Milàn l’è un grand Milàn…

Da il Nuovo Corriere di Firenze del 12 maggio 2011

Che domenica e lunedì ci sia molto di più di un semplice voto amministrativo in gioco è lo stesso Berlusconi a dirlo. Milano e Napoli le piazze pregiate che daranno l’immagine della vittoria o della sconfitta.

Il ballottaggio a Milano, dato per certo da tutti qualche settimana fa si gioca oggi sul filo di lana e il merito di ciò è quasi tutto dell’iperattivismo del premier oltre ad uno uso spregiudicato e scorretto dei media. Ciononostante l’appeal di donna Letizia è piuttosto basso e il candidato Pisapia ha tutte le caratteristiche per incontrare i favori della borghesia milanese che negli anni passati non ha avuto problemi a votare a sinistra, seppur quella socialista e riformista.

E proprio per questo Berlusconi ha, ancora una volta, girato la sfida locale in un test nazionale, o meglio in un referendum su sé stesso; sfruttando le udienze dei suoi processi per moltiplicare comizi che aggirano ogni par condicio.

Tuttavia questa volta può darsi che il referendum su Silvio ci sia davvero e che i risultati riguardino molto di più il futuro del centrodestra che i destini delle opposizioni.

Bersani, Casini, per nulla dire di Fini, appaiono infatti sullo sfondo della contesa elettorale. In gioco pare esserci la conclusione dell’esperienza di governo Berlusconi e il suo futuro magari Quirinalizio.

In questo senso il comizio congiunto di Bossi e Tremonti nella rossa Bologna, significamente introdotto da Fratelli d’Italia e Va Pensiero, appare come la manifestazione non solo del noto asse tra i due ma di un OPA sul centrodestra che prevede non certo la rimozione immediata di Berlusconi ma un suo progressivo depotenziamento, un rafforzamento ulteriore del duo nelle politiche governative e soprattutto carta bianca nella discarica degli oppositori interni al PdL, Alfano e Formigoni in primis.

Altra prova del test fra Lega e Pdl è il poco impegno dimostrato dalla Lega nella campagna milanese a differenza di quanto invece si stanno spendendo i leader nazionale del Carroccio nei comuni dell’hinterland milanese, tanto che lo stesso Bossi ha definito Gallarate il test match decisivo.

Alla fine col voto milanese, e in maniera minore quello napoletano e tutti gli altri, Berlusconi deve dimostrare di essere ancora, per dirlo con l’illuminante definizione di Iacopo Tondelli de l’Inchiesta, il portavoce rumoroso della maggioranza silenziosa. Se così non sarà nuovi equilibri saranno pronti a prendere campo nei prossimi mesi e, l’asse del nord, si candiderà alla guida del Paese senza più l’esuberante (e forse ormai pesante) faccione di Silvio.

Il riscatto del lavoro

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 maggio 2011.

Siamo davvero certi che il tema del lavoro, della sua rappresentanza e del suo rapporto con la sinistra sia tutto riassumibile nelle polemiche di questi giorni? O che la maggiore manifestazione simbolica di attenzione da parte dei sindacati confederali nei confronti dei giovani possa essere il “concertone” del primo maggio?

E il grande dibattito sull’organizzazione del lavoro scaturito dagli accordi di Melfi e Mirafiori dov’è finito? Ci è bastata l’ipocrita dichiarazione finale in cui si diceva che la FIAT fa storia a sé, buona per giustificare sia chi ha firmato gli accordi, sia chi non li ha firmati e pure Confindustria abbandonata da FIAT. Eppure una generazione intera che passa dall’incertezza di un lavoro all’altro, che non ha idea di come pianificare il proprio futuro si aspetterebbe altro.

Altro anche da una discussione ideologica sulle aperture nei dì di festa, volutamente provocatoria in chi la propone (altrimenti si sarebbero scelte sia festività religiose che civili) e nelle argomentazioni di chi la difende in una città sì e in 10 no.

Servirebbe, chiederemmo noi trentenni, qualcosa di più anche del successivo strascico su chi guadagna di più tra politici e sindacalisti, interessandoci molto di più quanto poco guadagniamo noi lavoratori rispetto ai nostri coetanei europei.

