Meno male che Silvio c’è

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 20 gennaio 2011

Oggi mi voglio mettere nei panni di un elettore del centrodestra. Uno convinto; che ha votato dal 1994 prima Forza Italia e poi Pdl. Uno che meno male Silvio c’è forse non arriva a cantarlo ma a pensarlo di sicuro. Un elettore attento. Che segue i dibattiti su tv e giornali.

Ecco fossi questa persona oggi di Ruby non me ne fregherebbe niente. No non c’entra il regime, la lobotomizzazione delle tv e tutta quella roba che proclama la sinistra dei professionisti dell’antiberlusconismo (se ci si immedesima bisogna farlo bene).
Non mi interesserebbe perchè da diciasette anni mi sento ripetere dalla mia parte politica che un pool di magistrati politicizzati blocca il governo e quindi il Paese e che siamo strozzati da lacci e laccioli primo fra tutti le tasse.

Ecco fossi un elettore del centrodestra io non mi preoccuperei di quello che Berlusconi fa la notte ma di quello che non fa il giorno. Quella riforma delle tasse promessa da sempre, proposta un paio di volte e che al momento nemmeno pare in agenda del governo del fare. Se poi fossi un elettore del centrodestra lavoratore subordinato mi chiederei come mai in 17 anni, di cui 9 passati da Silvio al governo, le tasse prese direttamente dal “sostituto d’imposta” (una delle altre cose che B. doveva abolire) siano aumentate così come i costi dei servizi pubblici che mi servono (asili, acqua, ecc…)

Poi mi chiederei come mai in questi 17 anni, di cui 9 passati dal centrodestra al governo, di riforma della giustizia si è parlato tanto ma fatto niente. Perché si è sprecato il tempo a fare, uno dopo l’altro, provvedimenti per salvare il capo (lodi Schifani e Alfano, depenalizzazioni, legittimo impedimento,ecc..) che non l’hanno nemmeno salvato e non si sono fatte quelle due o tre riforme per tutti che, forse, avrebbero fatto comodo anche a B.: separazione delle carriere, responsabilità civile dei magistrati e abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale.

Tornassi infine ad essere un elettore di centrosinistra, mi chiederei perché, di fronte a un Paese evidentemente sordo di fronte alla questione morale e all’uso privato delle istituzioni, la mia parte politica non passasse il suo tempo a rinfacciare il fallimento, da destra, della politica berlusconiana.

La Mole della ricchezza

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 13 gennaio 2011

Durante le sue lezioni universitarie sul riformismo nel secondo dopoguerra, Paul Ginsborg era solito usare, come immagine della disuguaglianza di reddito tra i molti poveri e i pochi ricchi, la mole antonelliana di Torino.

Quella strana costruzione, pensata prima come sinagoga e che ha poi avuto molteplici usi, sino ad essere oggi un museo del cinema molto apprezzato, è un monumento maestoso, la cui imponente altezza si basa su una base quadrata molto amplia. Ecco, ci diceva il nostro Professore, la nostra società è fatta così, una grossa base e una ristrettissima punta divise da centinaia di metri e da migliaia di denari.

Se oggi volessimo aggiornare quella rappresentazione dovremmo forse immaginarci una mole che rivaleggi, per altezza e dimensioni, con i grattacieli più alti del mondo che spuntato tra lo smog di Shangai e il deserto del Dubai.

E’ un dato pubblicato dall’ISTAT di questi giorni infatti che ci mostra come il paese sia largamente bloccato, nei consumi e negli stipendi, mentre le imprese ricominciano a fare, seppur timidi, utili. Dunque la possibile ripresa non si traduce in ricchezza per tutti, e in nuovo lavoro. Tanto che molti analisti parlano tranquillamente di una ripresa che coinciderà con un aumento della disoccupazione per ancora almeno un paio di anni.

Non si investe in nuovo lavoro per paura, perché si teme che la ripresa sia effimera, e che quel poco guadagno che si intravede non basti a garantire, nel medio lungo periodo, nuove assunzioni. E allora si preferisce aumentare qualche ora di straordinario, qualche ora a nero, a scapito di garanzie, controlli e soprattutto opportunità per quelli che sono fuori dal circuito del lavoro.

E ciò è più vero in un Paese in cui il tessuto produttivo è fatto da micro piccole imprese, forza e maledizione del nostro sviluppo.

