Farsi da parte per raccontare l’indispensabile.

Come Carrère ha saputo scomparire per raccontare il processo degli attentati di Parigi.

Non ho il culto di Emmanuel Carrère ma V13 era un libro, per me, imperdibile. La sera del 13 novembre 2015 senza alcun motivo particolare misi come foto di copertina di Facebook una foto dei tetti di Parigi. Dopo alcune ore fui sommerso di chiamate e messaggi che mi chiedevano se fossi nella capitale francese e se stessi bene. Era in atto uno dei più efferati attentati avvenuti in Europa. Più di cento persone, in prevalenza giovani, morivano e molti di più venivano feriti, sotto i colpi di Kalashnikov o dai bulloni delle cinture esplosive dei terroristi dell’ISIS. Tutto questo mentre stavano guardando una partita, sorseggiando un cocktail in un bistrot o partecipando ad un concerto al Bataclan. Molti di loro avevano l’età che avevo io quando a Parigi ho abitato per circa un anno. Quelle chiamate di quella sera, quelle immagini, quei luoghi familiari, mi colpirono profondamente. A ripensarci sono scosso anche oggi e riesco ad ammettere a qualcuno solo ora che per lungo tempo quando mi trovavo in una sala cinematografica o in un teatro, mi sorprendevo a fissare la porta temendo un’irruzione di un commando; talvolta, i primi tempi, non mi era facile concentrarmi su quello che accadeva sul palco. Reazioni probabilmente esagerate, lo ammetto, ma c’erano e dovevo farci i conti.

Quando poi nel settembre 2022 è iniziato il processo ho letto e raccolto in una cartella del mio PC tutte le cronache del processo ai “resti” del commando omicida. Non ho letto quelle che Carrère ha fatto, settimanalmente, sul Nouvel Observateur e pubblicate in Italia da Repubblica, ma quelle puntuali, precise, talvolta algide, degli inviati di Le Monde. Le Monde è uno dei pochi giornali del pomeriggio rimasti. Esce a metà del giorno, è una lettura serale, poca cronaca, molti pensieri. Quelle cronache hanno, inevitabilmente, fatto da contrappunto, da paragone, al libro di Carrère. Ne hanno smascherato, a me, un grande pregio: l’assenza dell’autore.

Non è facile per nessuno in fatti del genere, come dimostra il presuntuoso inizio di questo mio pezzo, mettere distanza tra il racconto di un fatto e come quel fatto, così determinante, ha influito sulla propria esistenza. Carrère in realtà nel libro, e nel racconto dei fatti, ci entra, progressivamente, pudicamente. Mai o quasi quando a parlare sono le vittime, parzialmente quando tocca agli imputati, largamente quando è la comunità della legge la protagonista. L’autore riprende il suo ruolo alla fine, quando le persone non rappresentano sé stesse ma quell’insieme di norme comuni che ci definiscono come comunità, come democrazia. Quando lui (e noi con lui) ci convinciamo che aldilà delle responsabilità politiche del nostro essere occidentali, il nostro sistema democratico e liberale, il nostro amministrare la giustizia in nome della legge e non della vendetta ci renda migliori, sì migliori, dei terroristi. Pur descrivendoli e giudicandoli senza pietismo sociologico ma con umana empatia.

Era poi questo forse il senso di un processo i cui esiti (seppur non siano mancate polemiche) erano previsti e prevedibili, e che riguardava figure di “contorno” rispetto agli autori materiali della strage (tutti deceduti negli assalti o in scontri a fuoco con la polizia). Non era un processo riparativo, non era un processo “per la storia”, era un processo per il diritto, quella somma astrazione che dalla Francia dei lumi rappresenta il terzo pilastro del nostro essere cittadini e non sudditi.

Carrère però ci dimostra tutto questo vivificando questa astrazione attraverso gli uomini e le donne che a quel processo danno vita. Il diritto incarnato se l’espressione non appare troppo blasfema rispetto ai corpi dilaniati, alle ferite materiali e psichiche ai brandelli dei deceduti e dei sopravvissuti. Il libro riesce quindi a dare voce, corpo, sostanza, alle procedure; non indaga nei pruriti che tanto affascinano quelli che seguono la cronaca nera. Non c’è voyeurismo, ma pietà vera che dimostra come l’applicazione della Legge non è affare da iniziati ma materia viva, come la verdura che si compra al mercato.

Si diceva del lavoro “in levare” di Carrère. Il raffronto con le cronache di le Monde mi è servito anche per un’altra osservazione, che all’inizio consideravo un difetto del libro ma che poi, ripensandoci, ne rappresenta un grande pregio. Molte delle frasi che suscitano effetto, emotivamente laceranti, che siano le vittime o i loro familiari oppure gli imputati (soprattutto quelli finiti in quella brutta storia forse più per caso che per scelta) a pronunciarle, sono nel libro identiche, al netto della mia traduzione, a quelle riportate nelle cronache del quotidiano. Segno che l’emotività era già presente e il cronista, come lo scrittore, avevano solo il compito di trovarle e riportarle. Non serviva altro, Carrère nonostante non sia l’autore con meno ego che imprima parole sulla pagina, con grande intelligenza lo capisce e confeziona un libro asciutto, doloroso, non scontato. Per questo davvero bello.

Articolo apparso su Cultura Commestibile, n. 495 del 3 giugno 2023.

