Per una nuova legge elettorale regionale

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 settembre 2010 p.1

Quando gli allora DS furono i principali artefici della modifica alla legge elettorale regionale, aumentando il numero dei consiglieri e togliendo le preferenze, le motivazioni che furono allora addotte erano che la prima modifica serviva a garantire la piena rappresentanza di tutti i territori regionali e la seconda che evitava i rischi e i costi che le campagne elettorali con preferenze comportano. A quella legge si opposero in pochi all’interno di quel partito; in molti si opposero sulla base dell’assioma preferenze = libertà, quasi solo il sottoscritto, allora segretario cittadino dei DS di Firenze, votò contro quella legge (sia in direzione provinciale che regionale del partito) sulla base di un altro ragionamento. Contravvenendo a quanto affermava Frank Zappa (nella lotta fra te e il mondo stai dalla parte del mondo) ero convinto, e lo sono tuttora, che le due esigenze da cui si partiva potessero essere entrambe risolte senza arrivare al “cignalum” attuale. Come? Inserendo i collegi elettorali. Piena rappresentanza elettorale e assenza di preferenze in un colpo solo. Mi si risponderà che, visti i risultati elettorali “storici” in toscana questo sistema avrebbe penalizzato oltremodo le opposizioni di centrodestra. Si potrebbe riobbiettare che questa è la politica bellezza e da convinto assertore del maggioritario sarei quasi tentato di farlo, tuttavia si sarebbe potuto pensare a un sistema di collegi elettorali con un meccanismo di assegnazione dei seggi proporzionale. Insomma il fantomatico modello tedesco. Sì proprio quello rilanciato da D’Alema in questi giorni per il parlamento nazionale.

Allora mi trovai pressoché solo nel fare questa proposta, e non credo che le cose sia cambiate a mio favore nel frattempo. Tuttavia, mentre si ricomincia a parlare di riforma elettorale credo sia giusto testimoniare che un’altra legge elettorale era possibile e lo potrebbe essere tuttora.

Immigrati e fattore M

Da il Nuovo Corriere di Firenze del 2 luglio 2010

La triste spedizione azzurra ai mondiali in Sudafrica ha riaperto da noi una annosa discussione sulla povertà del nostro movimento calcistico, l’impoverimento dei vivai e la necessità di dare una scossa ai nostri pallonatori.

Uno dei temi sollevati è il paragone con la brillante Germania della cosiddetta generazione M (per multiculturale) in cui ben 11 dei 23 convocati non sono tedeschi per discendenza familiare ma per diritto acquisito e naturalizzazione.

Analoga riflessione si fece, lodandone le qualità calcistiche e sociali, per la Francia vittoriosa ai mondiali casalinghi del 1998.

Senza voler entrare qui nei meriti calcistici della vicenda ci interessa soffermarci sul nesso che può esistere tra questi successi calcistici e le riforme del diritto di cittadinanza che questi due paesi, a partire dagli anni ’90 hanno compiuto. Non pensiamo infatti che i lungimiranti cancellieri tedeschi e presidenti francesi avessero in mente le vittorie sportive quando modificarono le loro leggi per l’acquisizione della cittadinanza. Quello che avevano di fronte erano due paesi con un profondo calo delle nascite autoctone e una crescente immigrazione arrivata peraltro alla seconda e forse terza generazione.

Fu proprio negli anni 90 che Germania e Francia superarono il cosiddetto jus sanguinis (sei cittadino di uno Stato se sei figlio di cittadini di quello Stato) verso lo jus soli (divieni cittadino di uno Stato se nasci e risiedi in quello Stato). Ad oggi si diventa cittadini tedeschi o francesi se si è figli di genitori francesi o al compimento del diciottesimo anno di età anche se si è figli di genitori immigrati. Per i tedeschi è necessario che i genitori risiedano regolarmente in Germania da almeno 8 anni e alla maggiore età i ragazzi possono scegliere quale nazionalità adottare.

E in Italia? Niente di tutto questo è avvenuto, nonostante due leggi (Turco Napolitano prima e Bossi Fini poi) abbiano negli stessi anni trattato il problema immigrazione, e si sia oggi (ma già da qualche tempo) in presenza dei fenomeni che c’erano nei due paesi europei venti anni fa, seppure, ricordiamolo sempre, la percentuale degli immigrati regolari resti più bassa della media europea.

