto 24. Poi 26.

A 28 minuti previsti di attesa capisci che è il caso di portarti avanti col lavoro e vai verso la zona letti. Ti presenti alla giovane commessa, ordini il tuo letto, materasso, barra, doghe e due comodini e lei cordialmente ti stampa la tua lista distribuzione visto che i mobili vuoi farteli recapitare a casa.

Con la tua lista e il tuo letto in versione lista di distribuzione ritorni alla zona progettazione cucine. Servono sempre il 202 e il tempo di attesa previsto è diventato 37 minuti. Aumenta invece di diminuire.

Mentre ti interroghi sull’inversione delle leggi della fisica un commesso (scoprirò in seguito essere il capo di quella parte di mondo) mi guarda e mi fa: “ma voi avete già il preventivo approvato?”

Panico. Provi a balbettare qualcosa del tipo , “boh io ho fatto il mio progettino col vostro programma ho qui le stampe…” e lui arcigno: “ma non lo ha uploadato sul database dell’ikea?” e io un po’ ebete “no veramente non lo avrei uploadato…”.

Male, molto male non upoloadare. Ma io provo a giocarmi la mia contromossa. “Io però avrei il file in una chiavina usb qui con me….” e lui con lo sguardo dell’iniziato che scruta la feccia dell’umanità che vuole solo elevarsi all’ikeitudine mi fa ” NO! la chiavetta non è possibile per  motivi si sicurezza!”

E icche tu sei la Nasa? Lo guardo stupito domandandomi se tra le varie proproste ikea l’adozione di un semplice antivirus per verificare la mia chiavetta usb non sia proprio possibile. Ma il kapetto è irremovibile. Ha detto no e no sarà.

Mi consiglia quindi di riprogettare da capo la cucina da una delle postazioni lì accanto. Peccato che io non abbia portato le misure della cucina.

Penso di andarmene e tornare un altro giorno. Poi mi dico, in fondo è ancora presto. Chiamo mio padre che sta a rifredi (molto più vicino di me che abito a campo di marte) sento se è a casa e parto alla volta di casa sua dove dalla mia chiavetta uploado il file.

Ritorno all’ikea ,mi faccio approvare il preventivo, e poi passo all’ordine.

Stavolta commesso molto, molto gentile. che prende il preventivo appena fatto da lui e lo ridigita pezzo per pezzo sul programma dell’ordinazione e ti chiedi: ma trasferire il file è troppo complicato per gli informatici dell’ikea?

“guardi il piano che lei ha scelto non va bene perchè il taglio rischia di non poter essere fatto che fa cambia?” ” E che fo, cambio”

“guardi il piano di cottura che ha scelto non c’è e arriva forse a luglio. Che fa cambia?” ” E che fo,cambio”

“guardi che il lavello che ha scelto c’è, però non glielo posso spedire. Dovrebbe prenderlo lei oggi. Che fa lo prende? ” ” E che fo, lo prendo”. (tanto pesa solo 44 chili….)

“guardi che le gambe della cucina e la lista di 220 cm le deve prendere lei perchè non gliele posso spedire. Che fa le prende? ” ” Che fo le prendo. Tanto c’ho gia il lavello…”

“Allora”  e comincia a stampare una quantità di fogli che paiono il trattato di Oslo ” questa è la lista di distribuzione della roba che le arriverà a casa. Questo è quello che deve prendere all’area self service. Questo lo ritira al magazzino esterno che è fuori dal magazzino principale. Il tutto in triplice copia perchè una la tengo io, una la tenete voi una la date al banco trasporto e montaggio subito dopo l’uscita”.

E allora ringrazi. prendi il faldone e ti incammini verso la zona armadi. E intanto pensi. Ma perchè al banco trasporti e montaggi non glielo mandano loro via telematica l’ordine di montaggio? E perchè visto che sono così rispettosi dell’ambiente la lista distribuzione che tutte le volte che ordini qualcosa ti ristampano in triplice copia deforestanto mezzo canada, non la tengono in formato elettronico e te la stampano solo alla fine del magazzino?

Intanto è già ora di pranzo e pensi, il primo pomeriggio è andato…. sfissi gli appuntamenti fino alle cinque e ti dirigi verso l’area ristorante per mangiare qualcosa.
Naturalmente il ristorante è chiuso per risrtutturazione e ci sono solo panini. E coi panini una coda piuttosto ampia.

