Berlinguer l’ambizione cinematografica

Esce nelle sale questa settimana Berlinguer la grande ambizione di Andrea Segre. Abbiamo avuto l’opportunità di vederlo in anteprima alla cineteca di Bologna all’interno della Biennale dell’economia cooperativa organizzata da Legacoop alla presenza dell’autore e del protagonista Elio Germano. È stata dunque l’occasione per una riflessione non solo sul film ma sulla “presenza” di Berlinguer nel dibattito politico e storiografico e di come si trasmetta la sua memoria.

Joseph Buttiegieg che fu il traduttore dei Quaderni dal Carcere di Gramsci in lingua inglese scrisse che non bisognava fare del pensatore comunista una “reliquia intoccabile”. Per Gramsci, anche grazie alla fortuna oltreoceano del suo pensiero che la traduzione di Buttiegieg ha aiutato, probabilmente questo rischio è stato in parte evitato mentre il timore è stato e rimane altissimo per un altro comunista sardo: Enrico Berlinguer.

Erano già gli anni 2000, infatti, quando ancora bastava nelle riunioni del partito che già si discostava dal PCI di 10 anni e di due cambi di nome e ragione sociale, citare il nome del segretario comunista per ridestare un uditorio un po’ distratto o ottenere un applauso su un passaggio delicato. Ed è storia, e giusto omaggio, dei nostri giorni lo sguardo di Berlinguer sulla tessera del partito democratico.

In questi anni poi si sono moltiplicati i libri anche pregevoli, compreso quello di due redattori di questa rivista, i documentari, una bella e partecipatissima mostra e tante altre iniziative dedicate ad una delle figure più importanti non soltanto per la sinistra italiana. Una mole di produzioni che ha amplificato, talvolta stuzzicato, sia l’effetto nostalgia, sia il rischio “vita dei santi”.

Un rischio che anche il film di Andrea Segre Berlinguer la grande ambizione, si trova di fronte e prova a evitare da un lato con un rigore “citazionista” quasi filologico, lasciando al minimo le parti di pura invenzione drammaturgica, e dall’altra con un ritratto di Berlinguer che mischia l’uomo politico, l’uomo pubblico, con il Berlinguer privato quello della dolcezza con i figli e la moglie.

Un’operazione, quella di Segre, rischiosissima e coraggiosa e che non aveva avuto, almeno a memoria di chi scrive, precedenti in campo di opere cinematografiche non documentaristiche e che ci restituisce un ritratto del politico negli anni centrali della sua segreteria, quelli che vanno dal colpo di stato cileno del settembre 1973 all’assassinio di Aldo Moro nel maggio 1978. La grande ambizione del titolo (che si rifà a una citazione di Gramsci) è infatti quella dell’approdo del PCI al governo del Paese attraverso da un lato libere elezioni (in continuità con l’impostazione che dal rientro di Togliatti da Mosca nel 1944 aveva caratterizzato il PCI come gli altri partiti comunisti dell’Europa occidentale) e dall’altro la partecipazione di tutte le forze democratiche e popolari al governo, DC compresa. Ed è proprio questo secondo punto il centro della novità e del disegno berlingueriano che, attraverso il cosiddetto “compromesso storico” (Moro più enigmaticamente parlava invece di “convergenze parallele”) doveva portare prima ai governi della “non sfiducia” e poi alla partecipazione al governo dei comunisti.

Questo disegno, interrotto dal sequestro e dall’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse, è l’ambizione interrogata e raccontata nel film di Segre, che accompagna Berlinguer, interpretato con grande delicatezza da Elio Germano, tra riunioni del comitato centrale del PCI, assemblee con la “base” del partito, viaggi a Mosca, gli incontri “clandestini” con Moro ma anche i momenti di intimità con la famiglia del segretario.

Segre fa muovere Germano e gli altri attori su un sentiero rigido, reinterpretando al minimo passi di diari dei protagonisti o dei verbali delle riunioni conservati all’Istituto Gramsci e dunque restituendoci una ricostruzione storicamente appurata anche se tutta proveniente da una delle parti in causa, quella del gruppo dirigente del PCI.

Questo rigore se ha il pregio di rendere “solido” il film pone però almeno due problemi: da un lato piega alcuni avvenimenti al raggiungimento della grande ambizione; questo avviene in almeno due momenti: nella ricostruzione del referendum sul divorzio che viene raccontato come un’occasione per i comunisti di dimostrare alla DC che il Paese era pronto a uno sviluppo progressista che poteva portare all’alleanza tra le forze popolari. Se è vero che questa sarà la pronta lettura che il gruppo dirigente comunista darà dell’esito della consultazione referendaria, non va però dimenticato che il PCI era assolutamente contrario al fatto che si tenesse il referendum e Berlinguer in particolare, questo dicono i verbali del comitato centrale, era convinto che il voto si sarebbe rivelato in un trionfo del sì e della DC. Questa parte nel film è invece affidata ad una piccola scena di passaggio in cui Nilde Iotti convince il segretario della bontà del referendum criticando il “maschilismo” dei quadri del partito. Problema che era certo presente nel partito e che la Iotti conosceva bene anche per le proprie vicende personali.