Certo ciclicamente si torna a parlare di jus soli in Italia, dapprima fu Amato, allora Ministro dell’Interno, poi ultimamente Fini; ma alle parole ha sempre prevalso l’impostazione ideologica dell’immigrazione vista come fenomeno riguardante o la sfera economica o quella delle sicurezza.

Nulla peraltro nemmeno su un altro fronte, quello della cosiddetta cittadinanza per merito, un modello che per breve fu studiato dal governo Prodi e di cui ha scritto molto il sociologo Pippo Russo. Un modello che vede il superamento dei due criteri sopra descritti a favore di una cittadinanza che si ottiene “sul campo” per meriti professionali e lavorativi anche per categorie cosiddette intermedie.

Nel frattempo si è andati avanti per i lunghi procedimenti della naturalizzazione che si contrae attraverso il matrimonio, per meriti eccellenti o nel caso di oriundi e che la FIGC pare oggi riproporre per rimpolpare la prossima nazionale di Prandelli con una miopia sui destini del calcio italiano che è uguale a quella della politica nei confronti del Paese.

Risultati di questo far niente? Un Paese più povero socialmente, economicamente e, probabilmente, anche calcisticamente.

Come so’ ste olive?

Tutti a parlare di Grecia. Tutti a discutere di Pil, Buoni del Tesoro, Fondo Monetario di debito che arriverà al 140% del PIL e quasi nessuno a chiedersi come si sia potuto arrivare a tanto. Tra i pochi, qui da noi, il sole 24ore e la sua propaggine radiofonica Radio 24. Così ascolando e leggendo un idea che, aldilà della cospirazione mondiale della speculazione (una specie di SPECTRE dei banchieri) accusata ieri anche dai sindacalisti ellenici in visita al congresso della CGIL, qualche responsabilità ce l’abbia anche l’intero popolo greco ti viene

Intanto in Grecia le tasse non si pagano. Sta brutto, non si usa. Pare anzi che l’ultimo scontrino l’abbia richiesto Socrate e si sa che fine gli abbiano fatto fare.  Ancora peggio va per la casa. La mancanza di qualsivoglia strumento urbanistico di governo del territorio oltre ad aver sconvolto il paesaggio ha fatto sì che semplicemente non si pagasse niente perchè, per lo Stato, non esistevano. Tutto abusivo tutto gratis.

Accanto a questo una legislazione sull’età pensionabile che prevede il pensionamento anticipato a 50 anni per alcune categorie di lavoro usurante piuttosto singolari. I conduttori televisivi e radiofonici, per esempio, minacciati dalle colonie di batteri presenti nei reticoli dei microfoni, oppure i parrucchieri minacciati dalla tossicità delle tinture per capelli, evidentemente molto diffuse anche tra i rudi uomini greci visto che la legge non fa distinzione tra coiffeur puor hommes o pour dames.

E poi il bonus, nel pubblico impiego, per chi arriva in ufficio in orario, gli innumerevoli enti inutili tra cui uno per la salvaguardia di un lago prosciugatosi nel 1930.

Accanto a questo governi con il ricambio di classe dirigente che va per ere geologiche e quando finiscono per consunzione i padri gli succedono i figli. Governi bugiardi come quello di centrodestra sconfitto alle elezioni di ottobre che ha falsficato i conti mandati a Bruxelles (anche se su questo bisognerebbe aprire un ragionamento sui solerti funzionari europei che non si sono accorti dei conti falsi) oppure quantomeno lenti come quello socialista in carica che ha perso almeno quattro mesi prima di muoversi con energia sia verso Bruxelles che verso i propri cittadini preparandoli alle lacrime e sangue che li attenderanno.

Quattro mesi persi che hanno fatto sì che, insieme alla quasi nulla propensione al risparmio privato dei greci, oggi sia impensabile attuare forme di prelievo forzoso o di patrimoniale secca (sul modello fatto da Amato nel 92 quando la Lira fu sbattuta fuori dallo SME) perchè i capitali sono tutti già scappati all’estero (si calcola 20 miliardi di Euro) e sui conti correnti restano solo i risparmi delle vecchiette; mentre a Chelsea, Londra, i prezzi delle case di lusso sono schizzati alle stelle grazie ai milionari greci che cercano nuovi investimenti all’estero.