Ok niente panino. Tanto non è un problema se dimagrisco un po’.

Torno all’area armadi dove ho il solito problema dell’upload del file ma stavolta, riprogetto al volo il mio guardaroba e mi presento al bancone.

Al bancone servono il 37 e io ho il 38. Il problema è che il numero 37 lo ha una coppia, probabilmente pisana dall’accento, che inizia una discussione pressochè infinita se prendere o meno il portapantaloni nel proprio guardaroba.

Non serve essere fini psicologi per capire che dietro quel portapantaloni ci sono abissi di risentimento e di cose non dette. Di pomeriggi dalla suocera, di ferie a Gabicce mare mentre lui voleva andare a Principina, di dopopranzi di Natale passati a giocare a tombola. Solo che a te dopo 20 minuti non te ne frega niente e alla domanda “ma allora dove te li metti i pantaloni?” vorresti rispondere tu come Gozzini rispose a Della Valle: “Ne potrebbe fare un rotolo e ficcarselo su per….”

Alla fine il portapantaloni viene infilato nell’ordine e la piccola folla che ormai si è radunata lì intorno applaude e si da a scene di giubilo e abbracci.

Anche qui il commesso è molto molto gentile (anche se un po’ stremato dalla coppia di prima) e anche qui cominciano i problemi.

“guardi che le ante che ha scelto non gliele posso spedire. Deve prenderle lei. Che fa le prende?”

” E come cavolo le prendo sono ante da 236 cm. Ho una focus nemmeno station wagon!”

“può prendere un furgone a noleggio…”

” prenderò un furgone a noleggio”

” dopo le casse accanto al banco montaggio…”

” bene”

Stremato passo al piano di sotto. Non so neanche che ore sono. Comincio a pensare che anche gli appuntamenti dopo le cinque salteranno ma penso anche che sono vicino alla fine.

Passo al reparto self-service mobili e prendo gambe della cucina, aste porta-abiti, mentre i ripiani in vetro per la cucina non ci sono e questo significa che dovrò tornare ancora qui…

Penso di piangere ma visto che ci sono e che tanto devo prendere il furgone prendo anche il tavolo per la cucina e un mobiletto per i giocattoli di Giorgio. Con i due carrelli vado verso il banco finanziamenti.

Qui la cosa invece è velocissima. In meno di mezz’ora mi hanno finanziato tutto e passo in cassa.

Siccome sono socio ikea family ogni 100 euro di spesa ho diritto a 5 euro in buoni sconto. Chiedo se posso farli valere subito alla ragazza della cassa e mi dice no valgono dal prossimo acquisto. Dunque cosa faccio? Faccio due acquisti. Il primo la parte del finanziamento che mi da 44 buoni e il secondo i miei due carrelli di roba in cui spendo i 44 buoni.

Propongo alla ragazza di fare un’operazione finanziaria. lei calcola il valore dei buoni e li scala sul succesivo conto senza fisicamente stacarli uno a uno.

Naturalmente non può accettare e dunque li stacca uno a uno. Finisce il blocchetto, aspetta che una collega glielo porti e ricomincia staccare i restanti.

Poi io li prendo e glieli rendo immediatamente indietro e lei li timbra uno a uno.

Durata dell’operazione circa 35 minuti.

Dopo la cassa il banco montaggio. Chiedo di farmi montare solo la cucina. E la ragazza, anch’essa molto gentile, mi chiede se la ragazza del finanziamento mi ha fatto il preventivo. Io dico di no e lei si incupisce. Io dico che mi ha calcolato il prezzo e me lo ha fatto pagare quindi non credo serva il preventivo per qualcosa che ho già pagato. La cosa non la convince del tutto ma pare logica e quindi prende l’ordine che stampa sempre nelle solite tre copie e che io aggiungo alla mia documentazione che pare l’enciclopedia britannica ormai.

Mi sposto al banco accanto dove la ragazza del noleggio furgoni con molta, molta, molta, calma mi noleggia un furgone. Naturalmente grande visto che le assi sono di 236 cm e in un fiorino non ci stanno.

