Forse non avevo troppo torto.

Quando scrissi, durante le primarie per la scelta del candidato sindaco del PD di Firenze, che lo slogan di Matteo Renzi, Prima Firenze, mi ricordava terribilmente l’America First di McCain e che mi sembrava uno slogan “di destra” (nel senso di una rassicurante chiusura identitaria) suscitai subito ampie critiche da parte degli spin doctor di Matteo.

Oggi, grazie ad Europa, scoprendo il blog di comunicazione politica nomfup vedo che la versione declinata al regionale di Prima Firenze è lo slogan del candidato alla presidenza della Regione Veneto della Lega Nord Zaia chd declina Prima il Veneto proprio come difesa identitaria. Segno che la mia lettura dello slogan era, seppur così non fosse certo nelle intenzioni degli ideatori, possibile e anche piuttosto facile.

(AVVERTENZA: prima che, come mi è successo altre volte, qualcuno si senta offeso, tengo a precisare che dire che uno slogan sembra di destra non significa dire che uno sia di destra o attui necessariamente politiche di destra. Così come scrivere questo post non significa  fare opposizione a chicchessia.)

E a chi manca il tonno?

Pippo Callipo è un imprenditore calabrese famoso per il suo tonno ma anche per essere uno dei simboli della Calabria che non si piega alla ‘ndrangheta e che riesce comunque ad avere successo.

Una bella figura indubbiamente e, come spesso capita, un simbolo che a un certo punto viene chiamato/sente il bisogno di portare la sua esperienza nella cosa pubblica. E’ accaduto altre volte, talvolta bene, talvolta male.

Callipo dunque non è nè il primo nè scommettiamo l’ultimo imprenditore che, ad un certo punto, si candida a governare una regione. Lo fa appoggiato da una coalizione piuttosto eterogenea che tiene dentro Italia dei Valori e Radicali e, si dice, una bella parte di scontenti del PD (tanto che il vincitore delle primarie calabresi del PD, Loiero,  gli aveva subito offerto la vicepresidenza). Ma quale che sia la sua sorte elettorale Pippo Callipo è in campagna elettorale e, si sa, le campagne elettorali costano.

Quello dei costi della politica è un tema annoso, spesso trattato con superficialità e populismo,  perso tra troppe leggi non chiare e un modo di fare, diciamo, piuttosto casual di tutti i soggetti implicati. Insomma per capirci la rendicontazione delle spesse è spesso una formalità a fronte di un “sommerso” enorme e , sia per mancanza di adeguate detrazioni fiscali sia perchè in Italia la pubblicità non piace, le contribuzioni alle campagne elettorali restano quasi sempre sconosciute.

Un tema serio in cui pochi, spesso i radicali, provano a fare qualcosa di concreto, per esempio l’anagrafe dei compensi degli amministratori pubblici.

Insomma in questo guazzabuglio il buon Callipo se ne esce con l’affermazione che la sua campagna elettorale sarà interamente finanziata da sè medesimo. E, in un intervista questa mattina, prevede una spesa di 300.000 Euro per la sua campagna.

Callipo giustifica questa scelta dicendo che in questo modo sarà più libero e non avrà pressioni né “doveri di riconoscenza” verso chi lo ha finanziato. E fin qui tutti, di primo acchito, abbiamo pensato che, in una terra collosa come la Calabria, questo non possa che essere un bene. Ma poi, se ci fermiamo a riflettere ci appare subito un’enorme mostruosità.

Cioè, se il modello Callipo fosse l’unico modo di poter far politica onestamente e liberamente, l’accessibilità alle cariche pubbliche sarebbe appannaggio solo di un parte minima (direi infinitesimale) della popolazione italiana, cioè di quelli che possono permettersi di “far transitare dal proprio conto corrente a quello del comitato elettorale” (il virgolettato è  di Callipo) 300.000 € senza alcun problema.

E gli altri? per esclusione sarebbero tutti dei mafiosi o dei prestanome di questi ultimi.

La differenza tra il populismo e la democrazia liberale sta tutta qui. I primi ammantano di democrazia una progressiva limitazione delle libertà effettive, reali, della popolazione; i secondi immaginano regole chiare e comportamenti trasparenti che fanno sì, attraverso la pubblicità, che se qualcuno riceva un contributo da qualcun’altro lo dichiari, lo esponga al giudizio e sia libero non per proprie risorse ma perchè la forza della collettività e del “sistema” lo rendono libero.

Non c’è due senza tre

In Emilia Romagna il PCI/PDS/DS prima e il PD poi governa ininterrottamente la Regione dalla sua fondazione nel 1970. Larga parte dei comuni e delle provincie della regione, a partire dal capoluogo Bologna, sono stati governati dal PCI/PDS/DS e poi dal PD quasi sempre dal 1945 in poi. Quando il capoluogo passò nelle mani del centrodestra grazie a Guazzaloca, era il 1999, fu un evento inimmaginabile e comunque quella della destra fu una parentesi (almeno sinora) quinquennale in sessant’anni di storia repubblicana bolognese.