Riuscirà la Grecia a reggere la tensione sociale che è esplosa, riuscirà un classe politica che si è dimostrata inetta (centrodestra) o tentennante (centrosinistra) a tenere la barra ferma a varare alcune finanziarie da tregenda per ricevere i prestiti (non gli aiuti) europei? Prevarrà ancora in Europa la convinzione che il modo migliore di salvare i più forti sia aiutare la Grecia piuttosto che scaricarla?

E qui da noi, la paura di fare la stessa fine, viste alcune evidenti analogie almeno in una buona parte del Paese farà sì che quelle riforme necessarie di cui parla per esempio Marco Cappato qui (o altre che si ritengano migliori) si facciano prima della bancarotta?

Oggi Papandreu ha dichiarato, commentanto i tre morti dei disordini ateniesi, che la Grecia è sull’orlo del baratro, noi temiamo che abbia fatto un passo avanti.

Si può fare (meglio)!

Chi lavora nella realizzazione degli spot pubblicitari sa che quando il cliente è una casa automobilistica quasi nulla è impensabile. Gli spot più ricchi, più innovativi, più particolari sono quasi sempre legati alla commercializzazione di un auto.

Pensate un po’ alla pubblicità di quel fuoristrada la cui progressione cinetica è fatta dalle foto della stessa auto, oppure quella cabrio la cui semplice pressione di un tasto mette all’aria le orecchie di un simpatico cane.

Insomma grandi attori, scenari affascinanti, location esotiche, nulla manca mai nella pubblicità di un auto.

Ecco adesso pensate alla nuova pubblicità della Fiat, quella che utilizza le immagini del film di Mel Brooks Frankestein jr. Nessun collegamento tra quelle immagini e il prodotto, spezzoni di film intervallati da cartelli neri con l’offferta di auto e un senso di poco che pervade tutto lo spot.

Ecco, ci sono molti modi per raffigurare il declino. A volte basta uno spot.

On the air on babytv

Qualche giorno fa mi è stato chiesto, quale genitore 2.0, di scrivere anche sul blog babbibabbi, questo è il mio articolo che ripropongo anche qui

BabyTV

Da settembre l’offerta sky si è arricchita di un nuovo canale pensato apposta per i piccolissmi.

Siccome il mio pargolo rientra nella categoria, ha 14 mesi, è subito diventato un entusiasta del canale. Non come il babbo per foxcrime ma diciamo che è sulla buona strada.

Il canale è un orgia di disegni animati con “simpatiche” musichette, filastrocche (per lo più in inglese), bizzarri personaggi e colori i più sgargianti; che va in onda a ciclo continuo senza interruzioni pubblicitarie. Insomma un trip alla Sid Barrett con le musichette della Disney senza neanche leccare il francobollo.

Ora capita che da una certa ora, le 19.30 se non sbaglio, la programmazione cambia per favorire il riposo delle piccole creature.

I colori si fanno più spenti, le musiche più rilassanti i cambi immagine meno frenetici. Risultato? Voi dormirete beati sul divano mentre il vostro pargolo scarrozzerà col triciclo per l’intera sala canticchiando le canzoncine che la tv trasmette.

Quando la maglietta era troppo stretta per il regime argentino

dictador

Le dittature oltre ad essere terrificanti sono anche molto spesso ridicole. L’ennesima riprova arriva dall’Argentina dove il Comitato federale per la radiofonia ha pubblicato l’elenco delle canzoni sgradite al regime.

Non è una novità. Il nostro fascismo faceva altrettanto. Il Duce arrivò a censurare persino “Un’ora sola ti vorrei” canzone d’amore assolutamente apolitica solo perchè chi non gradiva troppo il regime, passando innanzi ai ritratti del Duce, era solito canticchiare:”un’ora sola ti vorrei/per dirti quello che non sai”.

I militari argentini hanno avuto lo stesso zelo. Dunque sul sito del Comfer si trovano sette pagine dattiloscritte di titoli non graditi.