Prendo il furgone che intanto il sole sta ormai tramontando e vado verso il ritiro mobili, dove prendo l’ennesimo numerino, ritiro ante e lavandino, aggiungo altri fogli alla documentazione e parto, una volta caricato il furgone verso la nuova casa.

Dopo aver scaricato il furgone torno all’ikea, rendo il furgone alla ragazza dell’autonoleggio che sempre con molta, molta, molta calma mi fa pagare. Recupero la mia auto, mio figlio dai nonni e intorno alle 20 sono di finalmente a casa, dove mi accoglie la mia gatta che però per me non è più tale ma ormai mi appare come “Uppersalla – gatto. Disponibile in fantasia soriano….”

Please take a picture…

Qualche tempo fa ho fatto alcune foto su “commissione” di una parte di Firenze poco battuta. Quella Firenze a nord-ovest teatro di espansione, polemiche, opportunità.

Ieri ho montato quelle foto in un filmato con dell’ottima musica dei Turin Brakes di sottofondo mischiandole con foto della campagna elettorale di Lapo per una presentazione.

Siccome m’è piaciuta la volevo condividere con voi


AAA capo ufficio stampa cercasi

Il fatto che la Chiesa cattolica decida di riabilitare alcuni prelati lefrebrveviani è sostanzialmente un fatto che riguarda la Chiesa Cattolica e più in generale il rapporto tra questo pontificato e la contemporaneità.

Ma il fatto che decida di riabilitare uno fra questi che è dichiaratamente un negazionista proprio nella settimana del giorno della memoria dimostra almeno che dalle parti del Vaticano hanno un pessimo ufficio stampa.

Stampa e Regime

Oggi, come quasi tutte le mattine, mi sono ascoltato in auto la rassegna stampa di Massimo Bordin su Radio Radicale. Sono un ascoltatore fedele e affezionato di quella trasmissione e del suo conduttore. Sia per quello che dice che per come lo dice, voce roca dal fumo compresa.

Iniziare dunque il mio primo giorno lavorativo dell’anno con questa certezza è rassicurante così come è stato rassicurante riascoltare uno dei classici tormentoni sulla scarsa presenza dei radicali e delle loro iniziative sui giornali appena recensiti, la frase suonava più o meno così: ” Anche il 2009 inizia senza che ci siano segnalazioni sui temi radicali in continuità con il 2008″.

Ora credo che i radicali siano spesso sottostimati dalla stampa e dai media nazionali ma sono altrettanto convinto che su questo un po’ ci marcino. Anche perchè non è possibile pensare che ogni santo giorno ci sia spazio per i radicali soprattutto quando, tipo il primo dell’anno, mi immagino che i radicali più o meno come tutti abbiano preso un minimo (dico un minimo eh!) di vacanza.

E allora mi sono immaginato il giornale tipo del primo dell’anno radicale. Apertura del Corriere: “Pannella digiuna in Tibet e a mezzanotte non brinda al nuovo anno“, oppure la Repubblica “Bonino il 2009 noi lo avevamo previsto già nel 2007“.

Ma poi ho pensato che anche così la mattina dopo il buon Bordin avrebbe avuto qualcosa da ridire. Ma forse è proprio per questo che continua a piacermi e continua a essere, lui e la sua trasmissione, una delle cose buone da portarsi nel 2009.

Se telefonando…

“Le intercettazioni telefoniche sono un elemento essenziale di ogni azione investigativa”. Così un mio amico poliziotto, bravo investigatore, mi ha risposto di fronte ai miei dubbi e alle mie idee di limitare, non lo strumento investigativo, ma la sua divulgazione.

Il problema è che, leggendo le cronache giudiziarie di questo straziato Paese, si ha come l’impressione che esse rappresentino l’unico strumento di indagine e siano talvolta preferite alla pistola fumante in mano all’assassino. Leggiamo di quintali di carta. Imamginiamo investigatori come ne Le vite degli altri, attenti a ricostruire il contesto, il clima, immaginare scenari. Poco importa se manchino, per esempio in un caso di corruzione, i denari o i favori. Si intuisce la possibilità, si fa trapelare una potenzilità che ci sia altro. Si da un giudizio morale di una società, di una classe politica, di una classe dirigente, rimnendo nell’ombra dell’irresponsabilità  e del segreto istruttorio che appare sempre più come un sarchiapone nelle mani di Walter Chiari, il tutto trascrivendo telefonate senza contesto, toni e connessioni.