Ci piacerebbe che a questo si sostituisse un dibattito sugli ammortizzatori sociali, sull’indennità di disoccupazione e sui contributi silenti che lo Stato si intasca anche se non riusciremo a maturare una pensione. Ma anche sul sostituto d’imposta che obbliga gli imprenditori a fare un lavoro che non è loro, aumentando i costi e diminuendo la competitività, della tassazione che fa si che le imprese spesso lavorino fino ad agosto per lo Stato e da settembre per sé, oppure sulle trattenute sindacali, chiedendo che non sia una volta per tutte, ma come ogni adesione a qualsiasi altra associazione sia su base annuale e volontaria. Magari servirebbe a inserire anche un po’ di competitività e di attenzione verso i propri iscritti.

E ci piacerebbe non sentire più da importanti imprenditori, che dovrebbero assumere incarichi associativi a Firenze tra breve, che il motivo del nanismo delle nostre imprese è dovuto all’articolo 18, quando invece ha molto più a che fare col modello dinastico/familiare della nostra imprenditoria e con un sistema che, in alto, ha favorito i soliti pochi uccidendo (con mezzi più o meno leciti) chiunque provasse a farsi grande.

E infine ci piacerebbe che si ragionasse in termini di occupazione e costruzione di profitto quando un gruppo internazionale acquista una nostra impresa, invece di dare l’impressione di discutere di italianità più in termine di poltrone e di interessi per i grandi manager e di chiedere di difendere la proprietà italiana sempre con soldi pubblici quasi mai con investimenti privati. Magari scopriremmo che il gruppo francese che acquisterà Parmalat consuma più latte italiano di quanto ne consumi oggi Parmalat stessa.

Insomma ci piacerebbe che, nei negozi aperti per il primo maggio, si fosse potuto parlare di lavoro e prospettive piuttosto che dell’ennesimo muro contro muro.

Nemmeno la guerra

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 aprile 2011

Fossi io il dottore di Romano Prodi mi preoccuperei e molto. Avvertirei il professore e sensibilizzerei la moglie e i figli di non leggere alcun quotidiano, né nazionale né internazionale, suggerirei un viaggio in qualche sperduta isola della Micronesia e assoluto riposo. Già perché le coronarie del professore, seppur dotato di inumana pazienza forse potrebbero non reggere a quanto in questi giorni avviene in Italia. Sì perché vi ricordate come fu crocifisso il governo Prodi e la sua maggioranza perché il Carneade Turigliatto decise di non votare il finanziamento alla missione in Afghanistan? Non c’era editorialista, di destra o sinistra, opinionista, barbiere o tassista del Paese che non deplorasse la mancanza di coesione e coerenza della maggioranza di centrosinistra. Chi dimentica le ardite teorizzazioni sul centrosinistra con o senza il trattino, le vocazioni maggioritarie e ogni ammennicolo teorico che l’esercito di politologi ha confezionato a partire dalle defezioni di Rossi e Turigliatto? Oggi invece un Ministro e per di più leader del secondo partito della coalizione di governo, partito che al Nord rivaleggia col PdL per consensi, governa regioni, province e comuni dice che non è d’accordo col Presidente del Consiglio sull’intervento militare in Libia e non succede niente di paragonabile almeno per il momento. Il premier stesso continua a dire che non c’è problema (e figurarsi), Frattini con ancora in mano il blocchetto delle ordinazioni minimizza e dice che non c’è bisogno di un passaggio parlamentare, mentre nella Lega cresce il malumore più in funzione elettorale o di appoggio a Tremonti sulle vicende parmalat e Draghi. Ci siamo ormai rassegnati ad una compagine di governo che riesce a mandare in vacca di tutto, persino la guerra. Nemmeno le più immani tragedie scalfiscono un governo e un premier che pur di restare sulla poltrona son disposti a tutto peggio dei peggiori “professionisti della politica” da loro tanto disprezzati; talmente disperati da svendere le loro stesse leggi come per l’energia atomica o a mandare in guerra (e dunque sottoporli al rischio concreto di essere ammazzati) cittadini italiani senza appoggiarli, senza nemmeno poterli ringraziare. Nella quasi indifferenza del Paese ed in particolare di quella copiosa parte del Paese che li ha votati e li voterebbe ancora. E allora ci immaginiamo che Prodi accetti il nostro consiglio e che magari, generosamente, ci porti con sé su un atollo della Micronesia.