A questi tanti imprenditori, poco si può rinfacciare in molti casi. Chi se la sente di accusarli di non investire in nuovo lavoro oggi? Ci sono certo quelli che han preferito non reinvestire l’utile in ditta e si sono innalzati nella scala della Mole, cambiando il SUV o la casa al mare, ma ci sono tanti che hanno acceso l’ennesimo fido in banca per pagare gli stipendi e usano la ripresa per estinguerlo.

Il punto dovrebbe essere di sistema, di capacità di fornire servizi comuni alle piccole imprese, di garantire loro credito, innovazione, ricerca e internazionalizzazione. Di fornire loro opportunità per crescere, magari vincolando questa loro crescita a nuova occupazione e nuovo reddito.

Accanto a questo sarebbe necessario che si risolvessero quei problemi strutturali che oggi rendono non convenienti gli investimenti, in modo magari anche da non essere costretti al “bere o affogare” dell’unico che parla di investire in Italia e cioè Marchionne. Insomma invece di fare il tifo tra Marchionne o la FIOM sarebbe più utile che si risolvessero i veri impedimenti agli investimenti: legislazione, giustizia, infrastrutture e tasse.

Non si sarebbe più costretti a discutere tra investimenti e diritti, ma si potrebbe finalmente rispondere ai bisogni e alle opportunità.

La Befana vien di notte

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 6 gennaio 2011

L’epifania tutte le feste se le porta via, insieme anche a un bel numero di buoni propositi per l’anno nuovo svaniti come gli aghi dell’abete appena dismesso.

La dieta solennemente giurata il giorno di Natale allentando la pressione sulla pancia sganciando il bottone dei pantaloni appena dopo gli antipasti, si è smaterializzata di fronte al primo 3 per 2 di panettoni e pandori, con la stessa fermezza che uno Scilipoti qualsiasi può opporre di fronte alle lusinghe di Silvio.

E così l’anno riparte, ahinoi, dove l’abbiamo lasciato. Con la politica che continua a discutere di elezioni, crisi, governi tecnici un giorno sì e l’altro pure. Un balletto che fa contenti solo i giornalisti che possono comporre con amena faccia di tolla un pezzo che giura elezioni il martedì e governo tecnico il mercoledì.

Intanto il Paese vive la sua crisi quotidiana e l’inflazione, ci dicono quasi di sfuggita, ha toccato l’1,9% su base annua, mentre i salari (chi ce l’ha) son rimasti fermi.

E così ci si divide su chi sta con Marchionne e chi sta con la FIOM, mentre sì è sinceramente tentati di aderire al vecchio adagio, né con l’uno né con l’altro; visto che nessuno domanda al canadese d’Abruzzo come intenda recuperare quote di mercato sull’auto non prevedendo alcun nuovo modello per il 2011. Già perché nell’anno appena andato, finiti gli incentivi statali, le case automobilistiche che hanno messo il segno  più davanti alle cifre delle vendite in Italia sono state quelle che hanno introdotto nuovi modelli e alla fine dell’anno FIAT per la prima volta è scesa sotto il 30% delle nuove immatricolazioni in Italia. Non era mai accaduto e dubito fortemente che il problema siano le relazioni industriali.

Così come non suscita, in chi scrive, simpatia un sindacato che si ricorda dello statuto dei lavoratori a fasi alterne, che si mobilita come di fronte all’avvento della dittatura se si parla di modificare l’articolo 18 e poi grida egualmente al fascismo quando si applica l’articolo 19.

E così tra i buoni propositi dell’anno nuovo ci sarebbe piaciuto quello di non vedere più gli appelli dei soliti intellettuali a favore delle solite battaglie. Primo perché ormai paiono moduli prestampati a cui cambiare solo intestazione e propagatore della dittatura di turno, secondo perché a memoria non si ricorda un unico esito positivo di tali forme di lotta salvo aumentare la tiratura di un paio di quotidiani.

Così come ci piacerebbe vedere per il 2011 i giovani che continuano a manifestare per il loro futuro in piazza, evitando però di confondere una minima riforma universitaria con la fine della speranza, incazzandosi perché colpisce troppo poco quel sistema che non li soddisfa e chiedendosi dove stanno sbagliando se il barone che ha appena piazzato moglie, nuora e figlio in cattedre spesso inutili, è al loro fianco e urla che hanno ragione.