Scorgendo i titoli delle canzoni si rimane stupiti. Perchè si capisce che la censura colpisse Victor Jara, un po meno quando ad essere censurati sono Malgioglio o Toto Cutugno.

Non va meglio ai Queen o ai Pink Floyd e nemmeno Rod Steward è risparmiato. Il censore poi non gradisce nemmeno la regina della Disco Donna Summer. Dai titoli ci par di capire che la politica, i riferimenti alle droghe, ma anche una certa pruderie sessuale, possono essere i criteri coi quali i solerti censori si muovevano. Poi si trova Mi pequeňo gran amor, cioè la versione spagnola di Piccolo grande amore di Baglioni, e lì si perde ogni riferimento a meno che quella sua maglietta fina non fosse troppo osè; ma si sa che è “osceno tutto ciò che provoca un’erezione a un giudice”.

Ancora una volta appare evidente l’intento disumano di ogni dittatura. Quello di sostituire il giudizio di ognuno con una imposizione massificata decretata da menti malate e troppo zelanti.

Non è sempre detto che sarà una risata a seppellirli. Forse servirà anche qualche canzonetta.

Il Presidente può essere anche di colore il tuo avatar no.

gears-train

Uno studio di quattro ricercatori statunitensi recentemente pubblicato su new media & society ha preso in considerazione l’appartenenza etnica, il genere e l’età dei personaggi dei videogiochi in circolazione negli Stati Uniti.

L’esito della ricerca è sconfortante. La stragrande maggioranza dei personaggi sono giovani uomini bianchi. Solo il 3% sono ispanici (la cui maggior parte come protagonisti non giocabili dall’utente) mentre le donne arrivano a malapena al 10%.

Gli afroamericani sono invece rappresentati in percentuali più simili alla composizione percentuale della popolazione americana ma a tale dato si arriva solo grazie ai titolo sportivi o a giochi di “gang” con personaggi quindi altamente stereotipati.

Il rischio, notano i ricercatori, è che, non sentendosi rappresentati e quindi difficilemente immedesimabili nei personaggi dei giochi, i giovani membri di queste comunità abbiano meno voglia di avvicinarsi alla tecnologia, mantenendo e ampliando il cosiddetto digital divide:

Latino children play more video games than white children. And they’re really not able to play themselves. For identity formation, that’s a problem. And for generating interest in technology, it may place underrepresented groups behind the curve.

Ironically, they may even be less likely to become game makers themselves, helping to perpetuate the cycle. Many have suggested that games function as crucial gatekeepers for interest in science, technology, engineering and math.”

In momenti in cui da noi si discute sul dialetto come preselezione per gli insegnanti si tende a dimenticare che  la costruzione dell’identità globale passa anche per i nostri avatar nei nostri videogiochi preferiti.

Piove sul bagnato

locandina piove sul bagnato

Siccome non mi faccio mancare niente, coinvolto dal mio amico Andrea Bruno Savelli, ho prodotto un film. Cioè per meglio dire sono l’amministratore di una società, la Diogene, che ha prodotto un film.

Il film si chiama Piove sul Bagnato. Lo hanno scritto, diretto e interpretato Andrea Muzzi e Andrea Bruno Savelli. Insiema a loro nel cast Alessia Fabiani, Max Galligani, Toto Barbato, Andrea Monni, Daniela Morozzi e tanti tanti altri.

Ora, dopo averlo girato, editato, montato, musicato (con le musice originali dei Martinicca Boison) esce nelle sale fiorentine il 28 agosto.

Il film è una commedia a mio parere molto divertente e ha tutte le caratteristiche per andare bene. Lo ammetto il mio è un parere di parte ma mi consola che tutti quelli che lo hanno visto in questi mesi di lavorazione e post-produzione ne danno un giudizio molto positivo.

Dunque dal 28 agosto vi aspetto al cinema, per ora vi posto i due trailer.

Dove eravamo rimasti?

eravamo

Riprendo a scrivere sul blog dopo un po’ di tempo. Un po’ di tempo in cui ho resettato le  mie priorità e ho messo via un bel po’ di cose.