Tra Roma e Mosca, le tante sfaccettature dei comunisti italiani

Il percorso del Partito Comunista Italiano dalla sua nascita a Livorno nel 1921 fino alla sua fine nel 1991 ha sempre rappresentato un unicum di difficile collocazione nella storia del comunismo mondiale. Anche se questa “diversità” è stata fortemente narrata dal gruppo dirigente di quel partito, soprattutto a partire da secondo dopoguerra e nella fase di ricerca del “compromesso storico”, è indubbio che molti caratteri originali abbiano attraversato la storia del PCI.  

Questo vale anche (e forse soprattutto) nel campo delle relazioni internazionali ed in particolare nel rapporto con Mosca che Silvio Pons indaga in un bel volume “i comunisti italiani e gli altri”. Il lavoro di Pons parte dalle origini per mostrare i caratteri prima di ammirazione per quello che accade in Russia dal 1917, da parte sia del gruppo torinese dell’Ordine Nuovo di Gramsci e Togliatti, che da quello napoletano di Bordiga; per passare poi agli anni del fascismo, del gruppo dirigente a Mosca che sopravvive meglio di altri esuli, l’esperienza allineata a Mosca della guerra di Spagna e poi il ritorno in Italia dopo il 25 luglio del 1943. A partire da allora le differenze con Mosca si ampliano non tanto nella scelta della svolta di Salerno (processi analoghi di partecipazione dei comunisti ai governi di unità nazionale avvennero infatti anche in Francia e Belgio in ossequio ad una linea decisa e condivisa da Stalin) ma nella costruzione del partito massa a partire dallo statuto uscito dal congresso di Firenze che vedeva cadere la “pregiudiziale” marxista per aderire al PCI. Un modello organizzativo che, per gli italiani, rappresenta anche una garanzia di indipendenza (in potenza anche economica) da Mosca.

Posizioni, quelle italiane, che portarono poi alla reprimenda che Jugoslavi e Polacchi inflissero agli italiani prima di finire, i primi, a rappresentare la maggiore eresia del comunismo europeo. Un’eresia con la quale il PCI non chiuse mai i rapporti ma che anzi usò per affermare la propria autonomia da Mosca e per affermare una propria politica estera nei confronti dei movimenti di liberazione coloniale che si andavano sviluppando.

Certo nel rapporto travagliato tra Botteghe Oscure e Mosca mai si arrivò alla rottura, mai si sconfessò del tutto la patria del socialismo. Anzi si appoggiò convintamente l’invasione Ungherese del ’56, mentre la sconfessione di quella Ceca del 1968 non comportò mai un’abiura del socialismo reale. Anche Berlinguer che fu il più netto a prendere le distanze da Mosca, ipotizzava una terza via tra socialdemocrazia e soviet ma senza sconfessare il valore della rivoluzione. Questa aveva perso la spinta propulsiva ma non era da tutta da buttare e il gruppo dirigente italiano continuava a proporsi non in rottura con l’esperienza russa ma come portatore di un contributo, primariamente intellettuale, alla riforma del socialismo reale. A partire dall’inserimento di processi democratici e del riconoscimento del dissenso.

Un ruolo da guide intellettuali che l’ultima fase sovietica, quella di Gorbacev, riconoscerà al PCI ma che non avrà modo di svilupparsi (ammesso e non concesso che vi fossero spazi di riforma in un tale sistema) per il rapido crollo dello spazio delle democrazie popolari e dell’URSS stessa.

Tutto questo è raccontato nel libro di Pons con rigore e seppur privilegiando il punto di vista degli italiani, senza dimenticare i ritardi, le incoerenze e gli errori che tutti i gruppi dirigenti comunisti nazionali incontrarono. Il quadro che emerge è quello di un’assoluta continuità, almeno dal 1945 in poi, di una certa “furbizia” e di un’alta considerazione della propria elaborazione intellettuale da cui derivava un’alterità che, fino alla deriva morale dell’ultimo Berlinguer, era ancorata ad un disegno politico concreto che fu capace, sul piano interno, di orientare anche la politica estera italiana e di dialogare con i governi democristiani favorendo la politica del paese nel mediterraneo e nel medio oriente.

Infine il PCI fu, a partire da Berlinguer, capace di cambiare idea rispetto alla Comunità economica europea andando oltre la propaganda e la visione critica moscovita, immaginando Bruxelles come uno spazio tra i due blocchi e capace di dialogare con il cosiddetto terzo mondo in modo autonomo rispetto a Washington e Mosca. Un percorso che con l’eurocomunismo, il riconoscimento del valore dell’atlantismo e la fine della spinta propulsiva rende maggiormente coerenza al percorso del compromesso storico e della ricerca della partecipazione al governo del PCI, facendo apparire, aldilà dei giudizi su quell’esperienza, parte di un percorso politico coerente di ricerca di una via democratica al socialismo.

Una via che fu largamente incompleta, non capita dalle socialdemocrazie europee, non solo dal PSI italiano comprensibilmente preoccupato della competizione elettorale del PCI, ma nel caso dell’SPD o dei partiti scandinavi limitato dalla pregiudiziale anticomunista.

In definitiva il libro di Pons rende giustizia ad un percorso complesso e aiuta a comprendere le tante complessità e contraddizioni di un partito che fu di massa ma con a capo un élite intellettuale e consapevole.

Silvio Pons, I comunisti italiani e gli altri. Visioni e legami internazionali nel modo del novecento, Einaudi 2021.

Articolo uscito su Cultura Commestibile, n. 467 del 45 novembre 2021

Come il sogno della rete paradiso della libertà, si è trasformato nell’incubo di troll e nazisti.

L’internet delle origini era un paradiso fatto di libertà, utopia, nessun cancello o linea invalicabile. Le regole erano minime e più che altro rappresentavano i limiti tecnologici della piattaforma e della sua programmazione.