Un po’ più “oltre” di così

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 14 aprile 2011.

Ben strano partito il PD. Passa da un segretario che imposta un’intera campagna elettorale sul fatto di non citare mai il nome del principale esponente dello schieramento avversario a un altro che chiede alla presidente di Confindustria, dopo che questa si è lamentata del fatto che la politica e il governo hanno lasciato sole le imprese e il Paese, di fare un passo avanti chiedendo non di appoggiare il centrosinistra e il PD ma di liberarsi di Berlusconi.

Chiariamo non mi ha colpito la proposta di per sé, peraltro immediatamente rigettata da Marcegaglia con due argomentazioni piuttosto convincenti: Confindustria si è spinta già oltre con la prima dichiarazione supplendo a un compito di altri (tra i quali l’opposizione stessa) e la dichiarazione era rivolta sì principalmente al governo ma più in generale alla politica tutta e anche al PD.

Se dunque la dichiarazione di Bersani interessa poco sul piano dei contenuti rischia di essere rivelatrice del punto minimo (e forse massimo) delle aspettative del PD in questo momento: va bene qualunque governo, anche senza il PD, purché a guidarlo non sia Berlusconi. Il che sarebbe piuttosto bizzarro per un segretario di un partito politico che dovrebbe volere la vittoria del proprio partito come bene primario e la sconfitta dell’avversario come conseguenza della sua vittoria e non come fine a sé stesso.

Insomma pare dire Bersani: non m’importa che vinca la Fiorentina basta che perda la Juventus. Un modo piuttosto minimo, mi sia concesso, di declinare quell’”oltre” che campeggia sui manifesti del PD, soprattutto se raffrontato al tanto lavoro di elaborazione che il partito di Bersani ha fatto e sta facendo sui punti e su un possibile programma di governo.

E dispiace vedere uno come Bersani che è l’immagine stessa della concretezza di governo del PD perdersi da quando è segretario in alchimie elettorali e antiberlusconismo a prescindere: una “roba”, come direbbe lui, che non sta in piedi.

Alemanno e Renzi; due sindaci due stili

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 7 aprile 2011

Due sindaci due stili. Il primo è il Sindaco di Firenze, Matteo Renzi. Come sindaco ha sempre costituito la città parte civile nei processi che si sono aperti e che riguardavano l’urbanistica. E lo ha fatto nonostante in quei processi fossero implicati ex amministratori, dirigenti e funzionari dello stesso comune.  Una scelta di tutela della città, saggia, di fronte a ipotesi accusatorie che, se provate, dimostrerebbero un danno reale e pesante per la città. Naturalmente, giova sempre ricordarlo, i processi sono in corso ed è tutta da dimostrare la tesi accusatoria della procura come prevede saggiamente il codice.

L’altro sindaco è quell’Alemanno, riconquistatore per la destra del Comune di Roma, dopo i mandati di Rutelli e Veltroni. Ieri all’apertura del processo sugli appalti per i mondiali di nuoto il Comune di Roma non si è costituito parte civile. E ciononostante le ipotesi accusatorie della Procura romana parlino di diversi milioni di euro sottratti alle casse dello stesso comune. Anche in questo caso totale presunzione d’innocenza nei confronti dei 33 imputati, tuttavia ci si sarebbe potuti aspettare un principio di precauzione da parte del Comune e dei soldi dei suoi cittadini.

E non è la prima volta che il sindaco Alemanno non “schiera” la propria amministrazione al fianco della magistratura. Era accaduto per esempio nel processo contro Don Ruggero Conti condannato recentemente in primo grado a 15 anni e 4 mesi per abusi su sette minori. Parroco che si era molto speso nella campagna elettorale dello stesso sindaco.

Ecco, tra le piccole e grandi differenze di intendere e praticare il mestiere di Sindaco, c’è anche questa e non ci pare che sia una cosa da poco.