Il secondo punto in cui il film piega la ricostruzione degli eventi al fine della grande ambizione è in una scena “moscovita” in cui Berlinguer parlando con il responsabile dei rapporti col PCUS, Gianni Cervetti fa intuire che il momento sia propizio per interrompere i finanziamenti “straordinari” di Mosca al partito. Così lo spettatore meno preparato può pensare che quella riflessione portò effettivamente all’interruzione di quel canale di finanziamento che invece proseguì e per molti anni, come ricorda lo stesso Cervetti nel suo “l’oro di Mosca”.

L’altro problema che questa impostazione filologica e rigida pone è che il Berlinguer di Germano non ha mai un dubbio, né nella parte pubblica (cosa che vista l’aura del segretario ci può stare) né nella parte privata. Ora è improbabile che, per esempio, di fronte alla volontà di autonomia dei comunisti italiani rispetto a Mosca, non fosse altro che per il prestigio dei comunisti sovietici agli occhi di chi aveva vissuto la Rivoluzione di Ottobre e la sconfitta del nazismo, non venisse nella solitudine della propria cameretta il dubbio di aver fatto la cosa giusta. Dubbio che in un’opera di fiction poteva ben essere rappresentato, rendendo più completo, più umano il personaggio. E invece anche il Berlinguer/Germano privato risponde sempre fermamente ai dubbi dei figli difendendo la propria posizione, pur “senza perdere la tenerezza”.

È questa la parte del film in cui il rischio agiografico non viene del tutto risolto ed è un peccato perché il film complessivamente si muove bene, non appare un prodotto pensato per la generazione dei “berlingueriani” (e dunque creato per l’effetto nostalgia) ma molto di più per chi Berlinguer non l’ha conosciuto e ne racconta la fase cruciale più innovativa e coraggiosa. Per questo non hanno senso le critiche come quella di Giuliano Ferrara sul Foglio di una passione per Berlinguer in quanto “perdente di lusso”. Quantomeno per questo film tale critica non si pone perché Segre, a mio avviso intelligentemente, sceglie di raccontare il Berlinguer che non si è ancora “spento” quello che avrebbe potuto farcela, seppur nel film la responsabilità della sconfitta non sia mai, nemmeno in parte, sua ma sempre di agenti altri: dalle BR, ai Russi o agli americani.

Scegliendo però l’arco narrativo 1973-1978 Segre si sottrae al giudizio storico su Berlinguer: la deriva “morale” dopo il fallimento del compromesso storico e la lunga apnea del PCI negli anni ottanta che la prematura morte nel 1984 sottrarrà al pensiero e all’azione di Berlinguer.

In questa sospensione temporale e di giudizio il film consente quindi, magari anche furbescamente, di non doversi esprimere, lasciando allo spettatore e alla sua inclinazione di declinare quello che dopo accadrà, limitandosi, si fa per dire, a una ricostruzione didascalica di un’intuizione, di un’azione e di un primo risultato negativo.

Non mancano infine alcune chicche della politica politicienne come dicono i francesi, come quando Berlinguer giubila Cossutta da responsabile dei rapporti con Mosca promuovendolo agli enti locali o quando spiega a Ingrao, il dirigente più critico alla politica di governo con la DC, che l’accordo con Moro aveva come primo risultato la presidenza di una camera per i comunisti e che il nome che il PCI avrebbe fatto era proprio quello di Ingrao. Inquadrando quindi il “grande idealista” nel contesto della sua professione di segretario e non “solo” di pensatore, raccontandoci che la politica era fatta da persone di livello, di pensiero ma anche di mestiere. Ed è anche questo uno dei meriti, non marginale, del film.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 551 del 2 novembre 2024

I Radicali visti da dentro

Il partito radicale, come dimostra la storia dei suoi eredi negli ultimissimi anni, è stata (inevitabilmente) legata alla biografia del suo esponente più autorevole e ingombrante. La stessa diaspora radicale dopo la scomparsa di Pannella pare dimostrare a posteriori questa tesi ed è oramai impossibile capire (e forse è pure inutile) se l’ultimo Pannella fosse la maschera che celava e impediva la separazione o l’unico artefice di un programma e un destino politico comune. Gianfranco Spadaccia, che fu dirigente radicale e parlamentare per quel partito, ha pubblicato, poco prima della sua scomparsa, quella che ad oggi, a memoria di chi scrive, è l’unica storia “organica” del partito radicale. Un testo che non scade mai nella memorialistica ma non si dimentica mai di dichiarare la sua partigianeria, il punto di vista “interno” e “interessato”.

Anche per questo il libro, pubblicato da Sellerio, è un testo davvero importante, necessario si potrebbe dire, per inserire il percorso radicale non come la biografia di un uomo, per quanto eccezionale, ma come un percorso politico collettivo (seppur non di massa) che trae origine nella goliardia universitaria del dopoguerra, da “il Mondo” di Pannunzio e da quella piccola galassia laica fatta di azionisti, repubblicani e liberali di sinistra.