Cosa è andato storto da allora? Secondo Andrew Marantz questa tecno-utopia è stata rapita dalle mani dei suoi creatori, in particolare da dopo la nascita dei social network, ed è finita nelle mani di attivisti, troll, creatori di meme, sdoganatori di nefandezze culturali e politiche ed un (ex) Presidente degli Stati Uniti.

Un rapimento lungamente negato dai guri dei social che armati di serietà esteriore e sogni ben mascherati di dominio del mondo, da buoni geni digitali, hanno promesso che le loro creazioni si sarebbero tradotte nel migliore dei mondi possibili. Marantz scrive in Antisocial, volume non tradotto in Italia: “Quando pressati, le loro visioni tendevano a un confuso utopismo: si aspettavano di collegare le persone, di avvicinarci tutti, per rendere il mondo un posto migliore“.

E di fare montagne di soldi, aggiungo io. Perché sotto questo versante il libro di Marantz è un po’ troppo indulgente sul fatto che questa montagna di odio, riversata sulle piattaforme social, creava interazioni e ricchezza. E probabilmente ancora ne crea visto l’acquisto, non si capisce se concluso o meno, di twitter da parte di Elon Musk.

Tuttavia, tornando a Marantz, questi dipinge i tecnoutopisti come dei Candide nerd, che non avevano pensato all’impatto e alle conseguenze delle loro scelte. Di conseguenza hanno finito per creare l’inferno che quotidianamente va in scena ogni giorno sui principali social non soltanto americani.

Marantz analizza, per esempio, il caso di Reddit, social poco frequentato qui noi ma enormemente utilizzato negli Stati Uniti, una specie di forum online lanciato con lo slogan “libertà dalla stampa” ed una ferma filosofia di discorsi non filtrati. Tirato su secondo la filosofia dei suoi fondatori “nessun editore, le persone sono gli editori”, sfortunatamente non ha mai preso in considerazione chi avrebbe attirato e, pur non aspettandosi l’esercito di “soggetti marginali” che si sarebbe riversato al suo interno, l’assenza di ogni qual si voglia filtro è stata troppo ghiotta per nichilisti, nazionalisti di destra, cospirazionisti, suprematisti bianchi, nazisti e ogni alta sorta di persona “bandita” dai normali canali. Tutti soggetti che han ben presto capito che il loro scopo principale non doveva essere quello di “convincere” delle proprie tesi gli altri, ma di declassare il discorso pubblico in modo da aggredire e corrompere il sistema complessivo della comunicazione.

Quindi, sempre più consapevolmente, di social in social i fanatici hanno costruito una macchina del caos che ha dato vita, spesso con meme e sarcasmo, ad un universo di sadismo socialmente accettabile, aprendo ogni giorno un po’ più in là la finestra di Overton.

Marantz, cronista del New Yorker, in questo mondo ci si è immerso per anni, condividendo con questi “imbonitori 2.0” anche gli spazi di socialità familiare, mostrandone le contraddizioni e l’assoluta “normalità” di ospiti o genitori, nel mentre magari postano un meme inneggianti alle camere a gas.

Vere e proprie celebrità del web, che dal racconto dell’autore non paiono avere in mente veri e propri obiettivi politici se non quello di seminare il caos, devastare e nel mentre guadagnare soldi e posizioni di prestigio.

Un esercito ben presto risucchiato (o arruolato) nella campagna, vincente, di Trump che di questo humus si è sia cibato sia ha fornito loro fertilizzante.

Il libro infatti parte proprio da uno dei balli di festeggiamento dell’elezione di Trump, il deplora ball una specie di bar di guerre stellari di nazisti, suprematisti bianchi, omofobi, machisti tutti insieme per festeggiare la nuova era.

Tuttavia l’elezione di Trump ha simboleggiato anche, per questo mondo, un punto di svolta. Perché quando la loro retorica è stata amplificata dal capo dell’occidente libero, quando le loro fabbriche di false notizie, complotti, meme razzisti, sono diventati “mainstream”, le parole hanno cominciato a diventare raduni, i raduni violenze, i bersagli reali fino a che a Charlottesville c’è scappato il morto.

L’ottimismo dei creatori dei social media è stato oscurato dal cinismo della propaganda feroce vomitata sulle loro piattaforme.

Da quando il libro è stato pubblicato, 2019, il dibattito sulla regolamentazione dei social è diventato un tema reale. Le piattaforme hanno iniziato, timidamente, a mettere in atto filtri, azioni di controllo, verifiche. Fino a veri e propri ban compreso quello di Trump da twitter dopo i fatti del Campidoglio.

Molta è la strada, tuttavia ancora da fare, e sono sempre possibili ritorni al passato. Eppure la regolamentazione del discorso pubblico sulle piattaforme social è e sarà il tema delle nostre società. Indubbiamente la rete rappresenta un enorme veicolo di libertà, e non è un caso se le dittature, come primo atto mettono filtri o a tacere questi strumenti, tuttavia lasciare liberi i troll di scorrazzare nelle praterie dei social non è meno pericoloso della brutale repressione.

L’Europa, a differenza degli Stati Uniti, ha imposto una serie di regole normative di responsabilità alle piattaforme, iniziando a considerarle degli editori, ma la mole di dati e post è tale che è impossibile per un soggetto terzo controllare davvero tutto quello che passa sulla rete. Il punto, forse, sarebbe il ritorno all’utopia delle origini, l’algoritmo pubblico, in modo che possa essere la stessa rete a controllare se stessa, solo allora si potrebbe completare la rivincita dei nerd sui bulli.