Poi per il 2011 mi piacerebbe vedere il PD. Verrebbe da dire in qualsiasi forma si manifesti, ma in realtà mi piacerebbe vedere un partito che discute di primarie, cosciente che si tratta di un mezzo e non di un fine, che ad ogni uscita del segretario non si affanna a proporre mille distinguo, che definisca una proposta per il Paese bella o brutta che sia ma che sia sua, che finalmente valuti le interviste di Aldo Cazzullo a Walter Veltroni per quello che sono: un genere letterario che spesso confina con la fantascienza.

Perchè Bersani non ha perso

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 dicembre 2010

Come non molti prevedevano Berlusconi ha intascato una risicatissima fiducia in entrambe le camere. Forte dell’ennesimo cambio di casacche parlamentare, come già quello che gli consentì nel 1994 di ottenere la maggioranza al Senato, Berlusconi incassa e prosegue. Pochi riescono immaginare per quanto e con quali risultati, visto che partendo da un distacco di quasi 100 deputati è riuscito a fare così poco anche prima degli strappi di Fini.

Chi esce ridimensionato, per non dire distrutto, è Fini che dimostra ancora una volta di essere un personaggio comunque di contorno nel panorama politico italiano, incapace di giocare autonomamente una partita e fiaccato dalla troppa tattica e dai pochi e non chiari orizzonti lunghi.

Chi invece salva la faccia, oltre al serafico Casini, e alla fine forse non porta a casa una sconfitta è il PD di Bersani.  Un PD fortunato per il calendario, con la manifestazione dell’11 dicembre caduta a fagiolo tra la compravendita dei deputati dipietristi e il voto “affondafini”.

Bersani è stato capace di smarcarsi infatti dall’alleato Di Pietro, lasciandolo solo di fronte all’ennesimo passaggio di parte di suoi parlamentari e svuotando così, senza alcuno sforzo, la retorica dell’”unica opposizione a Berlusconi”, risultando il partito dell’ex PM anzi decisivo per la vittoria del governo. Di più si è smarcato, anche qui senza clamore, da Fini il cui abbraccio avrebbe potuto essere mortale per il segretario emiliano. Lo ha fatto con una manifestazione di partito (a vocazione maggioritaria si potrebbe definirla), senza appelli ad essere in piazza agli alleati presenti, passati e futuri e giocando la sua carta migliore; quella retorica pragmatica, fatta di gente comune, di cenni alla vita reale e anche sul fatto di conoscere per davvero quanto costa un litro di latte, dimostrando di essere qualcosa di più e di meglio della sola alchimia di palazzo.

Nessun cedimento nemmeno a Vendola, al quale il PD ha dimostrato di essere capace comunque di una mobilitazione e di una possibile “narrazione” autonoma dalla tattica delle alleanze.

Un Bersani molto poco dalemiano se vogliamo, che si è posto (e il voto di fiducia paradossalmente rafforza) come capo unico e possibile dell’opposizione intanto parlamentare.

Un credito che dovrà esser bravo a salvaguardare, difendendolo dall’iper tatticismo di chi lo consiglierà di giocare la solita partita dell’alleanza con Casini, sia da chi da dentro e da fuori il partito lo bombarderà con critiche continue, seppur magari un po’ più deboli dopo recenti scivolate all’ora della merenda.

Per farcela il segretario dovrà semplicemente continuare come ha fatto in questi giorni, mettendo in campo la sua solita concretezza e rispondendo alle tattiche con quella semplice (ma efficace) domanda: “ma lei lo sa quanto costa un litro di latte?” .

Dal Porcellum al Cignalum

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 dicembre 2010.

In tutto il discutere di crisi e scenari futuri del governo, della maggioranza e delle opposizioni non manca mai il tema della riforma elettorale. Fateci caso il tema del baratro economico a cui è appeso il Paese è usato più per schermo tattico a cui appoggiare governi tecnici, per rigettare elezioni anticipate o per rinsaldare il Berlusconi quater. Ma appena si parla di riforma elettorale tutti si infiammano, tutti i partiti hanno la loro proposta. Il senatore Ceccanti (PD) ha persino presentato più proposte di legge di modifica con quasi tutti i sistemi elettorali in vigore sul globoterracqueo.