Il PD alle ultime europee ha ottenuto il 38,9% segno che, come notava correttamente Galli della Loggia nei giorni dell’affaire De Bono, con la fine della prima Repubblica la tradizione ex comunista e quella democristiana di sinistra avevano creato un unicum che, di fatto, aveva reso quella l’unica classe dirigente possibile per quella realtà (cosa che, secondo il professore, aveva però finito per far credere a quella classe dirigente di essere al di sopra dei giudizi morali e politici).

Ora in siffatte condizioni il PD, fosse solo per consuetudine ed inerzia, governa (anche senza volerlo) praticamente qualunque cosa. Dalle amministrazioni, alle confederazioni, dai sindacati alle aziende pubbliche, esprime centinaia se non migliaia di dirigenti, quadri, manager.Una regione che, tra l’altro, esprime anche il segretario nazionale del PD.

Ecco in una situazione di questo genere il PD ricandida per il terzo mandato il Presidente della Regione Vasco Errani.  Una candidatura che, aldilà dei meriti e delle capacità dell’uomo, pone non pochi interrogativi di opportunità. Già perchè esisterebbe in questo Paese una legge dello Stato che pone come limite di due mandati quelle figure monocratiche, quali sindaco, presidente della Provincia e, appunto, della Regione alla ineliggibilità degli stessi. Ma la norma, si sa, va interpretata e il PD emiliano, così come il PDL lombardo per Formigoni, la interpreta in modo favorevole alla rielezione di Errani.

Poco importa che la maggior parte dei giuristi italiani affermi che invece la norma si applichi proprio alle figure di Errani e Formigoni e poco importa che il risultato (dato che i due sono dati per strafavoriti) possa essere sottoposto al giudizio della magistratura amministrativa. Si sa anche  che in casi come questi è già pronta la leggina, bypartisan naturalmente, che sanerà a posteriori, la questione.

Ma aldilà degli aspetti legali restano tutti quelli politici. Resta il fatto che in Emilia Romagna col 38,9% il PD non trovi un assessore regionale, un sindaco, un parlamentare, un segretario persino un passante per sostituire dopo 10 anni il presidente della Regione; di più non ponga nemmeno una riflessione (almeno a livello nazionale) sull’oppportunità di sfidare una norma dello Stato e che, nel caso si decidesse a sfidarla, lo faccia a viso aperto motivando politicamente la scelta e affrontando per esempio la questione del limite di mandato, per esempio, proponendo la modifica della legge e dicendo che, per il PD, è una cosa sbagliata quella norma.

Invece no, si ricandida Errani nel silenzio generale, dando per scontata la cosa. Magari facendo spallucce e difendendosi con il dire che non c’era niente di meglio (col 38,9% dei consensi) oppure, un po’ più sinceramente, dicendo “ma a Errani se non gli facciamo fare il Presidente non possiamo offrirgli nient’altro”. E il PD lo fa mentre contemporaneamente pone, sacrosantamente, il tema della legalità e della pulizia del Paese.

In tutto questo anche l’integerrima IDV, ancor prima della “svolta di Salerno” dipietrista, non trova nulla da ridire, così come il resto degli alleati.

Gli emiliani avranno dunque per almeno un quindicennio un buon presidente di Regione e un partito egemone che li amministrerà fondamentalmente bene, ma che spaccerà loro la sua Ragion di Stato per Senso dello Stato.

Con quella faccia un po’ così

E’ stata la faccia contenta di Emma Bonino che usciva dal colloquio con Bersani. Una Bonino raggiante, distesa. E’ stata quella faccia a convincermi che stavolta i radicali ci credono. Sì perchè il gesto, tatticamente perfetto, di candidare la Bonino nel vuoto pneumatico delle candidature PD in una regione che lo stesso PD dopo il caso Marrazzo dava in bilico o peggio, aveva il segno della radicalata. Un grande gesto, una grande persona, un gran coraggio; un alta possibilità di ottenere un rifiuto e quindi di fare la vittima e incassare così un dividendo politico per sè e la lista Pannella Bonino, che dopo l’esclusione dal parlamento europeo, rischiava la propria sopravvivenza politica ed economica.

Dunque all’inizio, sinceramente, un po’ ho pensato che si trattasse dell’ennesimo colpo di genio del buon Pannella. Uno capace  di prodezze che ti lasciano a bocca aperta, che mandano in estasi la critica (meno il pubblico) ma che poi non influiscono sul risultato della partita, anzi talvolta sono producenti come le palle perse da Melo di fronte alla difesa della Juventus quest’anno.

E vedere il PD e Bersani che tergiversavano (sai la novità) e i radicali che di fronte alle seppur timide aperture del segretario rilanciavano col tavolo nazionale mi faceva pensare che della solita trama si trattasse. Io mi candido, voi mi dite di no, io a questo punto corro da sola, vi apro un emorragia di voti che ve la sognate, perdiamo tutti le elezioni ma intanto ribadisco la mia esistenza politica.