Un percorso che matura, si trasforma, assorbe come una spugna quello che di nuovo la società italiana fa affiorare.

Un percorso dall’esterno forse incoerente, sicuramente complicato, incredibilmente esteso per modi e interessi, scambiato spesso come protagonismo, eccentricità per attirare attenzione. Cose che pur presenti, nel racconto di Spadaccia riacquistano logica, senso, impegno, forse soltanto poca critica rispetto alle scelte, le battaglie intraprese e a quelle perse. Questo almeno fino alla fine della cosiddetta prima repubblica, quando le scelte radicali, di Pannella in particolare, paiono non chiare, non giuste fino in fondo all’autore. Eppure, radicalmente, in Spadaccia non c’è ripicca, rivincita ma anzi il dubbio che, come spesso gli capitava, Pannella avesse capito prima (e meglio) il tempo in cui viveva e a sbagliarsi fosse Spadaccia e chi scrive con lui.

Quasi pietosamente, Spadaccia si ferma al 2013 evitando di raccontare la fine di Pannella e dell’unità radicale. In fondo non avendo l’autore, dichiaratamente, l’ambizione dello storico riesco a capirlo e, da vecchio frequentatore collaterale dei radicali, anche a me, parafrasando il poeta, piace ricordarli com’erano, pensare che ancora vivono; e magari è proprio così.

Gianfranco Spadaccaia, Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia, Sellerio, 2021.

Uscito su CulturaCommestibile n. 478 del 4 febbraio 2022.

Tra Roma e Mosca, le tante sfaccettature dei comunisti italiani

Il percorso del Partito Comunista Italiano dalla sua nascita a Livorno nel 1921 fino alla sua fine nel 1991 ha sempre rappresentato un unicum di difficile collocazione nella storia del comunismo mondiale. Anche se questa “diversità” è stata fortemente narrata dal gruppo dirigente di quel partito, soprattutto a partire da secondo dopoguerra e nella fase di ricerca del “compromesso storico”, è indubbio che molti caratteri originali abbiano attraversato la storia del PCI.  

Questo vale anche (e forse soprattutto) nel campo delle relazioni internazionali ed in particolare nel rapporto con Mosca che Silvio Pons indaga in un bel volume “i comunisti italiani e gli altri”. Il lavoro di Pons parte dalle origini per mostrare i caratteri prima di ammirazione per quello che accade in Russia dal 1917, da parte sia del gruppo torinese dell’Ordine Nuovo di Gramsci e Togliatti, che da quello napoletano di Bordiga; per passare poi agli anni del fascismo, del gruppo dirigente a Mosca che sopravvive meglio di altri esuli, l’esperienza allineata a Mosca della guerra di Spagna e poi il ritorno in Italia dopo il 25 luglio del 1943. A partire da allora le differenze con Mosca si ampliano non tanto nella scelta della svolta di Salerno (processi analoghi di partecipazione dei comunisti ai governi di unità nazionale avvennero infatti anche in Francia e Belgio in ossequio ad una linea decisa e condivisa da Stalin) ma nella costruzione del partito massa a partire dallo statuto uscito dal congresso di Firenze che vedeva cadere la “pregiudiziale” marxista per aderire al PCI. Un modello organizzativo che, per gli italiani, rappresenta anche una garanzia di indipendenza (in potenza anche economica) da Mosca.

Posizioni, quelle italiane, che portarono poi alla reprimenda che Jugoslavi e Polacchi inflissero agli italiani prima di finire, i primi, a rappresentare la maggiore eresia del comunismo europeo. Un’eresia con la quale il PCI non chiuse mai i rapporti ma che anzi usò per affermare la propria autonomia da Mosca e per affermare una propria politica estera nei confronti dei movimenti di liberazione coloniale che si andavano sviluppando.

Certo nel rapporto travagliato tra Botteghe Oscure e Mosca mai si arrivò alla rottura, mai si sconfessò del tutto la patria del socialismo. Anzi si appoggiò convintamente l’invasione Ungherese del ’56, mentre la sconfessione di quella Ceca del 1968 non comportò mai un’abiura del socialismo reale. Anche Berlinguer che fu il più netto a prendere le distanze da Mosca, ipotizzava una terza via tra socialdemocrazia e soviet ma senza sconfessare il valore della rivoluzione. Questa aveva perso la spinta propulsiva ma non era da tutta da buttare e il gruppo dirigente italiano continuava a proporsi non in rottura con l’esperienza russa ma come portatore di un contributo, primariamente intellettuale, alla riforma del socialismo reale. A partire dall’inserimento di processi democratici e del riconoscimento del dissenso.

Un ruolo da guide intellettuali che l’ultima fase sovietica, quella di Gorbacev, riconoscerà al PCI ma che non avrà modo di svilupparsi (ammesso e non concesso che vi fossero spazi di riforma in un tale sistema) per il rapido crollo dello spazio delle democrazie popolari e dell’URSS stessa.