Complice la più alta (e nefasta) densità di politologi in servizio permanente effettivo del mondo la nostra politica è capace di discutere su ogni tipo di sistema elettorale (francese, tedesco, americano, buoni ultimi l’australiano e l’ungherese), di applicare un sistema di elezione diverso per ogni livello amministrativo e di governo e di aver cambiato più leggi elettorali negli ultimi anni che cappellini la regina Elisabetta nei giorni di Ascot.

Un tema quello della tecnicalità dei sistemi elettorali che tocca anche il punto del ritorno della preferenza. Invocata oggi come lo strumento principe per avvicinare il popolo all’eletto con la stessa ferocia con cui era stata additata a strumento di corruzione e malcostume negli anni in cui, spesso i soliti che oggi ne chiedono il ritorno, ne chiedevano la limitazione e poi l’abolizione.  Insomma ancora una volta si confonde il sintomo con la malattia, e si addita a una tecnicalità la responsabilità di un problema politico.

E’ forse utile ricordare un po’ la stagione dell’abolizione della preferenza per approcciarci a questa nuova stagione del suo possibile ritorno. Nei primi anni ’90 alla progressiva perdita di peso dei partiti, al loro crollo di credibilità e alla fine delle ideologie, la classe politica subì da un lato l’offensiva giudiziaria e dall’altro un movimento referendario che chiedeva l’abolizione della preferenza plurima; per alcuni, i Radicali e Segni, al fine di spostare il sistema verso un maggioritario puro, per altri (tra questi l’allora PDS) nella speranza di conquistare e guidare il cambiamento in atto.  La scelta di abolire la preferenza multipla fu difesa come modo per limitare gli aspetti clientelari e di infiltrazioni malavitose nell’agone elettorale.

Ciò però, insieme all’inserimento di forme di elezione diretta per sindaci e presidenti di Provincia, unito alla debolezza di partiti sempre meno aderenti alla realtà sociale del Paese portò, anche con la preferenza unica, a una progressiva personalizzazione e persino familiarizzazione della rappresentanza, creando legami tra l’eletto e il territorio che non scongiuravano affatto pecche di moralità nella classe politica, oltre ad indebolire i partiti ogni giorno di più.

Vi era dunque un terreno fertile per Berlusconi e il berlusconismo anche nella società politica italiana. E’ forse utile ricordarlo oggi che se ne profila la fine.

Negli anni successivi quel che restava dei partiti politici ha continuato a cercare di mettere argine alla propria decadenza immaginando nuove soluzioni elettorali o, per dirla con il vecchio Marx, ha badato alle sovrastrutture piuttosto che alle strutture della rappresentanza e del conflitto politico e sociale.

In questo la nostra regione per prima ha affrontato il tema del superamento delle preferenze pur mantenendo un sistema proporzionale. Anche qui molti in buonafede negli allora DS giustificavano questa scelta come barriera al personalismo e ai costi delle campagne elettorali (dunque con una funzione morale) e come modalità che avrebbe riportato al centro i partiti politici e avrebbe ridato primato alla politica collettiva.

Accanto a questo è entrato prepotentemente sulla scena il tema delle primarie, almeno nel versante del centrosinistra. Anche qui, aldilà delle competizioni squilibrate come quella per l’elezione di Prodi, le primarie hanno verificato l’impotenza dei partiti a determinare gli esiti della competizione. Segno che il tema, ancora una volta, non fosse tecnico ma politico.

Dunque oggi visto che uno dei possibili scenari nazionali è quello della correzione del porcellum attraverso la reintroduzione della preferenza o che tale direzione pare essere quella con più consenso in regione per la riforma del cignalum o, infine, che nel PD si parla apertamente di scaricare le primarie occorre tenere presente che non saranno scelte tecniche a ridare forza ai partiti e che non si risolveranno così i problemi di lontananza tra cittadini ed eletti.

Tanto perché, come tanti personaggi di Altan, non si finisca per guardare il dito dimenticandosi dell’ombrello infilato proprio lì.

Sul vagone dei rottamatori

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 novembre 2010 p.1

E alla fine il treno dei rottamatori è arrivato alla Stazione Leopolda, o per meglio dire da lì è partito. Sì perché tutto nella tre giorni fiorentina, dall’assenza dichiarata di programma alla non selezione di temi e interventi, era all’insegna dell’avvio, del movimento anche, forse, fine a sé stesso.