E invece, e invece pare che il PD, per scelta o per contrarietà, pensi proprio che la candidatura della Bonino possa essere quella giusta per farcela e la faccia della Bonino pare essere quella di una candidata convinta e convincente che vuole davvero provare a vincere e tenere insieme una coalizione. I meriti,  le capacità e la politica non gli mancano per essere un’ottima candidata del centrosinistra (speriamo non troppo ampio) laziale.

Tuttavia a questo punto Emma e i Radicali devono ancora fare un salto di qualità. Sono chiamati, per la prima volta mi pare, ad essere guida e faro della coalizione. Ad avere, si dice dalle mie parti, il boccino in mano. E questo non è cosa da poco per un movimento politico che è stato leader ma in altre fasi storiche e in contesti, quelli referendari, così diversi per durata e limitatezza di obiettivi. Costruire, legare e governare una coalizione prima, durante e (si spera) dopo il voto è affare lungo, spesso noioso e molto, ma molto, frustrante. Così come governare e amministrare una regione.

Per questo servirebbe sgombrare il campo da tutti i dubbi e i retropensieri. Sì perchè ho sentito la Bonino rispondere a radio radicale (e dove altrimenti?) sulla storia delle primarie che lei non è disponibile a farle adesso ma che se ne può parlare per quelle del 2013 per scegliere il leader del centrosinistra alle elezioni politiche. Lo so, si trattava di una battuta, ma a me ha comunque messo un brivido. Se candidatura per il centrosinistra nel Lazio sarà, la Bonino dichiari che intende fare il governatore del Lazio per l’intera durata della consiliatura e che non utilizzerà quella carica come trampolino per altro in quel periodo di tempo. Non serve solo (e forse poco) a tranquillizzare l’elettorato ma soprattutto serve a far capire alla sua coalizione che ella intende esserne principe e non solo autista di autobus.

Infine altro punto stavolta rivolto a tutti i radicali. Se con Bersani è stato necessario mettere in campo un discorso che avesse una valenza nazionale e che dunque la posizione del Lazio è legata al rapporto tra PD e lista Bonino Pannella, per l’amor del cielo bloccate la candidatura Toscani in Toscana. Primo per le dichiarazioni folli (d’altra parte la qualità prima di Toscani è proprio la follia) di Toscani stesso verso il PDL per chiedergli di sostenere la sua candidatura proprio contro il PD. E’ un po’ difficile chiedere un rapporto nazionale e poi candidarsi contro nella regione in cui il PD prende più voti; per far ste cose bisogna avere la faccia di gomma dell’UDC, mica la faccia allucinata di Toscani. Secondo pensare di combattere il “regime finto partitocratico” in Toscana alleandosi col PDL toscano e candidando Toscani visto che entrambi con quel regime hanno molto a che fare è, per dirla con le parole del compagno Ciuffoletti, una di quelle cose che dovrebbero almeno far venire un po’ di (San) rossore.

Non ci sono più gli attentati di una volta (e non è necessariamente un male).

bresci

Fossimo ancora nella prima Repubblica, tre quarti dei commenti di questi giorni verrebbero bollati, dalla classe politica, dai giornali, dai media, come irresponsabili.

Di qualunque colore politico fossero gli osservatori tutti troverebbero queste affermazioni indegne di una classe dirigente, fosse pure di una che aspira ad esserlo.

E lo direbbero anche adepti di idee (e ideologie) teoricamente violente, capaci di sovvertire l’ordine costituito o di minacciarlo seriamente. Eppure nessuno di essi, proprio forse perchè consapevole della propria  capacità di generare violenza, avrebbe trovato comprensibile accarezzare per il verso del pelo il popolo (o la propria quota parte di popolo).

In fondo c’era, per dirla con le parole di Michele Serra, la consapevolezza che essere classe dirigente significava essere due passi avanti chi si voleva dirigere (e sperare naturalmente che quella fosse la direzione giusta).

Oggi, dove l’esasperazione del contatto, della rilevazione in tempo reale, ha preso il soprravvento; nessun leader ha il coraggio di prendere per mano e indicare la direzione aldilà dell’interesse del prossimo rilevamento statistico.

Una sondaggiocrazia in cui di sola tattica vive e che ha perso la consapevolezza della capacità di creare, la fuori, reazioni anche imprevedibili. E’ come se finita la contrapposizione ideologica, la politica italiana avesse considerato chiusa per sempre anche la contrapposizione violenta che ha dissanguato, quasi giorno per giorno, il Paese negli anni 70/80.  Paradossalmente la fine della violenza vera ha generato la contrapposizione urlata degli anni 90 e duemila. Al diminuire (fortunatamente) dei morti per strada si è assistito all’aumentare della irresponsabilità declamatoria. Parole come “guerra civile”, “scontro”, “contrapposizione” hanno acquisito cittadinanza ovunque nel dibattito politico.

Così come gli inevitabili inviti a “abbassare i toni” a “superare il clima d’odio”. Un teatrino quotidiano certo meno cruento e luttuoso dello scontro terroristico o golpista che il Paese ha vissuto ma che ha, di fatto, impedito al paese di progredire, di riformarsi.