Magistrati inquirenti, avvocati, giornalisti tutti egualmente colpevoli di fronte al mostro sbattuto in prima pagina. Ognuno porta la propria responsabilità di fronte a cifre che indicano come le archiviazioni e le assoluzioni siano la maggioranza nelle sentenze in queste inchieste. Inchieste e processi che durano anni e rappresentano un calvario e un costo per donne uomini e per la nostra democrazia.

Non ho mai creduto, nel 1992 e oggi, ai complotti e al potere giudiziario che si sostiuisce a quello politico. Penso che come ogni altro pezzo della classe dirigente di questo paese anche gli operatori della giustizia (i colpevoli di cui sopra) siano ormai preda di una profonda crisi. Di valori, di rinnovamento, di senso di responsabilità.

Ogni singolo rappresentante delle elites di questo sventurato Paese pensa in totale buona fede di compiere al meglio il proprio dovere. Sia esso un politico, un magistrato, un giornalista, un intellettuale, un professore universitario. Quello che manca è il senso di appartenenza a qualcosa di più ampio di noi e del piccolo mondo intorno a noi, sia pur esso interpolato o globale.

E’ una società che è guidata dai suoi dirigenti in un vicolo cieco. Però è proprio là, nei vicoli ciechi, diceva Brecht, che avvengono le Rivoluzioni.

Tutto l’amore di Mina

Ci sono storie e persone che aldilà di come la si pensi fanno riflettere. La storia di Piergiorgio Welby, la sua vita e la sua morte, sono qualcosa che ci fanno interrogare sui limiti dell’azione politica, della volontà personale, dell’etica e della nostra condizione precaria su questa terra.

Non voglio entrare sulle posizioni sull’eutanasia, il testamento biologico e tutta quella zona grigia sui temi dell’inizio e della fine della vita. Ho posizioni chiare su questoma qui mi piace riportare l’intervista di Mina Welby uscita lunedì sul Messaggero. E’ un atto d’amore che credo meriti rispetto e ci faccia riflettere aldilà delle nostre singole convinzioni. E’ da lunedì che la leggo e la rileggo. E’ una bellissima storia d’amore purtroppo senza un lieto fine.

da Il Messaggero, di Carla Massi –  «Sapevo quali sarebbero stati il giorno e l`ora della sua morte. Me l`avevano detto i medici. Fino all`ultimo, in cuor mio, ho sperato che Piergiorgio ci ripensasse. Per me era difficile lasciarlo andare, non riuscivo a pensare la mia vita senza la sua compagnia. Ma lui aveva scelto e io, per amore, non potevo che accettare le sue volontà». Mina Welby ha amato suo marito Piergiorgio per quasi trent`anni. Dal 1978 al 2006 quando lui, malato di distrofia muscolare, ha deciso di farsi “staccare la spina” e lasciarsi morire.

Dunque lei, signora, non era d`accordo con la scelta di suo marito?

«Avrei preferito andare avanti così come stava anche se mi rendevo conto che lui non ce la faceva più. Ma l`amore per lui mi ha fatto sempre accettare il suo pensiero».

Ha provato a convincerlo a desistere?

«Ho fatto tutto con lui, ho inventato tutto per continuare ad andare avanti superando gli ostacoli che ogni giorno la malattia progressiva ci proponeva. Durante l`ultima settimana gli ho detto: “Non so più che cosa inventarmi!”. E lui:  “Non c`è più nulla da inventare, hai già fatto tutto”. E lì ho capito che non voleva tornare indietro sulle sue decisioni».

A quel punto come ha fatto ad accettare, a vivere con il dolore e a stare accanto a lui fino alla fine?

«Per amore, solo per amore. Alcuni giorni prima della morte programmata mi passò per la mente di chiamare i carabinieri. Di parlare, di fermare tutto. Poi, in un momento, mi resi conto che gli avrei fatto un oltraggio. Che era puro egoismo. Mi dissi: “Che scema che sei!Fermati”».

Glielo ha fatto capire?