P.s. Oggi sono anche su Labouratorio 2.0 con una lettera aperta al segretario generale delle Nazioni Unite a cui chiedo di invadere l’Italia.

Il compleanno di Formigoni

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 31 marzo 2011

Cosa regalare a un uomo che ha praticamente tutto per il proprio compleanno? Una classica domanda che lunedì deve essere serpeggiata nella redazione de il Giornale in vista della ricorrenza del plurigovernatore della Lombardia Formigoni. Alla fine il giornale di proprietà del fratello del Presidente del Consiglio ha optato per una bella intervista, tuttavia non ha mandato un proprio inviato, magari di prestigio, al Pirellone, ma ha scelto di prendere l’intervista, immaginiamo prodotta dall’ufficio stampa dello stesso presidente, dallo stesso sito di Formigoni. Insomma l’apoteosi del marzulliano motto: “si faccia una domanda, si dia una risposta”.

E invece di domande da fare a Formigoni ce ne sarebbero state così tante. Dalla sua rielezione, in spregio se non alla lettera almeno allo spirito della normativa che vorrebbe il limite di due mandati per la carica di governatore regionale. Oppure la vicenda delle firme false, archiviata di fretta sul piano amministrativo, ma ancora pendente sul piano penale. Infine le dichiarazioni dello stesso governatore sull’intervento libico, giudicato troppo frettoloso. Una posizione “eretica” come la fu quella dello stesso Governatore ai tempi della guerra in Iraq.

Nulla di tutto questo troverete su il Giornale o sul sito del Presidente, così come mai queste domande furono poste, per esempio, nelle sue numerose partecipazioni nella tana del “nemico” Santoro. Una grazia di Stato che accompagna il governatore lombardo, anche nei rapporti con l’opposizione democratica, e fa prefigurare a qualcuno un suo prossimo futuro da dopo-Berlusconi. Il casto Formigoni, come lo chiama profeticamente Marco Pannella, pronto a far dimenticare i “turpi lupanari di Silvio”.

Quel che resta della Piazza


Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 febbraio 2011

Che c’entrasse poco con la dignità (in generale) delle donne, la manifestazione di domenica, lo han detto altre e altri ben più bravi di me. Che c’entrasse ancor meno col precetto rabbinico da cui prese ispirazione Primo Levi per il titolo della sua ultima opera e da cui il titolo, se non ora quando?, della manifestazione è anch’esso noto. Tuttavia le piazze di domenica sono state un indubbio successo politico da non sottovalutare né da archiviare in fretta proprio per il loro significato politico antiberlusconiano. Intanto perché mostrano limiti e potenzialità di una opposizione politica che, forse, potrebbe in caso di elezioni diventare un eterogenea ma possibile maggioranza parlamentare.

E’ vero, come scrive un amico, che nessuna opposizione ha mai vinto con una manifestazione ma nessuna ha mai vinto senza, per cui quello che è sceso in piazza sabato è qualcosa di più di un corteo. E’ un popolo disponibile, direbbero i dottori della politica, alla grande alleanza dalemiana, no è il popolo del Tutto tranne Berlusconi ribatterebbe Ferrara. Di sicuro è una parte della popolazione italiana che è stufa di Berlusconi in quanto tale e che alla fine di quest’ultimo subordina qualsiasi cosa.

Il che è giustificabile in una folla un po’ meno in un partito politico. Lo sa bene il PD, che per la prima volta vede intorno a sé condizioni politiche a lui favorevoli. Intanto Di Pietro incapace di riprendersi da Scilipoti, chiuso in un angolo, coi consensi erosi da SEL e umori intercettati dalla società civile del Palasharp, poi Vendola e i competitor interni che l’accelerazione della crisi potrebbe mettere fuori gioco, così come le primarie (interne o di coalizione) che il precipitare degli eventi metterebbe gioco forza in naftalina, consentendo a buona parte del gruppo dirigente nazionale (in special modo quello di seconda fascia) di sopravvivere un’altra legislatura.

Un PD che è stato sicuramente essenziale nella manifestazione di domenica ma che deve fare i conti con un successo che è solo in parte suo, che fa intravedere (ancora una volta) il rischio di un partito portatore d’acqua a una guida esterna, sia essa Casini o il papa nero di Largo Fochetti.