Oggi parlare di attentato di fronte al gesto di un folle è, guardando con gli occhi indietro, ridicolo se non fosse pericoloso. Non certo per l’entità del danno subito da Berlusconi che certo male è stato e male starà per il colpo subito. Nè per la genesi del fatto che ha dimostrato la fallacità del sistema di sicurezza intorno al presidente del consiglio (e non è la prima volta) e per la gravità del gesto in sè.

Ma parlare di clima d’odio, cercare i “mandandi morali” (ma non è bastato il lutto che tale espressione ha già generato in passato?) per il gesto di una persona disturbata significa solo dare ragione a Marx nel dire che la storia si ripropone sempre due volte e stavolta ci è taccata la farsa.

Così come Di Pietro e la Bindi che stuzzicano la pancia del prorio “popolo”, abdicano al loro ruolo dirigente (diciamo che per Di Pietro si tratta di una costante) e si accomunano  ai gruppettari irresponsabili più a che degli statisti europei.

La seconda repubblica è, storiograficamente parlando, una creatura mai nata visto che nessun sovvertimento dell’ordine repubblicano è intervenuto negli anni 90, tuttavia è in giorni come questi che si avverte la necessità e l’urgenza che qualcosa intervenga (e velocemente) per toglierla di mezzo e dar vita finalmente a un Paese che mi accontenterei fosse “decente” visto che normale non sa essere.

La fantasia al potere dimentica il Diritto e gli ultimi.

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L’intervista a Daniel Cohn-Bendit (che trovate qui) sul caso Battisti è imbarazzante. E’ imbarazzante e indecorosa. Non perchè difenda Battisti  ma per le motivazioni che adduce.

In sostanza Cohn Bendit dice che Battisti non dovrebbe essere estradato nel nostro Paese perchè è stato processato in contumacia, il diritto italiano non è quindi garantista come quello di altri Paesi europei e perchè la situazione delle carceri italiane è deteriorata.

Che sono poi i “presupposti” che per anni hanno dato una parvenza di legittimità alla cosiddetta Dottrina Mitterand, quella regola non scritta per cui la Francia ha violato per anni tutti i trattati europei sulla giustizia e l’estradizione garantendo “asilo” a chi si era macchiato di reati ,anche di sangue, per “motivazioni politiche” in altri Paesi a patto però che non colpissero interessi o cittadini Francesi.

Ora Cohn-Bendit dovrebbe sapere che proprio  la Francia, con ben due sentenze (proprio sul caso Battisti) ha dichiarato inconsistente la Dottrina Mitterrand (espressa dal Presidente a un convegno della Lega per i Diritti dell’Uomo e mai codificata in alcun modo) sul piano giuridico e demolendo le presunte argomentazioni. Infatti sia la Corte di Cassazione di Parigi che il Consiglio di Stato hanno affermato che non sta ai giudici francesi censurare o giudicare la magistratura italiana e che l’ordinamento giudiziario italiano è analogo, in quanto a garanzie, a quello francese.

Anche la questione della contumacia, dovrebbe sapere M. Cohn-Bendit, è stata affrontata in Francia e non in Italia, tanto da dover essere cambiata la normativa in materia proprio su richiesta del Tribunale Europeo dei Diritti dell’Uomo che ha ravvisato nella procedura francese (che non permetteva all’imputato contumace di avvalersi di un legale) un minus di garanzie.

Questo sul piano formale. Ma su quello sostanziale? Battisti non è stato processato in contumacia perchè impegnato e il tribunale non gli ha riconosciuto un legittimo impedimento. Egli si è reso irreperibile alla giustizia. Anzi una prima volta è evaso da un carcere italiano e poi è scappato dalla Francia al momento in cui il tribunale di Parigi (che Cohn Bendit pare rispettare a differenza di quelli italiani) ha concesso l’estradizione in Italia.

Si potrebbe anche discutere molto sulla natura “politica” dei reati contestati al Battisti ma non è questione la più importante. Quello che conta (e che dovrebbe contare anche per l’onorevole Cohn-Bendit) è che un tribunale della Repubblica Italiana, Paese membro dell’Unione Europea, ha riconosciuto colpevole Battisti per 4 (quattro) omicidi.

Che sconti la pena che lo aspetta. Che la sconti nei modi e nelle forme previste dalla Repubblica Italiana. Poco m’importa che sia cambiato fuori dal carcere. Avrà gli strumenti per dimostrare il ravvedimento nel sistema penitenziario italiano. E se gli saranno negati sarò io tra i primi a lottare per i suoi diritti.

Infine sullo stato delle carceri italiane. Certo il problema c’è ed è urgentissimo e drammatico. Per questo chiedo a Cohn-Bendit di manifestare per la morte di Stefano Cucchi, del ragazzo morto a Sollicciano e di quel poveraccio che si è suicidato ieri perchè non gli avevano ancora comunicato che doveva essere scarcerato.

Trovi un po’ di quella Fantasia che nel ’68 voleva al potere M. Cohn-Bendit e lotti per questi e tutti i poveracci che stanno in carcere in attesa di giudizio, in condizioni disumane. Lotti per gli ultimi e non per i suoi amichetti.