«No, assolutamente no. Non ho voluto mai ostacolarlo. In nome della nostra complicità e della nostra storia. Ho rispettato la dolcezza e l`attenzione che lui ha sempre, avuto per me».

A che cosa si riferisce?

«Finché ha potuto ha minimizzato la sua malattia ai miei occhi. Mi ha confusa, mi ha sempre nascosto quanto stesse male. Fino alla fine, quando non riusciva più a scrivere e a concentrarsi. Fino alla fine con estrema dignità, voleva che gli si facesse la barba, voleva scegliere i vestiti. Non riceveva mai le persone a letto, ma solo in carrozzina».

Quando le ha confessato la sua decisione?

«L`ho capito da tante piccole cose. Dal Belgio vennero a visitarlo alcuni medici, mi resi conto che in quel momento, con lui, potevano decidere qualcosa…».

Le parlava della morte?

«Negli anni prima non ne parlava mai, Piergiorgio era un inno alla vita. Ad un certo momento ha sperato, sono convinta, che io capissi».

E lei non ha voluto capire?

«Io fatto finta per un po`. Poi ho accettato in nome del nostro grande amore. Sempre, in tutti questi anni. Un giorno mi disse: “Non ti rendi conto come sto? Rischiamo di non capirci più…”».

E lei a quel punto è riuscita a sedare il dolore, a mandare via la rabbia e a mettersi da parte per lasciare spazio alle volontà di Piergiorgio?

«Ci sono riuscita senza rabbia e senza rammarico. Per lui è stato un sollievo, per me è statala fine del lutto».

Il lutto era finito? In realtà, iniziava il distacco.

«Per me il lutto è finito quando Piergiorgio ha finito di soffrire. Poi è iniziato un doloroso  distacco che ho riempito andando a rileggere e studiare tutto quello che Piergiorgio ha scritto sull`eutanasia e il testamento biologico. Per questo lotto perché questo paese abbia una legge proprio sul testamento biologico. Ora capisco quale era il suo pensiero da molti anni».

Ma non glielo aveva confidato.

«No, finché ha potuto no. Per non darmi un dolore».

Pensava che lei lo avrebbe voluto far desistere?

«Non lo so. Certo è che abbiamo sempre fatto tutto insieme, per gli ultimi quadri che ha dipinto ero io che spostavo la tela sotto il pennello. Tanto che uno l`ha firmato con il mio nome. Sapeva che, qualsiasi cosa lui avrebbe deciso su di sé, io lo avrei accettato. Fidava nella nostra eterna complicità».

Vinto!

Ciao, Chicago!
Se là fuori c’è ancora qualcuno che dubita che l’America sia un luogo dove tutto è possibile, che ancora si chiede se il sogno dei nostri Fondatori sia vivo nella nostra epoca, che ancora mette in dubbio la forza della nostra democrazia, questa notte è la vostra risposta.
È la risposta data dalle file di elettori che si estendevano intorno alle scuole e alle chiese, file mai viste prima da questa nazione, è la risposta che hanno dato le persone che hanno aspettato tre, quattro ore, molti per la prima volta in vita loro, perché erano convinti che questa volta doveva essere diverso, che la loro voce poteva fare la differenza.

È la risposta pronunciata da giovani e vecchi, ricchi e poveri, democratici e repubblicani, neri, bianchi, ispanici, asiatici, nativi americani, gay, etero, disabili e non disabili: americani che hanno inviato al mondo il messaggio che noi non siamo mai stati semplicemente un insieme di individui o un insieme di Stati rossi [Repubblicani] e Stati blu [Democratici]: noi siamo e saremo sempre gli Stati Uniti d’America.
È la risposta che ha spinto quelli che per tanto tempo, da tanta gente, si sono sentiti dire che dovevano essere cinici, spaventati, scettici su quello che possiamo fare, sulla possibilità di mettere le mani sul corso della storia e piegarlo in direzione della speranza di un giorno migliore. Ci ha messo molto ad arrivare, ma questa notte, grazie a quello che abbiamo fatto in questa giornata, in queste elezioni, in questo momento storico, il cambiamento è arrivato in America.