Andrew Marantz, Antisocial. Online extremists,techno-utopians, and the hijacking of the american conversa

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 451 del 11 giugno 2022

Il coraggio della verità e l’occidente in ritardo

Mentre leggo, per meglio dire divoro, “La Russia di Putin”, il libro di Anna Politkovskaja del 2004 ristampato meritoriamente da Adelphi in questi giorni, iniziano ad arrivare le immagini dei massacri di Bucha in Ucraina ed è molto difficile non collegare quanto leggo da quanto vedo.

Anna Politkovskaja non potrà raccontarci però quello che accade in Ucraina, come invece aveva fatto per quanto avveniva in Cecenia, la guerra che promuoverà Putin ad autocrate di tutte le Russie, perché nel frattempo è stata uccisa, proprio il giorno del compleanno di Putin nel 2006. Un macabro regalo per il presidente.

In questo libro come del resto in tutto il lavoro di ricerca dell’autrice il soggetto è la Russia, il gigante uscito dal comunismo, ubriacatosi del capitalismo e approdato all’autocrazia più nera. In questo processo di passaggio “La Russia di Putin” rappresenta una guida per noi occidentali allora (forse – si spera – oggi non più) affascinati dall’uomo forte del Cremlino, per spiegarci che dietro le foto a torso nudo nei ghiacci si stava ricostruendo un regime di terrore totalitario simile allo stalinismo.

Un paese in cui centinaia di giovani coscritti venivano derubati, vessati, umiliati e financo uccisi da ufficiali corrotti, ubriachi, psicopatici. Non casi isolati ma un sistema che fa da contrappunto agli ufficiali della flotta dei sommergibili nucleari costretti a saltare i pasti.

Impossibile non leggere quelle pagine dedicate all’esercito e non pensare a quanto avviene a Kiev o Mariupol, non pensare che per metodo e insensatezza l’Ucraina non sia che la terza guerra Cecena. O forse la quarta o la quinta se si contano la Georgia e la Siria.

Eppure quel sistema opprimente, quanto la Politkovskaja scriveva il suo libro, riscuoteva così tanto successo qui da noi. Nel libro l’ex premier Berlusconi viene descritto come “innamorato” di Putin, quello che ne canta le lodi più sperticate. Lo stesso Berlusconi che a poche settimane dall’omicidio dell’autrice in una conferenza stampa congiunta proprio con Putin fece il segno di una pistola con le dita ad un giornalista che aveva fatto una domanda impertinente al presidente. Certo Berlusconi era il primo ma non l’unico. Una compagnia che vedeva Chirac e Schroeder non certo critici con quello che avveniva a Mosca, tanto che il secondo ci si troverà talmente bene da farsi assumere a Gazprom.

Un occidente che veniva messo in guardia ma preferiva guardare altrove: al gas, il petrolio, i minerali e l’enorme mercato russo. Un occidente che oggi si trova sguarnito e ricattato dal tiranno anche perché non ha ascoltato le grida degli ostaggi asfissiati – con un gas scelto personalmente dall’ex tenente colonnello del KGB Putin – nel teatro Duvbrovka o dei loro parenti, umiliati e zittiti dal proprio stesso Stato.

Neanche quando Anna Politkovskaja fu assassinata da queste parti ci si sentì in dovere di porsi delle domande, di partecipare al dolore dei suoi colleghi e compagni. Al suo funerale spiccava, perché unico politico occidentale, il solo Marco Pannella.

Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, Adelphi, 2022. Traduzione di Claudia Zonghetti.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.442 del 9 aprile 2022.

Il lungo rapporto tra Socialisti e Stato liberale

La Fondazione dei socialisti francesi, la Fondation Jean Jaurès, ha pubblicato nello scorso agosto un piccolo libriccino a cura di Mathieu Fulla e Marc Lazar, che estrae e riassume un’opera imponente da loro curata, sul rapporto dei socialisti e socialdemocratici europei con le istituzioni statali dei rispettivi paesi.

Il rapporto tra socialisti europei e lo Stato è mutato profondamente nel corso del tempo. Da nemico da abbattere in quanto struttura del potere borghese e del capitale, sia attraverso moti rivoluzionari che all’interno dei poteri locali o delle forme di lavoro cooperativo.

Via via però che il movimento socialista si radicava, passando dai comuni ai Parlamenti, il rapporto con lo Stato si modifica, il nemico si identifica con le strutture repressive del potere (polizia e esercito), mentre si inizia a teorizzare che la struttura capitalistica si può modificare attraverso lo Stato stesso o che le condizioni per il processo rivoluzionario possono essere favorite da politiche di riforma attuate all’interno delle istituzioni liberali.

Non che le forme insurrezionaliste o localiste vengano meno ma o finiscono in minoranza o danno vita a scissioni.

Con lo scoppio della prima guerra mondiale queste tensioni esplodono e i residui dell’internazionalismo vanno in frantumi, nel dopoguerra le tensioni rivoluzionarie con la “competizione” coi comunisti prima e la lotta al fascismo poi radicheranno e ancoreranno ancor di più i socialisti (per la prima volta al governo in molti paesi) allo Stato; ma sarà col secondo dopoguerra che la coincidenza dei socialisti con lo Stato, da “occupare” per riformare avrà la sua epoca d’oro. Sarà anche in quegli anni che la base elettorale dei vari partiti socialisti e socialdemocratici europei si modificherà: perdendo molti consensi nella classe operaria (che si rivolgerà molto spesso ai partiti comunisti) e guadagnandone moltissimi tra i dipendenti pubblici fino a diventare, in molti casi, il partito di riferimento delle varie funzioni pubbliche.