Una tre giorni iniziata senza relazioni introduttive ma conclusa da Matteo Renzi con un discorso che ricordava più un’introduzione che delle vere e proprie conclusioni. Grandi visioni, immagini, un repertorio di brillanti battute, temi evocati, sfiorati mai morsi per davvero, lasciati lì pronti per il prossimo appuntamento. Già perché scegliere oggi sarebbe equivalso a selezionare. Selezionare temi e proposte e anche qualcuno dei presenti, sopra e sotto il palco.

Evidentemente per Renzi non è ancora il momento, gli interessa più unire e consolidare il movimento e lo spirito di Firenze insieme alla propria indiscussa e inattaccabile leadership. Una leadership che Civati non può contendere, né oggi né mai, e infatti il consigliere regionale lombardo appare in tutta questa vicenda come uno dei personaggi dei film horror americani, uno di quelli che sai fin dalla prima inquadratura che non arriveranno in fondo al film.

Quello che ti colpisce della Leopolda è lo spirito. L’entusiasmo e la voglia di esserci e partecipare. E’ una bella sensazione, soprattutto nel vedere che è diffusa in ogni ordine e grado. Quello che colpisce è anche, per dirla con le parole di un caro amico, che ti aspetteresti una gran voglia di dare calci nel sedere e scopri una gran voglia di stringere le mani.

Un modo ben strano di iniziare una rivoluzione ma forse una garanzia per provare a finirla, visto come sono andate quelle con la rabbia addosso.

Non c’è rabbia nemmeno nel chiedere (chiedere e non esigere peraltro) il ricambio e la rottamazione nei molti interventi sul tema, l’unico forse realmente condiviso e digerito di qua e di la dal palco.

Per ora l’unico vero rottamato a Firenze è il veltronismo, con Renzi che si candida a occupare lo spazio dell’immaginario, del sogno. La prova nell’intervento di Giovanna Melandri a cui i due in consolle non avrebbero dovuto dare il gong alla fine dei 5 minuti ma tre canti del gallo.

Eppure tra Renzi e Veltroni qualche differenza corre. Non solo d’età. Di Veltroni possono non piacere tante cose (e a me non piacciono) ma quel che diceva ha provato a fare, rendendo azioni le parole spese, anche se discutibili e non sempre felici. A Roma si è inventato il festival del cinema, a Firenze abbiamo avuto il festival del gelato. Ha posto il tema del rinnovamento e ha portato in parlamento (certo con risultati non tutti felici) scrittori, ricercatori e imprenditori, a Firenze si chiama in Comune un dirigente neo-pensionato e non certo la precaria magari in attesa del posto della Finocchiaro.

Sul piano locale Renzi, consolida e certifica la propria egemonia nei confronti di amministratori e partito se il cuore degli interventi del segretario regionale Manciulli e del Presidente della Provincia Barducci sono, per il primo, “il rinnovamento lo stiamo facendo” e, per il secondo, che non serve il limite di tre mandati ma due sono addirittura troppi. Segno che il tema dei rottamatori non solo era giusto ma persino da perseguire e anticipare.

Ma anche a Roma, Renzi c’è e la tre giorni leopoldina, lo fa assumere a soggetto imprescindibile in quelle che saranno le dinamiche del PD del prossimo futuro, anche se la mossa di Gianfranco Fini di accelerare la fine del Berlusconismo rischia di giocare un brutto scherzo ai rottamatori, lasciando a Bersani e al gruppo dirigente nazionale l’onere delle scelte e delle decisioni e che soprattutto in caso di elezioni anticipate vedrebbero inevitabilmente il popolo democratico stringersi al proprio partito contro il centrodestra, diminuendo lo spazio per il dissenso.

Ma il treno è appena partito e crediamo che chi vi è salito e il suo conducente abbiano tutte le risorse, di capacità e di tempo, per giocare molte partite nel futuro.

Alla rivoluzione senza programmi

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 novembre 2010 p.1

Sia detto qui in cima a sorta di premessa: Evviva Renzi e Civati e il loro allegro rottamare. Evviva la tre giorni alla Leopolda.