Poco fa ho ricevuto una telefonata estremamente gentile da parte del senatore McCain. Il senatore McCain si è battuto a lungo e con convinzione in questa campagna, e ha combattuto ancora più a lungo e con ancora più convinzione per il paese che ama. Ha sopportato sacrifici per l’America che la maggior parte di noi non riesce neppure lontanamente a immaginare. Tutti abbiamo beneficiato dei servizi resi da questo leader valoroso e altruista. Gli faccio le mie congratulazioni, faccio le mie congratulazioni alla governatrice Palin per tutto quello che hanno saputo fare, e spero veramente di poter lavorare insieme a loro nei mesi a venire per rinnovare le promesse di questa nazione.

Voglio ringraziare il mio compagno di viaggio in questa avventura, un uomo che si è impegnato nella campagna con tutto il suo cuore e ha dato voce agli uomini e alle donne con cui è cresciuto nelle strade di Scranton e con cui ha affrontato il viaggio sul treno verso casa in Delaware, il vicepresidente eletto degli Stati Uniti, Joe Biden.
E non sarei qui stanotte senza l’incrollabile supporto di quella che è stata la mia migliore amica negli ultimi 16 anni, la roccia della nostra famiglia, l’amore della mia vita, la prossima first lady della nazione, Michelle Obama.

Sasha e Malia, vi amo tutte e due, più di quanto possiate immaginare, e vi siete guadagnate il nuovo cucciolo che verrà con noi alla Casa Bianca.
E anche se non è più con noi, so che mia nonna sta guardando, e con lei la mia famiglia, che mi ha reso quello che sono. Sento la loro mancanza stanotte, e so che il debito verso di loro è incommensurabile.
A mia sorella Maya, a mia sorella Auma, a tutti i miei fratelli e sorelle, grazie mille per il sostegno che mi avete dato. Vi sono grato.

E al direttore del mio staff elettorale, David Plouffe, l’eroe ignoto di questa campagna, che ha saputo costruire quella che credo sia stata la migliore campagna elettorale nella storia degli Stati Uniti d’America, al responsabile della strategia, David Axelrod, che è stato accanto a me per ogni passo di questo cammino, al migliore team elettorale mai messo insieme nella storia della politica: voi avete reso possibile tutto questo e io vi sarò per sempre grato per quello che avete sacrificato per riuscirci.
Ma soprattutto non dimenticherò mai a chi appartiene veramente questa vittoria. Appartiene a voi. Appartiene a voi.

Non sono mai stato il candidato più probabile per questo incarico. Quando abbiamo cominciato avevamo pochi soldi e pochi appoggi. La nostra campagna non è stata architettata nei corridoi di Washington: è partita dai cortili di Des Moines, dai salotti di Concord, dalle verande di Charleston. È stata costruita da lavoratori e lavoratrici che hanno attinto ai loro magri risparmi per versare 5, 10, 20 dollari per la causa. È diventata forte grazie ai giovani che hanno rigettato il mito dell’apatia della loro generazione, che hanno lasciato le loro case e le loro famiglie per fare lavori che promettevano pochi soldi e poche ore di sonno. Ha attinto forza da quelle persone non più così giovani che hanno sfidato il freddo pungente e il caldo soffocante per andare a bussare alla porta di perfetti estranei, e da quei milioni di americani che hanno lavorato come volontari e hanno coordinato, e che hanno dimostrato, più di due secoli dopo, che un governo del popolo, dal popolo e per il popolo è ancora possibile. Questa è la vostra vittoria.

Io so che non avete fatto tutto questo solo per vincere un’elezione, e so che non lo avete fatto per me. Lo avete fatto perché siete consapevoli dell’enormità del compito che abbiamo davanti. Perché anche se stanotte festeggiamo, siamo consapevoli che sfide che ci aspettano saranno le più impegnative della nostra vita: due guerre, un pianeta in pericolo, la peggiore crisi finanziaria da un secolo a questa parte. Anche mentre stiamo qui stanotte, sappiamo che ci sono americani coraggiosi che percorrono i deserti dell’Iraq e le montagne dell’Afghanistan rischiando la loro vita per noi. Ci sono madri e padri che rimangono svegli dopo che i loro figli sono andati a dormire e si domandano come riusciranno a rimborsare il mutuo, a pagare i conti dei medici o a risparmiare abbastanza per poter mandare i figli all’università.