Questo rapporto va  in crisi, ci raccontano i due autori, verso la fine degli anni settanta dove il paradigma neoliberale, rappresentato dai governi Tatcher e Reagan, ha finito per influenzare profondamente i socialisti europei fino a far diventare questi gli esecutori, negli anni ’90, della teoria dello stato “debole”, mero regolatore dei mercati e fornitore sussidiario di servizi non proficui.

Sono gli anni di Blair, Shröder, D’Alema e Jospin, gli anni in cui il sistema di welfare state su cui si è fondato il compromesso democratico europeo, si è costruita la ricchezza del continente e si sono sviluppate le nostre società, viene frantumato nella speranza di un mercato finalmente libero e globale.

Una stagione che, però, per i partiti socialisti ha coinciso anche con l’inizio della fine poiché, questa la tesi del libro, i socialisti hanno di fatto segato il ramo su cui erano seduti, andando a colpire proprio quell’elettorato fatto di pubblici dipendenti che, colpito e deluso, si è rifugiato molto spesso nella destra (anche in conseguenza della scomparsa di un’offerta politica di sinistra comunista credibile dopo la fine della guerra fredda). Tutto questo senza che ci fosse un ricambio elettorale da parte dei “ceti medi riflessivi” per dirla con le parole di Richard Florida, sociologo allora molto in voga.

Però, questa la tenue speranza instillata dal libro, dopo la crisi del 2008, crisi che di fatto non è ancora finita e si lega a quella attuale legata anche alla pandemia, il paradigma neoliberale è andato (o diciamo più scetticamente può andare) in crisi e quindi si potrebbe aprire uno spazio nuovo, per il pubblico in quanto tale e dunque per i socialisti.

Una speranza che il libro, non sviluppa come è inevitabile che sia per un’opera storica, ma che appare davvero difficile immaginare con gli attuali gruppi dirigenti, ci sia concesso di dire, che guidano ciò che rimane del socialismo europeo. Non tanto per le qualità dei singoli, che certamente molti di loro possiedono, ma per l’assenza di un quadro di riferimenti, di pensieri lunghi, non necessariamente nati all’interno del campo socialista (in fondo Keynes, sulle cui idee molti socialismi democratici hanno prosperato, era un liberale). Tuttavia, se le istanze e i bisogni di giustizia sociale e di progresso degli ultimi sono oggi più necessari che mai, occorre a chi ancora socialista si dice e si crede, interrogarsi su come alimentare tale fiaccola. Partire, come nel caso di questo libro, da ciò che si è stati può essere un buon inizio.

Articolo apparso su Culturacommestibile n. 426 del 4 dicembre 2021

Una nuova casa, una nuova proprietà privata

http://www.wiparchitetti.com/portfolio-item/housing-sociale-3/

Si potrebbe pensare che sia un segno di questi strani tempi che viviamo se un imprenditore, un immobiliarista, non proprio avvezzo alle teorie del marxismo leninismo intitoli un suo libro, La ville pour tous – repenser la propriété privée (La città per tutti, ripensare la proprietà privata), invece il volume di Robin Rivaton è stato scritto prima della pandemia e, infatti, non tiene conto delle riflessioni che quest’ultima ha posto di fronte alla città o al lavoro da casa.

La tesi del saggista e immobiliarista francese è che ovunque nel mondo lo sviluppo avviene nelle città, in particolare nelle metropoli. È lì dove si trovano i migliori lavori, i migliori servizi, le migliori opportunità. La frattura tra metropoli e campagna è dunque destinata ad aumentare e così le tensioni sociali. Il modello che pensava di tenere divise queste entità in base al costo della vita delle aree urbane non si è rivelato un valido deterrente perché comunque le metropoli rendono meno pesante la povertà, con le loro reti di assistenza o semplicemente con le maggiori possibilità di un lavoro anche precario come quello della GIG economy.

Dunque, occorre invertire questa corsa alla crescita del valore fondiario che è oggi la risorsa – ci dice l’autore – più rara del pianeta, perché niente (probabilmente nemmeno questa pandemia) fermerà questo fenomeno di inurbamento metropolitano che tocca tutti i paesi, quelli emergenti come quelli sviluppati.

Quale soluzione allora? Per Rivaton una “metropolizzazione” virtuosa è possibile a condizione di abbassare drasticamente il prezzo degli immobili e questo passa attraverso delle misure radicali: confisca, costruzione e controllo per meglio redistribuire le case ed il loro valore.

Per Rivaton, che si concentra sul modello francese, questo si deve attuare nella creazione di un’unica imposta su case e terreni che favorisca, a seconda delle stagioni della vita, l’acquisto e la vendita di case in base ai reali bisogni e non alla convenienza. Una tassazione che naturalmente agevoli la costruzione di immobili e la messa a disposizione di case ed appartamenti colpendo in modo feroce la rendita, fino alla confisca, seppur con indennizzo, degli immobili non locati.

Un progetto che se appare massimalista nell’enfasi della banda rossa della copertina del volume, in realtà rappresenta un approccio liberale ad un tema spinoso ma cruciale del nostro futuro.