Già perchè, aldilà delle critiche che anche qui verranno fatte, l’evento che si apre stasera qui a Firenze ha meriti incancellabili. Intanto pone un problema vero, quello di un gruppo dirigente del PD che ha passato indenne, senza che finora nessuno ne chiedesse conto, più di 10 anni di vita politica italiana, vincendo anche ma perdendo molto di più. Non innovando la società italiana quanto avrebbe avuto necessità e quanto, almeno con l’Ulivo, avevano promesso. Non portando a compimento un’unione ideale, politica e partitica dei riformisti italiani, come promesso col PD, ma riproponendo le antiche liti e beghe in un contenitore nuovo dalla grafica bruttina e dall’appeal modesto.

Eppure questi che oggi i rottamatori vogliono togliere dalla prima fila hanno avuto occasioni, contesto e capacità: l’Ulivo come stagione politica, la cosiddetta terza via come orizzonte ideale e la vittoria elettorale del 96 per trasformare quella idea in azione di governo.

Quella stagione fu l’ultima stagione di proposta e innovazione politica per il centro sinistra italiano, di obiettivi (magari non sogni ma raramente la politica del governo è sogno), di internazionalità, di superamento vero e non pubblicitario di steccati ideologici (dai progressisti all’ulivo c’è più rottura di tabù che in tre anni di PD). Da allora è stato un susseguirsi di riti, di fughe in avanti seguite da imponenti marce indietro, di leader consumati al ritmo di un merenghe, di vecchi programmi spacciati per nuovi, di GAD, FED e Unione, vocazioni maggioritarie e ritorni al Partito con la p almeno maiuscoletta. Una sorta di commedia dell’arte che mette in scena il solito canovaccio con le solite maschere.

E a quelle maschere si rivolge il dinamico sindaco di Firenze e quelle maschere svela nella loro immutata fisionomia, nel loro apparire sempre uguali, bidimensionali. E quelle maschere molto si arrabbiano. Lo giudicano irriverente, maleducato, sgarbato. E che diamine vi vuol seppellire, ci mancherebbe che fosse educato o garbato. Che poi lo foste voi quando spediste il vecchio Natta e tutto il rimanente gruppo dirigente comunista nemmeno alla Fondazione Gramsci ma direttamente in pensione? Le cronache dell’epoca ci dicono di no. E non poteva essere altrimenti. Certo vale per gli ex Pci ma che dire degli ex DC? Loro magari avrebbero potuto essere anche garbati ma non lo sapremo mai, visto che del ricambio (chiamiamolo così) nel loro partito se ne occupò la magistratura e non certo loro e da questo vizio d’origine (l’aver acquisito il comando senza l’aver combattuto) forse deriva quella loro innata titubanza, lo scarso coraggio dimostrato. Quel coraggio che avrebbe dovuto trovare in loro, i Franceschini i Letta, i veri esclamatori del rinnovamento nei confronti dei D’Alema, dei Veltroni e dei Bersani.

E invece ci son voluti Renzi e Civati, coi rischi che questi comportano, come giustamente si nota in questo dibattito sui rottamatori. La mancanza d’esperienza, la mancanza di contenuti. Come negarlo? Eppure se guardiamo da chi vengono queste critiche, seppur giuste, ci appaiono tardive, interessate. Come dare credito ai Rondolino, ai Velardi, o ai Morassut? Intelligenti spin doctor dei rottamandi leader che paiono più giustificare sé stessi e il loro pensiero che muovere una riflessione.

Ed allora tutto bene e trovata in Prossima Fermata Italia la soluzione ai problemi del PD? Magari, ma temiamo non sia così. Intanto l’assenza, dichiarata e voluta, di contenuti rischia di far tendere al minimo l’accordo che a Firenze si potrà trovare. Andare alla Rivoluzione senza programmi, come rivendica lo stesso Renzi su il Post, è infatti sicuramente d’effetto, molto moderno (o postmoderno) ma preannuncia, se le idee non sono semplicemente nascoste ma effettivamente assenti, un accordo sui mezzi che si trasformano così in fini e un minimo comun denominatore sui contenuti che è uguale (e contrario) alle mille pagine del programma dell’Unione.

In questo senso un po’ ci attraggono le trovate sceniche proposte (la consolle del dj, i video, la musica…), un po’ ci spaventano perchè quell’armamentario di presidenze, ragionamenti, interventi scritti, erano certo liturgia ma anche il modo che, finora, si era trovato per ragionare e discutere a un livello superiore di quello della chiacchera da bar.