Bersani questo lo sa e ha provato a trarvi rimedio. Intanto mettendo in campo una proposta politica economica con le 41 liberalizzazioni. A parte una scarsa capacità di comunicazione con le 41 proposte che in realtà sono 34 in attesa delle altre 7 (eppure bastava chiedere da queste parti come si fa a moltiplicare i punti di programma) e qualche scarso coraggio (si parla blandamente di riformare gli ordini professionali) hanno il merito di rispondere a chi dice che il PD non ha un idea.

Il bivio però che il PD ha di fronte è se cavalcare la protesta da CLN, come proponeva ieri Veltroni con l’idea di una manifestazione con le sole bandiere italiane, oppure provare a dare gambe e proposte politiche a questo movimento. Inutile dire quale preferisca chi scrive, anche se non si nasconde il rischio di perdere non poca di quella spontaneità che domenica era in piazza. Ma l’idea che, una volta sgomberato il campo da Berlusconi, tra le macerie il centrosinistra non abbia la minima idea di cosa fare e passi il tempo a litigare è una paura ben più grande.

La rottamazione di Tremonti

Da il Nuovo Corriere di Firenze del 10 febbraio 2010

Non ha dato interviste sul tema. Non è apparso in tutti i talkshow e non ha riempito una vecchia stazione di Varese, ma zitto zitto Tremonti, insieme a Calderoli, pare aver impostato una rottamazione della classe politica che, se arriverà in porto, rimescolerà e di parecchio le carte della politica italiana. Parliamo del settimo decreto attuativo del cosiddetto federalismo. Le cronache poco si sono soffermate su questo testo di 18 articoli pesanti come macigni. Cosa dice in sintesi questo decreto? Che gli amministratori pubblici dovranno rispondere dei loro bilanci e che in caso di “fallimento” ne pagheranno le conseguenze non potendosi più candidare al ruolo ricoperto e, in casi di gravi violazioni, a qualsiasi carica politica italiana o europea.

Sei il governatore di una regione e la tua sanità perde a bocca di barile? Non c’è narrazione che tenga, nel progetto tremontiano il presidente del consiglio non lo puoi fare. E questo vale anche per sindaci e presidenti di provincia, ineleggibili fino a 10 anni. Ma il meccanismo non si arresta agli amministratori, incentiva anche i partiti a scegliere amministratori capaci, pena una decurtazione fino al 30% del contributo elettorale percepito.

Naturalmente siamo ancora alla prima proposta del governo, maggioranza e opposizione non mancheranno di provare a modificare profondamente il testo approvato dal consiglio dei ministri nel novembre scorso, mentre l’Anci ha già dichiarato il suo no definendo il testo incostituzionale.

Tuttavia quella tremontiana appare una rivoluzione non c’è che dire e come tutte le rivoluzioni troverà sulla strada nemici in tutti gli schieramenti e forse, oggi, è una delle poste maggiori sul piatto della possibile fine anticipata della legislatura.

Dalla morale al moralismo

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 febbraio 2011

All’epoca del caso Lewinsky qua da noi il commento generale era, più o meno, “in Italia non sarebbe possibile”. Troppo poco moralista la nostra società, più aperta, più evoluta, si diceva.

Invece a leggere alcune cronache di questi giorni si rischia di cambiare idea e di chiedersi se i padri pellegrini invece che sulle coste del Maine siano sbarcati intorno a Ostia.

Non parlo solo di Ruby e delle notti di Arcore; penso all’ex governatore Marrazzo “sputtanato” di nuovo perché trovato in auto con un trans senza che il controllo di polizia avesse nulla da rilevare, oppure quel parlamentare “sorpreso” a guardare un sito porno col suo ipad. E mi spavento se il metro del giudizio dovesse diventare quello che contengono i nostri hard disk perché in tanti anni di lavoro sui pc degli altri non ricordo una cronologia internet al di sopra di ogni sospetto.