Ci sono nuove energie da radunare, nuovi posti di lavoro da creare, nuove scuole da costruire e minacce da affrontare, alleanze da risanare.
La strada che ci aspetta sarà lunga. La pendenza sarà ripida. Forse non ci arriveremo in un anno e nemmeno nell’arco di un mandato, ma, America, io non sono mai stato tanto fiducioso come questa notte che ci arriveremo. Ve lo prometto: noi, come popolo, ci arriveremo.
Ci saranno ostacoli e false partenze. Molti non concorderanno con tutte le decisioni che prenderò come presidente, e sappiamo che il governo non può risolvere ogni problema. Ma io sarò sempre sincero con voi sulle sfide che dovremo affrontare. Vi starò a sentire, specialmente quando non saremo d’accordo. E soprattutto vi chiederò di prendere parte all’opera di ricostruzione di questa nazione nell’unico modo che l’America abbia mai conosciuto nei suoi 221 anni di storia: una casa sull’altra, un mattone sull’altro, una mano incallita dalla fatica sull’altra.

Quello che è cominciato 21 mesi fa in pieno inverno non può finire in questa notte d’autunno. Questa vittoria da sola non rappresenta il cambiamento che cerchiamo: è soltanto l’occasione per noi di realizzare quel cambiamento.
E questo non accadrà se torneremo a com’erano le cose un tempo. Non accadrà senza di voi, senza un nuovo spirito di servizio, un nuovo spirito di sacrificio. E allora creiamo un nuovo spirito di patriottismo, di responsabilità, dove ognuno di noi decide di buttarsi nella mischia e impegnarsi di più, e di occuparci non solo di noi stessi ma gli uni degli altri.

Ricordiamoci che se questa crisi finanziaria ci ha insegnato qualcosa, questo qualcosa è che Wall Street, la grande finanza, non può prosperare se Main Street, l’uomo della strada, patisce. In questo paese, ci alziamo o cadiamo come un’unica nazione: come un unico popolo.
Resistiamo alla tentazione di ricadere nella vecchia faziosità, meschineria e immaturità che avvelena da così tanto tempo la nostra vita politica. Ricordiamo che fu un uomo di questo Stato il primo a portare il Partito repubblicano alla Casa Bianca, un partito fondato sui valori della fiducia nei propri mezzi, della libertà individuale e dell’unità nazionale. Questi sono valori che tutti condividiamo. E se questa notte il Partito democratico ha riportato una grande vittoria, lo facciamo con una parte di umiltà e con la determinazione a sanare le fratture che hanno ostacolato il nostro progresso.

Come disse Lincoln a una nazione molto più divisa della nostra: «Noi non siamo nemici, ma amici: la passione può aver messo a dura prova i nostri legami, ma non deve spezzarli». E a quegli americani di cui ancora devo conquistarmi il sostegno dico: stanotte non ho conquistato il vostro voto, ma ascolto la vostra voce, ho bisogno del vostro aiuto e sarò anche il vostro presidente.
E a tutti coloro che stanotte ci stanno guardando da altri paesi, da regge e parlamenti fino a coloro che stanno stretti intorno a una radio negli angoli più dimenticati del pianeta, dico: le nostre storie sono individuali, ma il nostro destino è comune e una nuova alba di leadership americana è a portata di mano. A coloro che vorrebbero distruggere il mondo dico: noi vi sconfiggeremo. A coloro che cercano pace e sicurezza dico: noi vi sosterremo. E a tutti coloro che si sono chiesti se il faro dell’America splende ancora come un tempo dico: questa notte vi abbiamo dimostrato una volta di più che la vera forza della nostra nazione non nasce dalla potenza delle nostre armi o dalla protata della nostra ricchezza, ma dalla forza costante dei nostri ideali: democrazia, libertà, opportunità e invincibile speranza.

Questo è il vero talento dell’America, il fatto che l’America può cambiare. La nostra unione può essere perfezionata. E quello che abbiamo già ottenuto ci dà speranza per quello che possiamo e dobbiamo ottenere domani.
In queste elezioni ci sono state molte novità assolute e molte storie che verranno raccontate per generazioni e generazioni. Ma una storia che ho in mente stanotte è quella di una donna che è andata a votare ad Atlanta. Assomiglia in tutto e per tutto ai milioni di altri individui che si sono messi in fila per far sentire la loro voce in queste elezioni, tranne che per un aspetto: Ann Nixon Cooper ha 106 anni.