Tutto questo è raccontato nel libro di Pons con rigore e seppur privilegiando il punto di vista degli italiani, senza dimenticare i ritardi, le incoerenze e gli errori che tutti i gruppi dirigenti comunisti nazionali incontrarono. Il quadro che emerge è quello di un’assoluta continuità, almeno dal 1945 in poi, di una certa “furbizia” e di un’alta considerazione della propria elaborazione intellettuale da cui derivava un’alterità che, fino alla deriva morale dell’ultimo Berlinguer, era ancorata ad un disegno politico concreto che fu capace, sul piano interno, di orientare anche la politica estera italiana e di dialogare con i governi democristiani favorendo la politica del paese nel mediterraneo e nel medio oriente.

Infine il PCI fu, a partire da Berlinguer, capace di cambiare idea rispetto alla Comunità economica europea andando oltre la propaganda e la visione critica moscovita, immaginando Bruxelles come uno spazio tra i due blocchi e capace di dialogare con il cosiddetto terzo mondo in modo autonomo rispetto a Washington e Mosca. Un percorso che con l’eurocomunismo, il riconoscimento del valore dell’atlantismo e la fine della spinta propulsiva rende maggiormente coerenza al percorso del compromesso storico e della ricerca della partecipazione al governo del PCI, facendo apparire, aldilà dei giudizi su quell’esperienza, parte di un percorso politico coerente di ricerca di una via democratica al socialismo.

Una via che fu largamente incompleta, non capita dalle socialdemocrazie europee, non solo dal PSI italiano comprensibilmente preoccupato della competizione elettorale del PCI, ma nel caso dell’SPD o dei partiti scandinavi limitato dalla pregiudiziale anticomunista.

In definitiva il libro di Pons rende giustizia ad un percorso complesso e aiuta a comprendere le tante complessità e contraddizioni di un partito che fu di massa ma con a capo un élite intellettuale e consapevole.

Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel modo del novecento, Einaudi 2021.

Articolo uscito su Cultura Commestibile, n. 467 del 45 novembre 2021

Il Sovversivo Serantini cinquant’anni dopo

Franco Serantini aveva vent’anni. Orfano era cresciuto nella reclusione di istituti e riformatori e aveva conosciuto un primo, fugace, riscatto nello studio e nell’impegno politico in quel di Pisa dove era finito dopo un giro d’Italia degli istituti per figli di NN. Franco Serantini era un anarchico. Un anarchico nella Pisa del lungo sessantotto; quella città che con i suoi studenti era centro di alcune delle elaborazioni più nuove, più radicali, di quella stagione.

In quella Pisa in fermento, il 5 maggio 1972, Franco Serantini partecipò ad una manifestazione illegale per impedire un comizio dell’MSI. Verrà prima picchiato, poi arrestato, probabilmente di nuovo picchiato, poi lasciato morire in una cella del carcere Don Bosco. Ucciso sia dalle botte dell’apparato repressivo dello Stato, quanto dall’indifferenza dello stesso Stato che lo aveva in custodia.

Una storia che già allora fece rumore, con interventi di Umberto Terracini e con gli articoli di Corrado Stajano sul Corriere della Sera. Stajano che nel 1975 dedicò a Serantini un libro, il Sovversivo, che ne ha fissato la memoria in generazioni di italiani.

Michele Battini ritorna, dopo cinquant’anni dal fatto, su quella morte e ne scrive da storico non imparziale, come spiega bene lui stesso, ma avvertendo il lettore che di quei fatti fu protagonista. Giovane studente militante di quei gruppi extraparlamentari che furono una delle poche socialità documentate di Serantini.

Però Battini non si limita al racconto o allo svelamento dei fatti tragici di quel giorno e dei processi, tesi tutti a dissimulare le colpe, ma ricostruisce il contento in cui quella morte accadde. Un contesto locale, con la Pisa ancora operaia in cui le lotte studentesche si provano ad unire a quelle operaie e dalle aule, passano alle fabbriche e poi alla città. Ai quartieri borgata in cui si ammassano, senza servizi, i nuovi operai massa.

Un contesto però anche nazionale con il dispiegarsi della strategia della tensione, il punto di rottura della strage di Milano del 12 dicembre 1969, il doppio stato e la persistente paura, per i gruppi antagonisti, di un colpo di mano reazionario.

Un clima che ha già colpito movimenti e anarchici col “volo” di Pinelli. Quel Pinelli che dà il nome al gruppo anarchico che Serantini frequenta e che tornerà in ballo, quando la procura milanese accuserà il gruppo dirigente di Lotta Continua di aver deciso l’uccisione del commissario Calabresi proprio durante un corteo per ricordare Serantini e di aver dato l’ordine di morte proprio per vendicare lo studente pisano oltre che il ferroviere anarchico.