Marc Rivaton, La ville pour tous, repenser la propriété privée, L’observatoire, 2019

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.394 del 27 marzo 2021

Le città postpandemiche

Parigi – urban farm

Per anni dietro le mie spalle, nel mio ufficio di allora, ho avuto un manifesto (se non ricordo male era dell’ARCI) con il motto medievale tedesco: “l’aria delle città rende liberi”. Ci ripensavo in questi mesi di pandemia quando l’aria delle città – più correttamente degli sprawl – appare quella meno salubre e più feconda per la trasmissione del virus. Ragionamenti che anche sociologi, urbanisti, amministratori, stanno provando a fare, approfittando del virus come occasione di ripensamento e ridisegno degli spazi del nostro abitare.

Non tanto come metodo di lotta al virus, si spera che i tempi di cura del COVID non siano quelli medi del ridisegno delle nostre città ma molto, molto, più rapidi, piuttosto un ripensamento che va in direzione di una sostenibilità ambientale e come precauzione per le prossime crisi, non necessariamente pandemiche, che come ci insegna David Quammen in Spillover ci troveremo, anche a causa del nostro sviluppo ad affrontare. Mentre qui da noi si oscilla tra archistar che blaterano di un ritorno ai piccoli borghi, amministratori che aborrono lo smart working per non far chiudere il baretto sotto la Regione e un generale senso di “add’ha passà a nuttata”, nel resto del mondo qualcosa si muove in direzioni diverse e interessanti. Rispondendo ad una intervista del Sole 24 ore del settembre scorso Richard Florida, l’urbanista guru della società della conoscenza che tanto ha plasmato gli anni dell’ottimismo obamiano, ha riletto la sua concezione di egemonia della classe creativa alla luce del COVID-19. Fine delle metropoli, ritorno alla media dimensione urbana. Va considerato che Florida parla del contesto americano e quelle che lui considera grandi città non sono certo le dimensioni delle nostre cittadine italiane. Dunque paradossalmente i nostri centri urbani potrebbero partire avvantaggiati rispetto a questa nuova fase. Anche perché il secondo elemento che Florida ritiene determinante nella città post pandemica è la piazza. Istituzione italiana per eccellenza, che non viene declinata al virtuale ma proprio come spazio di aggregazione e, perché no, di lavoro, legata allo smart working.

Inutile dire che la riflessione di Florida, così come la sua teoria più famosa, affronta il livello medio alto della società, quello che può telelavorare, quello che è sopravvissuto alla rivoluzione dell’ICT e che sopravviverà alla rivoluzione della robotica. Noi invece qualche problema su come sopravviveranno, anche in termini urbanistici, i milioni di lavoratori poco o per nulla qualificati nel processo di espulsione della loro forza lavoro ad opera dei robot vorremmo provare a porlo. Magari con soluzioni non troppo diverse, possibilmente, di quelle immaginate per la parte ricca (di soldi e di conoscenza) della popolazione.

Anche in Canada, precisamente in Québec, il tema è stato affrontato. Le smart city, il lavoro che cambia, le nuove generazioni iperconnesse erano alcuni dei temi della MTL Connect che si è svolta, per larga parte online, la scorsa settimana. In questo caso siamo già a i primi ripensamenti ad un ridisegno delle smart cities a partire dal fallimento di Toronto Google city.

Anche da questa parte dell’oceano però non si sta con le mani in mano. La città di Parigi ha iniziato il percorso di ridisegno del proprio strumento di programmazione urbanistica, ponendosi (prima del COVID) l’obbiettivo di un piano a bilancio ambientale positivo. Per cui dal consumo di suolo si passa alla restituzione di verde e aree umide in misura maggiore a quelle in cui si continuerà a colare cemento.

All’interno di questo processo, che prevede anche interessanti esercizi di democrazia partecipativa, Le Monde ha dedicato lo scorso 16 ottobre due pagine agli interventi di due urbanisti ed una sociologa sul tema del nuovo PLU (Plan Local d’Urbanisme). Ebbene tutti e tre gli interventi andavano nella direzione di Florida, del superamento della scala urbana della rottura della continuità del costruito. Più radicale, anche nella critica, l’urbanista Albert Levy che poneva come efficace non il limite della città (stiamo comunque parlando di Parigi) e nemmeno quello dell’aria ad essa confinante ma quello dell’intera regione parigina. Parlando in termini di difesa dai cambiamenti climatici, in particolare del surriscaldamento urbano, anche in termini sanitari. Scrive Levy: “lottare contro l’isola di calore urbano ed i suoi effetti sanitari deleteri deve divenire l’obiettivo prioritario dell’urbanistica bioclimatica, rinforzando il posto della natura nella città: ripiantare verde e alberi lungo le strade e nelle piazze, diversificare la vegetazione, rendere verdi facciate e tetti, sviluppare l’agricoltura urbana, gli orti comuni, i parchi, le trame verdi e blu, bloccare l’artificializzazione del suolo, demineralizzare il suolo, favorire l’infiltrazione naturale della pioggia, incoraggiare la fitoterapia, manutenere i corsi d’acqua”. Sono questi gli assi dello sviluppo urbanistico di Parigi, che però se vuole avere un senso deve avvenire a livello di scala regionale, avendo poco senso un salotto verde attorniato da banlieue cementificate, aeroporti intercontinentali e fabbriche inquinanti. Rompere il tessuto urbano, ridare soluzioni di continuità ad un tessuto che si è espanso senza fine e senza senso.

Queste le tesi anche di Agnés Sinaï e di Antoine Grumbach che vanno entrambi nella direzione della fine dell’urbanistica della congestione, la prima, e di una forse utopica riscoperta del territorio e della sua gestione armoniosa per il secondo.

Comunque il punto di fondo è la fine della megalopoli come modello di sviluppo, un ritorno a rotture tra città e campagna con quest’ultima fortemente collegata da infrastrutture tecnologiche e materiali ad impatto però ridotto.