Guardiamo a Firenze con curiosità lo ammettiamo, ma anche con in mente le parole di Verazzoli sulla rivista di quel giovane ottantenne di Emanuele Macaluso: “contrariamente a quanto avvenuto sia tra i laburisti che tra i socialdemocratici, l’attacco sferrato da Renzi ai massimi dirigenti del Partito Democratico si è basato unicamente sulla necessità di una loro sostituzione; senza altre spiegazioni”.

Il che non significa che a Renzi, o a Civati, manchino idee o programmi. Il punto è quanto queste idee siano masticate, digerite e condivise tra di loro e tra quelli a cui si rivolgono.

Di sicuro è condiviso, largamente, il bisogno da loro posto, quello di svecchiare il PD; da questa tre giorni forse capiremo non tanto se avranno la forza per rottamare chi sta di fronte a loro ma se, una volta conquistato il ponte di comando, avranno una minima idea di dove mandare la nave.

La parola che manca

Dal Nuovo Corriere di Firenze di oggi.

Alcuni giorni fa Matteo Renzi, promuovendo e preparando la tre giorni della Leopolda ha chiamato i suoi amici di Facebook a indicare quale parola avrebbero voluto trovare a quell’appuntamento.

Tante le risposte, la più frequente come notava anche Marzio Fatucchi sul Corriere Fiorentino era onestà. In buona posizione meritocrazia e futuro.

Assente, completamente assente, la parola Eguaglianza. Una delle triadi del motto rivoluzionario francese, pilastro della sinistra mondiale nel XX secolo. Una parola che ha mosso masse, dato speranza, battezzato anche tragedie ma declinato pure un futuro possibile per quell’umanità che si voleva mossa verso un avvenire migliore.

Una parola che ha molto a che fare, se declinata in eguaglianza delle opportunità come seppe dire e fare Tony Blair e il suo New Labour, con il tema della cosiddetta rottamazione. Perchè non c’è rottamazione possibile se gli ultimi resteranno ultimi, se non avranno le possibilità di dimostrare il loro valore e la loro bravura.

Ed è strano che questo tema sia così assente proprio qui in Italia, un Paese in cui la mobilità sociale è tra le più basse del mondo (non solo occidentale), in cui persistono corporazioni che assomigliano più a caste che a categorie, in cui il destino dei figli è segnato troppo spesso dal mestiere dei padri.

Un paese in cui lo studio, le professioni, il lavoro ed anche la politica, sono quadri immobili e inaccessibili. Non c’è ricambio (generazionale e non ) se non c’è immissione di forze nuove, linfa nuova, voglia nuova.

Non è un caso se il sistema formativo degli Stati Uniti, principalmente privato e dove peraltro si applica da secoli la cooptazione come metodo di selezione, applica con micidiale efficienza il sistema delle borse di studio per i meno fortunati ma più talentuosi, fino a farli diventare persino Presidenti.

Ecco perchè alla Leopolda e in tutti i posti in cui la sinistra prova a ricreare sé stessa, mi piacerebbe che questa parola antica eppure così moderna risuonasse come faro di futuro.

Il concetto del favore

L’aggressione a Bonanni avvenuta alla festa nazionale del PD di Torino è certamente un fatto grave, esecrabile, da non sottovalutare.

Tuttavia la lettura maggioritaria dei commenti all’episodio da’ un interpretazione circa “l’utilità” del gesto operato dagli esponenti dei centri sociali torinesi.  Soprattutto a sinistra si è affermato che l’attacco di Torino avrebbe, di fatto, favorito la destra e indebolito la sinistra e i lavoratori. Un modo di vedere le cose che ricorda più un riflesso pavloviano che un vero e proprio ragionamento. Infatti questa argomentazione, per certi versi giusta si badi bene, presuppone che i soggetti rappresentati nell’aggressione giochino tutti la stessa partita. In realtà non è così, gli estremisti che hanno aggredito Bonanni, non giocano secondo le categorie Pd/PdL contestano quel sistema non una sua parte. Dunque il gioco del cui prodest non può essere a loro imputato, anzi il fatto che la loro azione non giovi alla sinistra istituzionale finisce per essere un corollario positivo all’azione anche se magari non cercato direttamente. Rivolgersi a loro con funzione pedagogica non ha effetto alcuno, perchè il ragionamento dell’estremismo è estraneo al sistema di ragionamento che adotta la sinistra istituzionale. Rischia invece di suonare indulgente nei loro confronti (come l’intervista al padre della ragazza che la dipinge quasi come una boyscout dei centri sociali), al pari dello sciagurato “compagni che sbagliano” di tremenda memoria. Serve, oltre alla condanna del gesto, capire che la contrapposizione, il conflitto, riguardano il sistema, la politica, e non lo schieramento, la parte politica; che inpedire ulteriori salti di qualità necessita, oltre che di servizi d’ordine, di risposte politiche ai disagi che quell’estremismo nutrono e/o usano come alibi.