Ann Nixon Cooper è nata appena una generazione dopo la fine della schiavitù: un’epoca in cui non c’erano macchine per le strade o aerei nei cieli; un’epoca in cui una come lei non poteva votare per due ragioni, perché era una donna e per il colore della sua pelle. E questa notte penso a tutto quello che ha visto nel corso del secolo che ha vissuto in America: l’angoscia e la speranza, la lotta e il progresso, i tempi in cui ci dicevano che non potevamo farcela e le persone che hanno tirato avanti fondandosi su quella professione di fede americana: «Sì, possiamo farcela».
In un’epoca in cui la voce delle donne veniva messa a tacere e le loro speranze venivano ignorate, Ann Nixon Cooper è vissuta per vedere le donne battersi per i propri diritti, far sentire la propria voce e ottenere il voto. Sì, possiamo farcela.

Quando c’era disperazione nella regione delle Grandi Pianure e tutto il paese era attraversato dalla depressione, abbiamo visto una nazione sconfiggere la paura stessa con un New Deal, un nuovo patto, con nuovi posti di lavoro e un nuovo sentimento di uno scopo comune. Sì, possiamo farcela.
Quando le bombe sono cadute nella nostra baia e la tirannia ha minacciato il mondo, Ann Nixon Cooper era lì a testimoniare come una generazione riuscì ad assurgere alla grandezza e a salvare la democrazia. Sì, possiamo farcela.
Ann Nixon Cooper era lì per gli autobus a Montgomery, per gli idranti a Birgmingham, per il ponte di Selma e per un predicatore di Atlanta che diceva alla gente “We shall overcome”, noi vinceremo. Sì, possiamo farcela.

Un uomo è atterrato sulla Luna, un muro è crollato a Berlino, un mondo è stato collegato dalla nostra scienza e dalla nostra immaginazione. E quest’anno, in queste elezioni, Ann Nixon Cooper ha messo un dito su uno schermo e ha votato, perché dopo 106 anni in America, attraverso i momenti migliori e le ore più cupe, lei sa che l’America può cambiare.
Sì, possiamo farcela.

Americani, abbiamo fatto tanta strada. Abbiamo visto tante cose. Ma c’è ancora moltissimo da fare. Perciò questa notte domandiamoci: se i nostri figli dovessero vivere tanto da vedere il prossimo secolo, se le mie figlie dovessero essere tanto fortunate da vivere tanto a lungo quanto Ann Nixon Cooper, quale cambiamento vedranno? Quali progressi avremo realizzato?

Questa è la nostra occasione per rispondere a questo appello. Questo è il nostro momento. Questa è la nostra epoca: per rimettere la nostra gente al lavoro e aprire porte di opportunità per i nostri bambini; per riportare la prosperità e promuovere la causa della pace; per rivendicare il sogno americano e riaffermare quella verità fondamentale, che da molti siamo uno; che finché avremo vita avremo speranza: e quando ci troveremo di fronte al cinismo e al dubbio, e a quelli che ci dicono che non ce la possiamo fare, noi risponderemo con quella professione di fede immortale che riassume lo spirito di un popolo: sì, possiamo farcela.
Grazie. Dio vi benedica. E che Dio benedica gli Stati Uniti d’America.
(Traduzione di Fabio Galimberti – Il sole 24 ore)

Seduto sul bordo del fiume.

Qualche tempo fa scrissi su queste pagine che avrei voluto essere qui. Lo scorso fine settimana finalmente ci sono stato.  E’ stato molto bello sedersi su quella panchina. Pensare agli otto anni che sono passati da quando, sedere lì era l’abitudine di quasi ogni sera. Non tutto è andato come speravamo allora.

Ma il posto resta lì a parlare di me e a chiedermi se ho ancora qualcosa da raccontargli. Per fortuna avevo molte storie da raccontare. E altre hanno bisogno di essere accompagnate ad un finale.

Penso che sia stato importante tornare lì e tornarci proprio ora.

P.s. la foto stavolta è mia!