Uno scenario che potrebbe vedere l’Italia e in particolare quel territorio centrale che va dagli Appennini alla Capitale come un unico scenario di sviluppo di queste nuove competenze, di un modello bioclimatico a cui si aggiungerebbero le bellezze architettoniche, artistiche, storiche e paesaggistiche ed un modello di sviluppo economico diffuso, ridisegnando e sostenendo in infrastrutturazione, ricerca e sviluppo il tessuto di medie e piccole imprese.

Potremmo essere capofila di un modello di sviluppo che per le parti più avanzate del pianeta vorrebbe dire cambio traumatico di traiettoria, mentre per noi, prosecuzione di un cammino millenario. Potrebbe, a patto di non limitare l’ottica ai dehors dei bar e ristoranti oramai vuoti, al museo da tornare a riempire e alla ZTL da perforare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile.com n. 374 del 24 ottobre 2020

La fase due degli altri – il caso francese

French Prime Minister Edouard Philippe presents his plan to exit from the lockdown at the National Assembly in Paris, Tuesday, April 28, 2020. French Prime Minister Edouard Philippe has outlined a stringent plan to fight coronavirus in France by automatically testing everyone who\'s come in contact with someone infected with COVID-19. (David Niviere, Pool via AP)
(David Niviere, Pool via AP)

Propongo qui la mia trauzione integrale dell’intervento svolto dal Presidente del Consiglio dei Ministri francese Edouard Philippe di fronte all’Assemblea nazionale il 28 maggio 2020. Il testo in francese e il video dell’intervento li trovate qui.

Signor Presidente,

signore e signori deputati,

Eccoci dunque al momento in cui dobbiamo dire alla Francia come la nostra vita riprende.

Dopo lo scorso 17 marzo, il nostro Paese vive confinato.

Chi avrebbe immaginato, soltanto tre mesi fa, il posto che queste parole avrebbero avuto nel nostro dibattito pubblico? Chi avrebbe potuto immaginare una Francia nella quale, improvvisamente, le scuole, le università, i caffè, i ristoranti, la maggioranza delle imprese, le biblioteche e le librerie, le chiese, i templi, le sinagoghe e le moschee, i giardini pubblici e le spiagge, i teatri, gli stadi, tutti quei luoghi comuni, per usare una formula alla quale è affezionato il Presidente dell’Assemblea Nazionale, sarebbero stati chiusi?

Mai nella storia del nostro paese, abbiamo conosciuto una tale situazione. Né durante le guerre, né durante l’occupazione, né durante precedenti epidemie. Mai il paese è stato confinato come lo è oggi.

Ed è del tutto evidente, che non potrà esserlo per sempre.

Poiché se è vero che il confinamento ha costituito una tappa necessaria, potrebbe, se durasse troppo a lungo, determinare degli effetti deleteri.

È stato uno strumento efficace, per lottare contro il virus. Per contenere la progressione dell’epidemia. Per evitare la saturazione delle nostre capacità ospedaliere e, in questo modo, proteggere i francesi più fragili.

Dopo il 14 aprile, il numero dei casi di COVID-19 ospedalizzati diminuisce: da più di 32.000 pazienti ospedalizzati, è disceso a 28.000. Dopo l’8 aprile, il numero di casi di COVID-19 in rianimazione diminuisce. Sorpassavano i 7.100, è ormai di 4.600.

La discesa è iniziata ed è regolare. Lenta, lo vedremo, ma regolare.

Secondo uno studio dell’Ecole des hautes études de santé publique, il confinamento ha permesso di evitare almeno 62.000 decessi il mese. E 105.000 letti in rianimazione sarebbero mancati in assenza di confinamento. Io non credo, signore e signori deputati, che il nostro Paese l’avrebbe sopportato.

Ma uno strumento è valido solo se i suoi effetti positivi non sono, nel tempo, superati dalle sue conseguenze negative.

Ora noi sappiamo, per intuito o per esperienza, che un confinamento prolungato aldilà dello stretto necessario avrebbe, per la Nazione, delle conseguenze gravissime.

Noi sentiamo che l’arresto prolungato della produzione di parti intere della nostra economia, che il turbamento duraturo della scolarizzazione per un gran numero di bambini e adolescenti, che l’interruzione degli investimenti pubblici o privati, che la chiusura prolungata delle frontiere, che l’estrema limitazione della libertà di circolare, di riunirsi, di fare visita agli anziani genitori o ai propri cari, presenterebbero per il paese non solo l’inconveniente penoso del confinamento ma in verità quello, molto più terribile, del collasso. Non uso questo termine a caso. Mi si accusa più spesso di abusare della litote che dell’esagerazione.

Dobbiamo dunque, progressivamente, prudentemente, ma anche risolutamente, procedere a un de-confinamento sia atteso che rischioso.

L’obiettivo del governo è di presentare all’Assemblea Nazionale, e grazie a questa, ai francesi, la nostra strategia nazionale, cioè, gli obiettivi che ci siamo posti e le modalità con le quali andremo a procedere per ottenerli a partire dal prossimo 11 maggio.

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L’antropologia della nuova destra esce dall’internet e conquista il potere

La vittoria di Trump può essere considerata un fatto episodico? Oppure può essere considerata una tappa di un percorso politico che investe Nord America ed Europa? O forse siamo di fronte all’invasione di campo, politico nel caso, di un processo culturale che è diventata (o sta diventando) egemone? Su quest’ultima teoria si applica Angela Nagle nel suo volume Kill al Normies, uscito recentemente per Zero Book.