Trame che si intrecciano nella storia come nel libro, insieme alle botte, all’incuria dei medici, allo zelo assolutorio dei magistrati. Lo Stato impunito, lì dove, ci dice Battini, la persistenza del fascismo (in uomini, prassi e azioni) minava dal dentro la Repubblica e che però ha continuato a mantenersi attivo come testimoniano i tanti casi di cittadini morti mentre erano reclusi e dunque sotto la tutela assoluta dello Stato.

Una persistenza tragica mentre delle altre si perde traccia e memoria, dissolte nell’8 settembre della fine della prima repubblica. A chi gli ha chiesto quanto tempo fosse occorso per scrivere questo libro, Battini ha risposto “cinquant’anni”. Non solo perché egli era lì, non solo dunque per trovare il giusto distacco, anzi. Credo che la molla di questo libro fosse la paura dell’oblio, la necessità, al netto delle tante mutazioni che nella vita di ognuno avvengono, di testimoniare che c’è stato un tempo in cui si andava perché ci si credeva. La frase, che dà il titolo al libro e che viene dall’interrogatorio, sommario, che fu fatto a Serantini quanto fu arrestato, pesto e dolorante. Alla guardia che gli chiedeva perché fosse andato a quella manifestazione il Serantini, a domanda rispose, “Andai perché ci di crede”. Non tornò invece a casa perché lo Stato che incontrò non credeva in se stesso.

Michele Battini, “Andai perché ci si crede”. Il testamento dell’anarchico Serantini, Sellerio, Palermo, 2022.

Articolo apparsi su Cultura Commestibile n.437 del 5 marzo 2022

Le città postpandemiche

Parigi – urban farm

Per anni dietro le mie spalle, nel mio ufficio di allora, ho avuto un manifesto (se non ricordo male era dell’ARCI) con il motto medievale tedesco: “l’aria delle città rende liberi”. Ci ripensavo in questi mesi di pandemia quando l’aria delle città – più correttamente degli sprawl – appare quella meno salubre e più feconda per la trasmissione del virus. Ragionamenti che anche sociologi, urbanisti, amministratori, stanno provando a fare, approfittando del virus come occasione di ripensamento e ridisegno degli spazi del nostro abitare.

Non tanto come metodo di lotta al virus, si spera che i tempi di cura del COVID non siano quelli medi del ridisegno delle nostre città ma molto, molto, più rapidi, piuttosto un ripensamento che va in direzione di una sostenibilità ambientale e come precauzione per le prossime crisi, non necessariamente pandemiche, che come ci insegna David Quammen in Spillover ci troveremo, anche a causa del nostro sviluppo ad affrontare. Mentre qui da noi si oscilla tra archistar che blaterano di un ritorno ai piccoli borghi, amministratori che aborrono lo smart working per non far chiudere il baretto sotto la Regione e un generale senso di “add’ha passà a nuttata”, nel resto del mondo qualcosa si muove in direzioni diverse e interessanti. Rispondendo ad una intervista del Sole 24 ore del settembre scorso Richard Florida, l’urbanista guru della società della conoscenza che tanto ha plasmato gli anni dell’ottimismo obamiano, ha riletto la sua concezione di egemonia della classe creativa alla luce del COVID-19. Fine delle metropoli, ritorno alla media dimensione urbana. Va considerato che Florida parla del contesto americano e quelle che lui considera grandi città non sono certo le dimensioni delle nostre cittadine italiane. Dunque paradossalmente i nostri centri urbani potrebbero partire avvantaggiati rispetto a questa nuova fase. Anche perché il secondo elemento che Florida ritiene determinante nella città post pandemica è la piazza. Istituzione italiana per eccellenza, che non viene declinata al virtuale ma proprio come spazio di aggregazione e, perché no, di lavoro, legata allo smart working.

Inutile dire che la riflessione di Florida, così come la sua teoria più famosa, affronta il livello medio alto della società, quello che può telelavorare, quello che è sopravvissuto alla rivoluzione dell’ICT e che sopravviverà alla rivoluzione della robotica. Noi invece qualche problema su come sopravviveranno, anche in termini urbanistici, i milioni di lavoratori poco o per nulla qualificati nel processo di espulsione della loro forza lavoro ad opera dei robot vorremmo provare a porlo. Magari con soluzioni non troppo diverse, possibilmente, di quelle immaginate per la parte ricca (di soldi e di conoscenza) della popolazione.

Anche in Canada, precisamente in Québec, il tema è stato affrontato. Le smart city, il lavoro che cambia, le nuove generazioni iperconnesse erano alcuni dei temi della MTL Connect che si è svolta, per larga parte online, la scorsa settimana. In questo caso siamo già a i primi ripensamenti ad un ridisegno delle smart cities a partire dal fallimento di Toronto Google city.

Anche da questa parte dell’oceano però non si sta con le mani in mano. La città di Parigi ha iniziato il percorso di ridisegno del proprio strumento di programmazione urbanistica, ponendosi (prima del COVID) l’obbiettivo di un piano a bilancio ambientale positivo. Per cui dal consumo di suolo si passa alla restituzione di verde e aree umide in misura maggiore a quelle in cui si continuerà a colare cemento.