Sbagliare le analisi per fatica e consuetudine è un buon modo di peggiorare le cose, cercare di fermarsi a capire un salutare esercizio e spesso l’unico modo di cambiare le cose.

Costi (europei) della politica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 29 luglio 2010.

Mentre da noi si sbraita (senza costrutto) sui costi della politica, sulle riduzioni degli stipendi dei parlamentari, in Francia, colpita da un affaire che riguarda presunti finanziamenti irregolari al partito del presidente Sarkozy, il principale quotidiano del Paese, Le Monde, ha realizzato un inchiesta su come si finanziano i partiti nel continente europeo.

Il quadro che è esce è molto frastagliato, a partire dalla stessa Francia dove l’assenza di validi strumenti normativi ha reso possibile, negli anni, numerosi scandali legati a finanziamenti occulti ai partiti.

In Spagna, per esempio il finanziamento è, per la maggior parte pubblico, proporzionale al risultato delle ultime legislative. Si tratta di circa 140 milioni di Euro ogni anno per il funzionamento ordinario dei partiti , più rimborsi elettorali in funzione dei seggi, del numero di votanti e di iscritti.

Completamente opposto il caso inglese in cui le sovvenzioni sono essenzialmente private. Gli aiuti dello Stato si concretizzano in spazi televisivi regolamentati, agevolazioni postali e la messa a disposizione di luoghi per fare riunioni. I contributi privati devono essere divulgati solo se superiori alle 5.000 sterline (circa 6.000 Euro),mentre esistono severi tetti di spesa alle campagne elettorali.

Stranamente opaco il sistema svedese che non obbliga i partiti a rendicontare l’origine dei loro fondi, tuttavia i partiti pubblicano autonomamente questi dati.

In Germania invece non esistono limiti al finanziamento privato che anzi è particolarmente invogliato dalla detassazione di tali somme. I contributi superiori a 50.000 Euro sono pubblicati dal sito del parlamento mentre quelli inferiori non subiscono alcun controllo. Nonostante lo scandalo dei fondi neri alla CDU di Helmut Kohl, il sistema non pare capace di garantire la necessaria trasparenza.

E in Italia? Se per una volta il nostro Paese può dirsi in buona compagnia con gli altri partner europei, bisogna riconoscere che da noi, al solito, le cose sono ancora più complicate.

Intanto non dovrebbe esistere, stante il risultato di un referendum abrogativo, alcun finanziamento pubblico ai partiti. E infatti dal 1994 si chiama rimborso elettorale. Ora, il termine rimborso, implicherebbe che uno spende dei soldi e questi vengono restituiti. Non è così però che funziona; infatti ogni formazione politica che ottenga l’1% (era il 4% fino al 2002) dei voti validi alle elezioni partecipa alla ripartizione dei fondi che sono calcolati non sul numero dei votanti ma degli aventi diritto. Tanto per dare due cifre l’impegno di spesa per la penultima legislatura è di 468.853.675 Euro.

Accanto a questo quasi nulli i controlli ai fondi privati. Esiste una modesta detassazione per i contributi superiori ai 500 Euro ma nessun obbligo stringente sui bilanci dei partiti. Discorso a parte la sovvenzione pubblica alla stampa di partito che, in realtà, più che sovvenzionare i partiti tiene in vita molti dei quotidiani in edicola.

Infine pochissimi sanno che è possibile donare il 4 per mille del proprio IRPEF anche ai partiti politici.

Il fatto che nessun partito abbia mai fatto una campagna di comunicazione su questo tema dimostra come ci sia, all’interno dei partiti stessi, la consapevolezza di non essere in sintonia col Paese su questo tema.