Scherzando dico che sono tornato nella società civile. Ho chiuso con la politica attiva. Alcuni mi dicono per ora. Io posso rispondere che è un per ora piuttosto lungo.

Esco da 18 anni di militanza molto intensi. Ho ricoperto molti incarichi e per larghi tratti la politica è stata la mia unica occupazione. Sono stato un funzionario di partito o ho svolto lavori che mi consentivano comunque di poter far politica quasi a tempo pieno.

Ho sacrificato tanto alla politica ma tanto ho avuto in cambio. Oggi però ho detto basta. L’ho detto non solo per un risultato negativo inaspettato ma perchè ho capito che si era rotto qualcosa. Come in una lunga storia d’amore si andava avanti per consuetudine, ma la passione era persa da un po’.

Si è persa a partire dalla nascita del PD. Non tanto per colpa dell’idea del PD ma per la prassi che esso ha instaurato almeno qui a Firenze e la rottura delle gabbie che tale evento ha creato. E’ come se lo spezzare le catene delle appartenenze avesse anche tolto dei freni inibitori e rotto molti degli elementi di solidarietà che i vecchi partiti avevano.

Se c’è una cosa che mi ha colpito è il silenzio.

Dei vecchi dirigenti dei DS che con me hanno condiviso anni e anni di militanza e coi quali mi lega affetto e consuetudini solo pochissimi sono quelli che mi hanno cercato, anche solo per chiedermi come va. E in maggior parte sono quelli che hanno scelto come me alcuni candidati.

Gli altri, quelli che avevano fatto altre scelte, sono semplicemente scomparsi, mi viene da pensare maggiormente coinvolti nelle vicende della corrente che nel portare umana comprensione a chi con loro tante volte era stato. Non nego che molto mi hanno ferito alcune cose lette sui giornali il giorno dei risultati o alcune mail ricevute subito prima. Quasi un’accusa di tradimento (vecchio retaggio di un passato che fu) perché non ero più dalemiano.

Ma il silenzio è anche quello del Partito inteso come gruppi e organismi dirigenti. E’ un silenzio lungo da tanto tempo e non solo recente.  E’ una sensazione di distacco, di non appartenenza. Di freddo. Del non sentirsi a casa in un luogo in cui mica ti ci ha obbligato il dottore a stare. E’ un gelo fatto di riunioni i cui si cavilla sulle regole. In cui ci si presenta come avvocati renziani piuttosto che pistelliani. Un partito che si riunisce all’inverosimile per discutere di regole e poi scompare per discutere di politica.

Alle mie dimissioni dall’esecutivo cittadino non ho ricevuto risposta. Solo un sms in cui mi si diceva che ci sarebbe stato un incontro.

Lo stile talvolta è la rappresentazione di una sostanza. O della mancanza di quest’ultima.

E’ un disagio, il mio, nei silenzi o nella distanza anche di chi, inteso come gruppo,  compagno di viaggio lo è più di recente, un viaggio in cui ho scommesso tutto e tutto ho perso anch’io. Non credo che il sentirsi parte, la condivisione  sia una bene da esigere  soprattutto in così breve tempo, ma nemmeno da escludere, anche perché la sconfitta è  stata talmente totalizzante da cambiar persino casa.

Credo che questi disagi non siano solo miei e che il PD debba affrontare un tema se pensa di sopravvivere. Come metabolizzare un modello competitivo (le primarie) senza lasciare  morti e feriti. Non serve tornare al passato in cui ci si sistemava cencellianamente tutti chi in un ente, chi in una cooperativa.

Penso che la politica italiana debba riflettere sul “dopo” dei propri dirigenti, perché non esiste alcuna democrazia in cui i cambi di classe dirigente arrivano solo per morte naturale, per arresto o per cataclismi e arrivano talmente tardi che arrivano completamente consumati intellettualmente, per cui il nuovo appare già vecchio.

Io continuo a credere che il PD sia ormai l’unico spazio politico per cui valga la pena animarsi.  Resto iscritto a questo partito. Voterò da militante al congresso e proverò a dare un contributo facendo quello che ho fatto sempre e per il quale ho sempre pagato pegno: pensare e agire aldilà delle convenienze personali.