All’interno di questo processo, che prevede anche interessanti esercizi di democrazia partecipativa, Le Monde ha dedicato lo scorso 16 ottobre due pagine agli interventi di due urbanisti ed una sociologa sul tema del nuovo PLU (Plan Local d’Urbanisme). Ebbene tutti e tre gli interventi andavano nella direzione di Florida, del superamento della scala urbana della rottura della continuità del costruito. Più radicale, anche nella critica, l’urbanista Albert Levy che poneva come efficace non il limite della città (stiamo comunque parlando di Parigi) e nemmeno quello dell’aria ad essa confinante ma quello dell’intera regione parigina. Parlando in termini di difesa dai cambiamenti climatici, in particolare del surriscaldamento urbano, anche in termini sanitari. Scrive Levy: “lottare contro l’isola di calore urbano ed i suoi effetti sanitari deleteri deve divenire l’obiettivo prioritario dell’urbanistica bioclimatica, rinforzando il posto della natura nella città: ripiantare verde e alberi lungo le strade e nelle piazze, diversificare la vegetazione, rendere verdi facciate e tetti, sviluppare l’agricoltura urbana, gli orti comuni, i parchi, le trame verdi e blu, bloccare l’artificializzazione del suolo, demineralizzare il suolo, favorire l’infiltrazione naturale della pioggia, incoraggiare la fitoterapia, manutenere i corsi d’acqua”. Sono questi gli assi dello sviluppo urbanistico di Parigi, che però se vuole avere un senso deve avvenire a livello di scala regionale, avendo poco senso un salotto verde attorniato da banlieue cementificate, aeroporti intercontinentali e fabbriche inquinanti. Rompere il tessuto urbano, ridare soluzioni di continuità ad un tessuto che si è espanso senza fine e senza senso.

Queste le tesi anche di Agnés Sinaï e di Antoine Grumbach che vanno entrambi nella direzione della fine dell’urbanistica della congestione, la prima, e di una forse utopica riscoperta del territorio e della sua gestione armoniosa per il secondo.

Comunque il punto di fondo è la fine della megalopoli come modello di sviluppo, un ritorno a rotture tra città e campagna con quest’ultima fortemente collegata da infrastrutture tecnologiche e materiali ad impatto però ridotto.

Uno scenario che potrebbe vedere l’Italia e in particolare quel territorio centrale che va dagli Appennini alla Capitale come un unico scenario di sviluppo di queste nuove competenze, di un modello bioclimatico a cui si aggiungerebbero le bellezze architettoniche, artistiche, storiche e paesaggistiche ed un modello di sviluppo economico diffuso, ridisegnando e sostenendo in infrastrutturazione, ricerca e sviluppo il tessuto di medie e piccole imprese.

Potremmo essere capofila di un modello di sviluppo che per le parti più avanzate del pianeta vorrebbe dire cambio traumatico di traiettoria, mentre per noi, prosecuzione di un cammino millenario. Potrebbe, a patto di non limitare l’ottica ai dehors dei bar e ristoranti oramai vuoti, al museo da tornare a riempire e alla ZTL da perforare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile.com n. 374 del 24 ottobre 2020

Idee per la città che verrà

Giovedì 28 maggio è andato in onda il primo webinar di Cultura Commestibile ; quasi due ore a discutere di come potrebbe essere la Firenze post coronavirus.

Una discussione molto interessante, pacata e speriamo fruttuosa. Ve la ripropongo anche qui.