L’addio di Rutelli al PD

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C’è un pezzo nella lettera di addio di Rutelli al Pd, pubblicata oggi da Europa, che mi ha molto colpito.

E’ questa: “Capisco che per alcuni di voi, assuefatti al realismo delle relazioni partitiche, il fatto che Bersani non mi abbia rivolto in cinque mesi neppure una telefonata (neanche quando gli ho inviato il mio libro con una dedica amichevole…) possa rientrare nel business as usual.
Ma è gravemente sbagliato. Chi è stato leale con me e, anche grazie a me, ha partecipato a un cammino importante, dimostra in questo modo una perdita di orientamenti fondamentali.”

Non discuto la scelta di Rutelli. Non la condivido, penso però sia molto meno opportunista di quanto la dipinga molta stampa progressista e di come la viva una larga parte del popolo del PD.

Quello che mi ha colpito della frase è il livello di rapporti interni a un partito. E’ una condizione che molto (ma molto) più in piccolo anche io ho vissuto sulla mia pelle.

Dunque la frase di Rutelli ci interroga sul fatto che un partito sia qualcosa di più di un luogo in cui si ricerca (legittimamente, correttamete) e si esercita il potere al fine di un progetto, una visione, un ideale. Ci ricorda che i partiti sono comunità di donne e di uomini uniti da quel progetto, quella visione, quell’ideale. E ciò ha valso in modo maggiore nella tradizione dei grandi partiti di massa novecenteschi, sia popolari che socialisti (si pensi alle strutture dopolavoristiche della SDP tedesca) che per i comunisti italiani e francesi (si veda su questo il bel libro Maisons Rouges di Marc Lazar).

Quello che appare del PD, sia dalla piccola visuale personale che dalla lettura delle cronache nazionali, è la mancanza del senso di coesione comune, come se la vacuità del progetto, della visione e  l’assenza dichiarata e perseguita dell’ideale avesse impedito la creazione di legami di solidarietà e vicinanza umana che racchiudano in un ideale abbraccio ogni militante, ogni iscritto e ogni dirigente. Cioè facciano dei luoghi, delle strutture e delle occasioni aggregative del partito luoghi in cui ci si senta tutti a casa propria.

Ho già scritto del senso di estraneità che ho vissuto in molte assemblee piccole e grandi del PD. Oggi riconosco quel dispiacere nelle parole di Rutelli a cui però non posso non imputare parte della responsabilità di questa degenerazione.

Egli è responsabile di aver cercato, come gli altri del resto, di sopperire alla definizione di un contesto valoriale comune con la creazione di contesti più piccoli (correntizzi?) di sodali e/o fedeli che hanno caratterizzato e caratterizzano ancora il Pd ad ogni livello. Inevitabili nel contesto di una selezione interna fatta di un modello competitivo basato sulle primarie hanno finito per essere l’unico tratto distintivo dell’agire politico del PD.

Al congresso di Firenze ricordo un appassionato e umanissimo intervento di Massimo D’Alema rivolto a Fabio Mussi che usciva, insieme alla componente di sinistra, dai DS.  Ricordo la commozione dei due e dell’intera platea, ricordo che quella storia fatta anche di vecchie motociclette spiegava meglio di un saggio cos’era stato il PCI/PDS/DS.

Per questo ha sbagliato Bersani non a cercare di impedire a Rutelli di andarsene ma a dirgli che gli dispiaceva. E se non gli è dispiaciuto ha sbagliato due volte.

Il D’Alema dimenticato dal Kossovo.

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In questi giorni mi è capitato di leggere un volume, Nato’s Gamble, che ricostruisce le vicende della guerra aerea in Kossovo nel 1999. La prospettiva dell’autore Dag Henriksen , un giovane ufficiale della Reale Aeronautica Norvegese, è quella dell’uso del potere aereo come braccio armato della diplomazia dell’Alleanza Atlantica.

Aldilà del valore del libro, quello che mi ha colpito è stata la quasi totale assenza del nostro Paese nelle vicende narrate. Nell’indice delle occorrenze il lemma Italia ricorre solo due volte e dei nostri politici l’unico citato, per una sola volta, è Lamberto Dini all’epoca Ministro degli Esteri.

Eppure il libro non è scritto da un americano, seppure sia edito dall’U.S. Naval Institute Press, anzi si tratta della rielaborazione della tesi di Dottorato discussa dall’autore all’Università di Glasgow. Dunque un autore e una prospettiva europea. E difatti molta parte del libro analizza il ruolo (o il non ruolo) dell’Europa come entità autonoma e/o all’interno dell’Alleanza Atlantica. Proprio da quell’esperienza crebbe la consapevolezza della necessità di una voce unica del continente in politica estera e, non casualmente, l’allora chairman della Nato, Solana, divenne il primo rappresentante della politica estera europea.