Ma ancora le proteste per Miss Padania a San Miniato, quelle del consiglio comunale di Firenze contro il calendario Toscani, un moralismo serpeggiante che coinvolge anche le istituzioni e che fa venire i brividi, evocando modelli di stato etico che pensavamo sconfitti.

Che poi qualche dubbio sulla reale “moralità” di queste campagne ti prende se a farle è quella Repubblica dello stesso gruppo editoriale che pubblica l’Espresso, indimenticato campione della classifica “tette e culi” di Cuore. Un uso politico della morale che stride, contrasta, inferocisce quando lo vedi venire in particolare da sinistra, ti pare soltanto in nome del TTB (Tutto tranne Berlusconi), incapaci di capire che cose sbagliate, come diceva Sciascia, non saranno mai in grado di costruire cose giuste.

Certo non si discute che sia in atto nella nostra società un modificazione della gerarchia dei valori, ma di questo il sesso e la sessualità sono sintomi e non cause, come le scorciatoie del successo dei talentshow, l’esasperazione dello sport agonistico, e le famiglie che desiderano questi destini per i loro figli come i nostri genitori desideravano per noi che studiassimo e trovassimo un “lavoro serio”.

E poco serve a contrastare questo cambiamento (qualora naturalmente lo si ritenga sbagliato) l’indignazione, il richiudersi nel rassicurante recinto della superiorità morale, che anzi finisce per isolare ancora di più dal resto della società e ciò temo valga in modo maggiore quando ci si rivolge alle donne.

La sinistra, le donne, in questo Paese hanno fatto durissime battaglie perché il corpo delle donne fosse a queste restituito. Libere di farci quel che a loro pare, anche se a noi non piace. Non sarà giudicandole che restituiremo loro la capacità di scegliere cosa sia meglio.

L’importanza del ricordo

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 27 gennaio 2011

Fu Tullia Zevi, ha ricordato martedì in Parlamento Furio Colombo, a suggerire la data del 27 gennaio per il giorno della Memoria. La storica presidente delle comunità ebraiche scomparsa in questi giorni infatti collaborò alla stesura della legge istitutiva che, nei lavori preliminari, prevedeva come data del ricordo il 16 ottobre: il giorno dell’anniversario della deportazione degli ebrei dal ghetto di Roma.

La Zevi, sono le parole del senatore Colombo, chiese che la data fosse quella del 27 gennaio, oltre che per conformare la celebrazione italiana a quella degli altri Paesi, perché, con la caduta dei cancelli di Auschwitz si sarebbe ricordato un giorno di speranza e, soprattutto, si sarebbe celebrata la memoria di tutti i sommersi dell’universo concentrazionario nazista.

Gli ebrei, in primis certo ma anche i deportati politici, i rom, gli omosessuali. Tutti quelli che con l’assurda efficienza dei campi di morte venivano schedati, classificati e marchiati in base a un pregiudizio folle e razionale.

A differenza di tante celebrazioni, pompose talvolta e poco sentite, a distanza di 10 anni il giorno della memoria rimane vivo e vissuto nella stragrande maggioranza dei cittadini. Un evento vero, che non perde autenticità, nonostante il passare degli anni. E questo si deve ai tanti che in questi anni hanno saputo onorare il giorno della memoria in modo sempre nuovo, mai scontato. Iniziative di storici, artisti, amministrazioni, hanno sempre avuto la volontà di coinvolgere e non solo di celebrare. Un lavoro che si ripete ogni anno, con sempre la stessa forza, soprattutto verso i ragazzi delle scuole. Ragazzi che ho sempre visto attenti, di un attenzione che non riservano normalmente alle iniziative extrascolastiche. Non solo quelli che partecipano ogni anno al treno della memoria, indifesi e incapaci (come chiunque) di fronte alla sproporzione di quel male che ti trovi attorno nel freddo polacco. No, appaiono attenti anche alla lezione, o allo spettacolo, al ricordo del deportato.

E’ per loro innanzitutto che oggi celebriamo la memoria dei sommersi e dei salvati. Perché non abdichino mai all’ottusità dell’odio. Alla scorciatoia della barbarie che la regolarità delle baracche di Auschwitz ci ricorda potersi vestire di normalità e crescere senza troppo rumore attorno a noi.