Un giallo per raccontare la guerra a sinistra negli anni ‘80

È tornato, dopo “La provvidenza rossa” Lodovico Festa e il suo detective probiviro comunista Cavenaghi per un altro giallo ambientato nella Milano Rossa. È uscito dunque, sempre per Sellerio, “La confusione morale” ambientato questa volta nella Milano degli anni ’80, quella in cui il PCI litigava con Craxi a livello nazionale ma governava con i socialisti nella capitale lombarda con la giunta Tognoli (Bagnoli nel libro). Ed è proprio questa dualità, questa alterità del comunismo meneghino la vera protagonista della storia. Come nel primo libro o forse ancor di più, l’intreccio noir e poliziesco sono un pretesto. Ne la provvidenza rossa era il pretesto per raccontare il mondo parallelo dei comunisti milanesi rispetto ad una società “secolarizzata” che li escludeva e da cui si autoescludevano. In questa seconda opera l’alterità è tutta fra compagni: tra quelli che vorrebbero inseguire la modernità del riformismo craxista e quelli, romani in larga parte, che lo vogliono contrastare trascinati dalla “questione morale” che Berlinguer, appena scomparso nella narrazione, aveva lanciato. A differenza però del primo volume, l’autore qui prende decisamente parte, schierandosi con i riformisti milanesi, e nel farlo da un lato (anche per esigenze narrative) traccia confini tropo netti tra i due campi ma soprattutto, conoscendo come andranno i fatti (per sé e per il PCI) dà ai compagni riformisti doti di preveggenza un po‘ troppo ampie, soprattutto per quanto riguarda cosa sarebbe accaduto in URSS dopo il 1989. Eppure, il libro rimane godevole, proprio per l’analisi di quella frattura tra le due sinistre che si compì in quegli anni, e per come “mani pulite” sarebbe nato e sviluppatosi. Anche in questo caso, l’autore forza un po’ la mano, e traccia una linea troppo netta, un destino ineluttabile, alla saldatura tra ambienti della magistratura e una parte, importante, dell’apparato comunista. Quello che è del tutto assente è il giudizio sul PSI di quegli anni, lasciato troppo sullo sfondo, concedendo troppo alla tesi assolutoria del craxismo costretto a determinate azioni, politiche e non soltanto politiche. Altrettanto godibile è il fatto che i personaggi seppur mascherati da nomi fittizi siano altamente riconoscibili e credibili, nonostante qualche dialogo un po’ troppo protocollare; così come la ricostruzione dell’ambiente milanese rimane la parte migliore dello scrivere di Festa, insieme alla descrizione dell’urbanistica e dell’architettura milanese, che già si intravedeva nella prima opera. Meno accurato – come nota Giuliano Ferrara recensendo il libro su il Foglio – nel ricostruire le vicissitudini della sinistra milanese di quegli anni il fatto che per tutto il libro nessun comunista non scopi mai; col risultato che da un lato ci si assolve per l’aver peccato coi craxiani e contemporaneamente ci si assolve pure dai peccati della carne.

Articolo apparso su Cultura Commesibile n. 304 del 13 aprile 2019

La curiosità come metodo politico

Di Riccardo Conti sono stato orgogliosamente “nipotino indisciplinato” e non è dunque facile scriverne a meno di due anni della sua prematura scomparsa. Tuttavia la pubblicazione, a cura della sezione Toscana dell’INU, del numero monografico di Urbanistica e Dossier a lui dedicato merita di cacciare indietro il magone e provare a ragionare su Riccardo Conti nel suo fare urbanistica, che è poi anche il titolo della pubblicazione.

Il volume raccoglie scritti di chi con Riccardo condivise una stagione amministrativa e riformista, come la chiamava lui, irripetibile.  Intanto per il metodo, un incontro di sapienti e di politici, così inimmaginabile nella stagione dei “professoroni”, dell’inesperienza come valore, dell’università della vita. Erano anni in cui i Direttori generali dei vari assessorati della Regione Toscana non avrebbero sfigurato nelle cattedre dei migliori atenei del Paese e in cui, noi capi di gabinetto, temevamo il maglio del CTP del giovedì molto più della scure della giunta politica del lunedì. Nel volume c’è appunto il racconto di Mauro Grassi che ci fu rubato dalla Cultura proprio per approdare all’assessorato di Riccardo e con lui coordinare una squadra formidabile che avrebbe disegnato una Toscana capace non solo di preservarsi ma di svilupparsi.

Riccardo, cresciuto con la cultura onnivora di quelli per cui studiare era la prima forma di riscatto, declinava lo sviluppo territoriale come sviluppo economico, si ostinava a non vedere la terra che era stata della Galileo, del Pignone e della Piaggio a un’eterna Disneyland che consumava il suo passato o nella trasformazione in un Chiantishire fatto di vincoli ad ossimorum. La sua idea di progresso passava dalla città lineare da Firenze al mare, nell’alta capacità che univa Livorno a Rotterdam. C’era in lui un forse ingenuo sviluppismo, un mito di progresso che certo prevaleva su un ambientalismo da salotto, sull’immobilismo progressista che vedeva in una fabbrica di caravan un nemico di classe.

La Toscana di Riccardo era vigne a giropoggio, come aveva letto in Emilio Sereni, ma anche l’Arno Valley il cui poster era appeso nella sua stanza di vicepresidente della Provincia. Lo sguardo dritto e fiero nel futuro non lo abbandonava mai, ma era un futuro fatto sì di rispetto ambientale ma non certo di immobilismo luddista. A Riccardo piaceva il progresso e sognava riforme per sviluppare. Era felice la crescita per lui, mai il suo contrario.

Certo non fu semplice lavorare con Riccardo, rapportarsi con lui come ricorda il nostro Gianni Biagi anch’egli autore di uno scritto della monografia sui rapporti, talvolta burrascosi tra i piani regionali e quello comunale a cui forse un eccesso di critica da parte della Regione contribuì a far allungare il dibattito fino a che il vento che soffiava da Rignano ne decise la fine, più consona alla stagione nuova che rappresentava.

Ma il metodo di Riccardo era un metodo curioso, pedagogico. Intergenerazionale. Quanti giovani devono a Riccardo occasioni di confronto e crescita, opportunità di incarichi, tutti meritati, quanto meno per la qualità di quelli che ci sono succeduti. Ed ecco che è così bello leggere le pagine di Chiara Agnoletti, anche lei cresciuta alla scuola dei nipotini di Riccardo, mai geloso e sempre pronto a sorreggere anche quelli più riottosi di noi.