Invece nel nostro Paese, all’epoca, la nostra partecipazione all’operazione Allied Force fu assai enfatizzata e, i sostenitori, utilizzarono proprio il ruolo del nostro Paese all’interno della NATO come elemento a sostegno della partecipazione attiva all’operazione.  Anzi l’activation order (l’ordine di mobilitazione delle truppe) fu usato come argomento principe per respingere la richiesta di Romano Prodi di nuove elezioni al momento della sfiducia da parte di Rifondazione Comunista al suo governo. Cosa accade è storia nota, alla fine grazie alla scissione dei Comunisti Italiani e all’appoggio di Cossiga Massimo D’Alema divenne Presidente del Consiglio.

Quell’intervento lacerò e divise soprattutto la sinistra italiana. Con parlamentari al governo che visitarono “il nemico/compagno” Milosevic  sotto le bombe, manifestazioni pacifiste contrapposte a manifestazioni interventiste che si alternavano a seconda della fase politica e un premier, che sul ruolo dell’Italia in Kossovo giocò tanta parte della legittimazione interna ed internazionale degli anni a venire. Il ruolo strategico di ponte verso i Balcani, il rapporto diretto con l’amministrazione Clinton, l'”internazionale socialista” che governava gran parte del continente. Insomma grazie a D’Alema il Paese era entrato nel club ristretto di quelli che contano.

Oggi però, leggendo Henriksen, di tutto questo non c’è traccia.  Ma anche sfogliando il poderoso volume di Joe Pirjevic (Le Guerre Jugoslave, Einaudi)  il nostro ruolo ne esce piuttosto ridimensionato.

Volendo azzardare un perché a questo nostro scarso peso (almeno nella storiografia) mi viene in mente un’altra parte del dibattito di quei giorni. Cioè quella parte riguardante il ruolo militare dell’Italia nelle operazioni.

Forse qualcuno si ricorda l’espressione “difesa attiva” coniata per l’occasione per i nostri aerei.  Il che significò tutto e il contrario di tutto. L’opinione pubblica non seppe mai davvero se i nostri aerei avevano regole d’ingaggio diverse da quelle degli altri Paesi membri dell’Alleanza e quindi partecipavano solo ai pattugliamenti difensivi, oppure se parteciparono alla più massiccia campagna di attacchi aerei dopo la seconda guerra mondiale calcando l’accento più sull’attiva che sulla difesa.

Quella dell’ipocrisia delle reali funzioni dei nostri militari nelle operazioni fuori aerea è un tema che ci accompagna almeno sin da Beirut 1982 e che crea ai nostri militari imbarazzi e reticenze. E che probabilmente penalizza il nostro Paese nel circolo di quelli che contano, insieme a uno strumento militare che fatica a mettersi al passo coi tempi e a restare up to date.

E non si tratta di un problema di colore politico. Oggi, col centrodestra al governo, nonostante La Russa vestito da TopGun, i nostri Tornado in Afganistan (peraltro ne abbiamo mandati solo 2) sono lì ufficialmente solo per compiti di ricognizione. Ma è stato così per l’invio di blindati, carri armati ed elicotteri da combattimento in quasi tutti i teatri: ex Jugoslavia, Somalia, Libano, Afganistan e Iraq. Oscillando tra il “si fa ma non si dice” e le varie versioni della “difesa attiva”.

Siamo l’unico Paese al mondo in cui il Parlamento discute non sulle regole d’ingaggio generali (all’interno del contesto di alleanze definito) per le proprie truppe ma sull’uso del cannoncino Mauser di cui sono dotati i Tornado. Ci manca solo che i piloti prima di decollare chiedano l’autorizzazione alla competente commissione parlamentare piuttosto che alla torre di controllo.

Per non parlare poi delle polemiche sull’uso “facile” di fondi speciali per impedire/trattare per i rapimenti in Iraq o gli accordi presunti con i signori della guerra in Somalia che portarono a una crisi col comando Usa senza precedente, fino alle ultime polemiche sollevate dal Times sul nostro contingente in Afganistan. Anche ammettendo per certo che si tratti di pure invenzioni in tutti i casi non è forse necessario chiedersi il perché tutte le volte sorgano storie del genere? E’ ancora la retorica britannica della seconda guerra mondiale degli italiani pessimi soldati? Oppure le nostre ipocrisie e oscillazioni aiutano a costruire questo pregiudizio?

Peseranno queste considerazioni sulla scelta del prossimo responsabile della politica estera e di difesa dell’Unione Europea? Probabilmente sì ed è forse anche per questo che la candidatura, ormai ufficiale, del governo italiano di Massimo D’Alema riscuote così poca fortuna sia sulla stampa internazionale che tra i bookmakers inglesi. E forse, più che l’inesistente inciucio travaglista tra D’Alema e Berlusconi, all’ex premier costerà cara la politica bi-partisan della difesa attiva.

Stelle gialle e calzini turchesi

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La discussione se la Democrazia italiana stia scivolando verso un regime autoritario è in atto in questo Paese da molto prima della discesa in campo di Silvio Berlusconi (strategia della tensione, distinzione tra norme precettive e norme programmatiche della Costituzione, vari tintinnii di sciabole, leggi speciali sul terrorismo) e in certi momenti della vita Repubblicana è ormai riconosciuto che il rischio di un sovvertimento dell’ordine democratico fosse più di una ipotesi di scuola.