Il volume non è una riflessione sistematica sulla filosofia dell’alt-right americana ma fornisce un primo spunto di ricerca in merito a fenomeni comunicativi e politici che hanno caratterizzato l’ascesa e la fortificazione di una nuova destra, sovversiva nei modi e, ora che ha acquisito il potere politico, anche nei fatti.

La Nagle, statunitense ma che insegna a Dublino, parte dalla rottura dell’utopia di internet degli anni ’90, primi duemila, che faceva il paio con il politically correct imperante dei Clinton e poi di Obama. L’internet che facendosi social media pareva essere una congiunzione tra popoli e culture, dava vita e voce a movimenti utopici come Occupy, un po’ come la terza via blairiana pareva poter addomesticare il mercato globale.

Invece quello che è successo, secondo la Nagle, che l’iperattivismo “buonista” è riuscito ad irritare masse di utenti dei vari social media che, usando strumenti tipici delle controculture libera degli anni ’70, ha finito per ribaltare i rapporti di forza, diventare egemone e alla fine eleggere persino il Presidente degli Stati Uniti.

E’ proprio il capitolo sull’egemonia, Gramscians of the alt-right, quello a parere di chi scrive più interessante del volume, con l’individuazione di come uno “spirito malvagio” è ben presto passato dal bullismo online, l’istigazione al suicidio, le shitstorm nei confronti di attivisti e celebrità liberal, alla conquista del potere vero e proprio. Una nuova destra alternativa però alla destra classica (da cui l’acronimo alt-right) che pur prendendo da una parte di questa, viene citato nel libro il discorso del conservatore Buchannan, temi e argomenti ne sovverte il discorso pubblico, si fa irriverente, sarcastica e grottesca, Violenta nei modi espressivi, rapida nelle forme di comunicazione, antagonista del sistema. Usa quindi tecniche e strategie di comunicazione e lotta politica che arrivano diritte dalla controcultura degli anni ’60, dalla new-left.

Conservatori lisergici che non hanno remore a manifestare le proprie contraddizioni, attivisti dichiaratamente gay che difendono il ruolo subordinato della donna nella società per esempio o il suprematismo bianco, e a individuare nemici in ogni campo, compreso il proprio. Non lesinano infatti critiche alla destra classica, chiamando gli esponenti cuckconservative, in una crasi tra la figura sessuale del cuckold e il conservatore.

Il libro, una sorta di fermo immagine del fenomeno, è chiaramente dedicato ai soli Stati Uniti ma come non vedere un disegno comune, punti di incontro con gli analoghi fenomeni che avvengono nel nostro continente e nel nostro Paese. Certo una differenza salta agli occhi, mentre negli Usa il fenomeno pare partire da basso e trovare lungo la strada dei newcomers che ne approfittano per una fulminea ascesa sociale e politica, nel vecchio continente accanto a questo fenomeno si assiste ad uno sfruttamento da parte di un pezzo della destra più radicale della temperie in atto. Di sicuro accomunano le due sponde dell’oceano l’incapacità dei gruppi dirigenti classici, sia di destra che di sinistra di arginare e combattere il fenomeno.

Certo il libro non si pone l’obiettivo di trovare una “cura” a questa deriva ma l’autrice nelle pagine finali prova comunque a suggerire una strada: “instead of pathetically tryng to speak the language of this new right by tryng to ‘troll the trolls’ or to mimic its online culture, we should take the opportunity to reject something much deeper that it is reaveling to us”. Non sarà probabilmente l’unica proposta risolutrice ma potrebbe essere un buon inizio.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.276 del 15 settembre 2018

Il maggio nei luoghi del maggio. Parigi si celebra come capitale ribelle

Arriva maggio ma questo maggio, per Parigi, sarà un denso di celebrazioni di quel mese di 50 anni fa in cui si immaginavano nuove libertà. La rivoluzione non si è trovata ma liberazione sessuale, coscienza ecologica, libertà delle donne son tutti frutti che quel periodo ha fatto maturare più in fretta. Certo la fantasia al potere che si immaginavano i giovani che, da Berkley alla Sorbonne, da Milano a Praga, riempivano le strade era molto diversa da quella che sperimentiamo oggi e non tutto di quell’esperienza, inevitabilmente, è stato positivo. Tuttavia la città transalpina celebra il suo essere stata la capitale ribelle del mondo intanto con un sito http://soixantehuit.fr/ che contiene l’insieme delle iniziative per il cinquantenario e poi con una mostra Icônes de Mai 68 alla Biblioteca Nazionale, François Mitterrand, apertasi il 17 aprile e che durerà sino al 28 agosto e in cui sono esposte le immagini simbolo di quei giorni dalla “Nuova Marianna” che innalza il suo vessillo appollaiata sulle spalle di un compagno, alle immagini degli scontri coi sanpietrini lanciati senza fare troppa attenzione alla spiaggia che si sarebbe dovuta trovare là sotto. Non manca nemmeno una riflessione/mostra sul maggio ’68 in architettura, quest’ultima in programmazione alla Cité de l’Architecture e du Patrimoine fino al 16 settembre.   Ancora più suggestivo invece il tour guidato nei luoghi del maggio ’68 per ripercorrere quelle immagini dal vivo e confrontare anche come la città, insieme ai suoi abitanti è cambiata. Ritrovo, per i fortunati, il prossimo 5 maggio per due ore di visita ribelle come recita il sito dell’iniziativa (http://www.lesvisitesdemaud.fr/paris-mai-68.html) per chi volesse fare un viaggio nella storia.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.259 del 21 aprile 2018