Quella stagione siamo certi non tornerà più e magari è meglio così, ma riappropriarsi di quel metodo, di quella curiosità, della mazzetta dei giornali esagerata sempre sotto il braccio di Riccardo, sarebbe oggi più che mai una necessità dell’agire politico.

“Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza” campeggiava in effige all’Ordine Nuovo gramsciano e Riccardo ne seguì fino all’ultimo il comando. Ricordarlo oggi continuando a studiare è il modo migliore per occuparsi del territorio, anche ferito, che ci circonda.

Articolo uscisto su Cultura Commestibile n. 298 del 2 marzo 2019.

Non avete da perdere che la vostra disuguaglianza

Un po’ a tutti è venuto il dubbio che per sortire dalle secche in cui è precipitata la sinistra, non solo italiana, congressi e beghe di partito non siano sufficienti figurarsi salvifici. Le dimensioni del tracollo, del distacco, denotano un cambio di fase che necessiterebbe di riflessioni ampie, di progetti politici che rimettessero in discussione gli ultimi 20 o 25 anni della sinistra, quanto meno di quella riformista che è statala spina dorsale del socialismo europeo dalla caduta del muro di Berlino.

Anche qui serve una prima distinzione: le tendenze più liberali o mercatiste di questa sinistra hanno trovato, o più correttamente stanno tendando, di trovare strade autonome: Macron in Francia, i liberali britannici, Calenda (forse) qui da noi; proseguono la strada di un governo della mondializzazione, banalizzando, continuando la terza via del riformismo degli anni ’90 del XX secolo che però pare essere proprio quello che l’elettorato europeo rifiuta come l’aglio i vampiri. La sinistra più radicale sembra invece rivolgersi al passato, riscoprendo un calore e una voglia di lottare che fanno piacere e potranno certamente tornare utili, ma appaiono guardare ancora più indietro nel tempo riproponendo ricette eticamente corrette ma in un contesto sociale e economico che non è in grado di accoglierle senza un mutamento complessivo, rivoluzionario si sarebbe detto un tempo.

Tra queste due tensioni ideali sembrerebbe necessario, almeno a chi scrive, trovare una strada diversa che non acconsentisse ai dogmi dell’economia mondiale di mercato ma che nemmeno implicasse come soluzione il ritorno a un eden socialdemocratico che non potrà tornare. In questo filone si colloca il manifesto di AG.I.R.E. , un gruppo di studiosi di cui fanno parte Maurizio Franzini, Elena Granaglia, Ruggero Palladini, Andrea Pezzoli, Michele Reitano e Vincenzo Visco e che si sono posti come obiettivo  dell’agire politico di un nuovo riformismo un nemico tosto come la disuguaglianza.

 Proprio come Keynes e i liberali britannici durante laseconda guerra mondiale immaginarono un mondo in cui l’economia di mercato dovesse essere temperata da azioni pubbliche che la regolassero e facessero godere i dividendi a quanti più cittadini possibile (certo anche per sopravvivere alla spinta del comunismo avanzante), il gruppo AG.I.R.E. immagina un mondo in cui redistribuire la ricchezza della rivoluzione informatica, ridefinire il ruolo di un governo pubblico (magari sovranazionale) non più mero regolatore e poter colmare il divario tra i primi sempre più primi e le masse sempre più ampie di ultimi.

Il volume è uno spunto interessante, seppur nella parte delle azioni politiche concrete sia piuttosto vago e poco incisivo, e cerca di  ridefinire alcuni parametri che parevano intoccabili (la globalizzazione buona e giusta, il mercato in grado di trovare da sé i correttivi, il pubblico come inevitabile fonte di sprechi e inefficienze) e di contrapporre argomenti al pensiero dominante degli ultimi 25 anni, in base al quale l’aumentare della disuguaglianza all’interno dei paesi “ricchi” sarebbe compensato dall’avvicinarsi dei paesi “poveri” a quelli ricchi con il conseguente aumento delle condizioni di vita dei più poveri di quei Paesi.

Altro aspetto interessante del volume è il mix di misure immaginate per combattere la disuguaglianza, intravedendo azioni macroeconomiche, cessioni di sovranità a organismi sovranazionali ma anche azioni di nudge economics applicabili a livello locale.

Insomma pur non ponendosi come un manifesto per la sola sinistra, il testo edito dal Laterza, appare in questi tempi bui come un piccolo faro di speranza, a patto si riescano a superare gli appassionanti dibattiti sugli inviti a cena, le ex stazioni ricolme di ego, il personalismo spinto e le scissioni di microrganismi politici che paiono essere, ad oggi, un delle poche ragioni di interesse dei gruppi dirigenti della sinistra italiana.

Articolo apparso sul  numero 283 del 3 novembre 2018 di www.culturacommestibile.com