Tuttavia gli anni che viviamo hanno immesso alcuni elementi pericolosamente sinistri nella nostra società. Una prassi di regime strisciante forse, in cui non si mettono in discussioni le forme della Democrazia rappresentativa ma si finisce per svuotarle di senso e significato. Una progressiva premierizzazione del Paese (a cui non è stato ne è immune il centrosinistra), che prima ha svuotato di senso le assemblee elettive locali con l’elezione diretta di Sindaci e Presidenti di Provincia (anche per demerito e mancanza di capacità delle classi politiche locali incapaci di interpretare il nuovo ruolo che la Legge dava ai consigli) ed adesso il Parlamento che non muta la propria forma ma, con la nuova legge elettorale, avendo privato della rappresentatività elettorale i deputati li rende membri di bande devoti al capobanda che li ha fatti eleggere.

Ma quello che a me preoccupa di più è la costruzione di una opinione pubblica attraverso i mezzi di comunicazione di massa che ha molti tratti in comune con la costruzione del consenso nei regimi totalitari del novecento.

Si badi bene, non penso che la Storia si riproponga mai nelle stesse forme e nelle stesse modalità né, fino in fondo, penso che si ripeta una volta sotto forma di tragedia e l’altra sotto forma di farsa, ma credo che la comparazione tra alcune analogie sia fondamentale per chi ha a cuore il proseguo della Democrazia.

Alcuni fatti di questi giorni sono, a mio avviso, particolarmente significativi. Innanzitutto le arringhe dei due legali del premier durante il dibattimento sulla legittimità costituzionale del cosiddetto Lodo Alfano. L’argomentazione usata era, mi scuseranno i legulei per la sintesi e la non precisione, che de facto il premier è eletto direttamente dai cittadini e che quindi questa legittimazione popolare lo mette al di sopra dei suoi ministri e del popolo tutto. Argomentazione molto diversa da quella dell’Avvocatura dello Stato, per esempio, nello stesso dibattimento e che, vista la composizione della corte, avrebbe potuto avere maggiori fortune.

Dunque, non considerando Ghedini e Pecorella due stupidi, viene da chiedersi se tale strategia, quasi suicida sul piano giudiziario, fosse invece necessaria a un disegno politico più generale. A questo va aggiunto che il premier ha fatto propria tale argomentazione (in modo certo più rozzo ma temo più efficace) nei giorni successivi sia in polemica col Presidente Napolitano sia più in generale in una ulteriore autolegittimazione di fronte a un potere Repubblicano che si era mostrato a lui contrario.

Ora, come dimostra la sentenza della Corte, è evidente che tale legittimazione di voto popolare non c’è nell’attuale sistema costituzionale italiano, ma sfido chiunque a interrogare i cittadini e chiedere se non considera, de facto, il presidente del Consiglio eletto direttamente (e non solo blandamente indicato come prevede il Porcellum). Prova che la vecchia tecnica di ribadire ogni giorno falsità, o mezze verità, alla fine le rende reali.

Secondo punto l’utilizzo della categoria di anti-italiano per gli oppositori del governo. Se volete tale strumento è ancora più evocativo di passati tragici.

Cito: “Una volta che mi aggiravo nelle vie del centro [di Vienna] capitai improvvisamente su un personaggio dal lungo kaftan e dai riccioli neri. Anche costui un ebreo? fu il mio primo pensiero… ma quanto più lungamente fissavo quel viso straniero esaminandolo tratto per tratto, tanto più si trasformava nel mio cervello la prima domanda in una seconda: è costui anche tedesco?”

Questa è la prima (e fondamentalmente unica) giustificazione dell’antisemitismo in Adolf Hitler ed è tratta dal Mein Kampf.

Ora anche qui non si tratta di dire che Hitler sia uguale a Berlusconi. Quello che qui interessa è l’analogia di strumenti usati. L’argometo dell’anti-italiano è analoga (non identica) a quella dell’anti-tedesco che veniva usata per i nemici del Reich millenario così come per i nemici dell’Unione Sovietica. In quel caso essi erano nemici del Popolo e non dello Stato.

L’uso di una categoria così minacciosa è però assai strano in anni di spinte contrapposte alla disgregazione dello Stato nazione. Da un lato l’internalizzazione della società (e in parte delle istituzioni) dall’altro il richiamo alle piccole patrie. Ancora più strano in un Paese a scarso nazionalismo come il nostro. Forse spiegabile da un lato come la proposta di sé stesso quale difensore dell’unità italiana (l’unico in grado di tenere la Lega e l’MPA nello stesso governo in effetti) non tanto come insieme di valori condivisi (a quel ruolo paiono dedicarsi Tremonti e Fini temo solo fino a quando il babbo non gli dirà che è suonata la ricreazione) ma come contenitore a cui dare i confini che si vuole (Padania, Regno delle Due Sicilie…)  e in cui fare, per citare un Guzzanti d’annata, un po’ quel che cazzo ci pare.

Terzo punto. Il servizio contro il giudice del Lodo Mondadori fatto da una trasmissione di intrattenimento di Canale 5. Primo punto lo strumento. Non una trasmissione di approfondimento politico, nè un telegiornale. Ma una trasmissione dedicata, vista l’ora a cui va in onda, a casalinghe e pensionati.

Secondo la confezione del servizio. Un signore che non fa niente di strano. Passeggia, fuma una sigaretta, si siede una panchina, dipinto però come un sospetto anche a causa del suo abbigliamento.  Se vi rivedete la scena in cui l’assistente von Remchingen entra nel ghetto ebraico di Francoforte nel film Süss l’ebreo (la vendita il noleggio e la distribuzione del film è illegale in Italia) vedrete che i malvagi giudei sono vestiti in modo strano, hanno nasi adunchi e sono bassi e corpulenti ma non fanno niente di particolarmente strano. Eppure la costruzione della scena ve li rende ostili.

La costruzione del nemico attraverso stereotipi è tema classico nella comunicazione politica. In alcuni casi ha dato vita a veri e propri colossal (Scipione l’affricano) o a capolavori del cinema (l’Alexander Nevskiy di Ejzenštejn) a noi è toccato Brachino e mattina cinque.

Tuttavia dietro alla apparente scemenza dei calzini turchesi si possono intravedere i Kaffettani dei ghetti della civile europa degli anni ’20? Domanda di non facile risposta ma che per il solo fatto di porsela dimostra che il rischio di una involuzione della nostra Democrazia è possibile.

Ultimo fattore, forse il più evidente, la strutturazione della Lega Nord e la sua progressiva evoluzione (involuzione?) antidemocratica.

In questo trovo assurda la fascinazione della sinistra per le capacità organizzative e di radicamento territoriale della Lega, come se la caratteristica dell’essere un partito popolare fosse prerogativa dei soli eredi del PCI (o al massimo della DC).

Il fenomeno di radicamento territoriale della lega è in atto dagli anni ’90, così come la Lega è sempre stata un partito dal voto popolare. Ma ciò, storicamente, non è certo il presupposto per essere una costola del movimento operaio. A meno che non si consideri che costole del socialismo novecentesco furono il fondatore del fascismo italiano e il partito a cui si iscrisse il giovane Hitler. Il partito nazionalsocialista appunto.

Quello che inquieta è la presenza di posizioni apertamente xenofobe, di programmi che coniugano attenzione al sociale ed esclusione sociale. Che parlano di diritti per pochi appartenenti allo stesso gruppo dall’identità territoriale.

Messaggi che trovano spazio in un mondo che la globalizzazione rende ogni giorno più insicuro e più economicamente fragile per chi non ha mezzi e risorse per stare sulla cresta dell’onda.

Il leghismo appare dunque l’altra faccia della medaglia del Berlusconismo. Quest’ultimo ti promette almeno 5 minuti di successo e la garanzia che il tuo orticello (spesso abusivo) sopravviverà comunque. Il Leghismo ti promette che recinterà ben bene il tuo orticello e scaccerà i corvi (neri) che vogliono insidiarlo.

E’ in questo contesto, ogni giorno sempre più egemonico, che ci troviamo a muoverci e forse da questa battaglia culturale servirebbe ripartire.

Presentat arm!

scusi sa dov'è il duomo

C’è un punto di vista, nella discussione sull’utilizzo dei militari per funzioni di ordine pubblico che non viene mai preso in considerazione. Quello dei militari.

Sì perchè nessuno riflette sul fatto che questo Paese ha da qualche anno trasformato il proprio esercito di leva in un esercito professionale più ristretto ma motivato e qualificato.  E’ un esecito che nonostante sia più piccolo ha costi (non assoluti ma relativi) più alti, più efficenza e spende (non abbastanza) nel formare professionisti e li impiega in teatri internazionali.

Dunque lo Stato italiano spende ogni anno decine di milioni per avere uno strumento militare che corrisponda agli impegni internazionali del nostro Paese e poi utilizza i suoi professionisti come guardie giurate.

Non è un caso se in molti eserciti occidentali i compiti di sorveglianza delle stesse installazioni militari siano affidate proprio a guardie giurate. Persino l’edificio del Pentagono ha ormai agenti privati ai propri ingressi.

Invece da noi si fa il contrario e lo si fa in uno Stato che ha due forze di polizia, una forza armata destinata a questo e innumerevoli corpi di polizia locali o specialistici. Mentre il nostro esercito, come dice lo stesso Ministero della Difesa, appare sottodimensionato per asservire ai compiti che la politica internazionale gli impone.

Tutto questo peraltro in operazioni prettamente simboliche. Dispiace che, come sempre accade, ogni volta che in questa nazione si parla di forze armate lo si faccia o coi pregiudizi dell’appartenenza politica o con la retorica del soldato di pace e dispiace di più che anche chi mise la propria firma a quella legge che trasformò le nostre armate in forze professionistiche plauda oggi a un provvedimento che è proprio il contrario dello spirito di quella legge.