Un rapporto che non regge

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 24 febbraio 2011.

Colpiscono, nell’ennesima puntata della collocazione della pista di Peretola, i modi e i toni usati per “sollevare” il problema. Sul merito non ci addentriamo, conoscendo poco o punto, l’iter e gli atti del Pit della Regione Toscana. Ci par di capire che la Regione avesse poco da dire se le compatibilità urbanistiche della pista parallela fossero tali. In fondo il piano regionale non è lo strumento che decide la collocazione ma, appunto, ne misura le compatibilità e le coerenze. Quello che stupisce, allora, è la modalità con la quale amministratori seri e non inclini a colpi di teatro hanno deciso di scatenare una polemica mediatica e politica di cui certo conoscevano le ricadute e il clamore.

Se, dunque, sono arrivati fino a quel punto, pare significare che un modello di rapporti istituzionali, politici e partitici (visto che tutti o quasi gli attori coinvolti militano nel PD) non solo non regge più ma produce danni.

Dall’esterno sembra che ci troviamo nell’ennesimo portato di una politica tutta votata all’annuncio, alla spettacolarizzazione dell’atto, alla consegna alla stampa prima che agli attori delle decisioni. Un ennesima degenerazione di un modello che è indubbiamente positivo, quello cioè di uscire dal ristretto ambito degli addetti ai lavori e di fornire ai cittadini tutti i risultati del confronto e delle decisioni politiche. Ma è un metodo che funziona solo in due scenari, uno antitetico all’altro. O c’è un uomo solo al comando, capace per carisma, competenze, mediaticità, di essere l’unico soggetto sulla scena, di rispondere anche sprezzantemente alla critica, volendo di infischiarsene; oppure c’è un modello che costruisce pazientemente rapporti, che moltiplica le occasioni di confronto. Che non esclude la conferenza stampa ma la precede da un incontro coi soggetti in campo. Li fa sentire importanti e partecipi. Che coinvolge i cosiddetti soggetti della rappresentanza (in primis i partiti) non solo come mantra retorico alle assemblee ma li dota di strumenti, capacità e uomini in grado di svolgere il ruolo di mediazione o al limite d’informazione. Non si tratta di complicare i percorsi decisionali, di togliere potere alle istituzioni (sarebbe come scavare il petrolio col cucchiaio) ma, per esempio, di calibrare un nuovo ruolo ai partiti, di soggetti portatori almeno di informazioni, capaci di organizzare (perché ne hanno mandato e informazioni) le riunioni prima e non dopo.

Infine la reazione dei sindaci è una reazione forte perché sanno che gli strumenti con cui condividere le scelte urbanistiche sono pochi e in questo scontano anche responsabilità proprie. In altre stagioni, dove le divergenze e le difformità erano assenti o minori, troppo poco si è fatto per arrivare a un governo urbanistico comune della piana. Cedere la sovranità su un ambito come quello urbanistico non è affar semplice, bisogna dirlo, ma pensare di aver sviluppato ognuno per conto proprio, e talvolta apparentemente l’uno contro l’altro, in tutti questi anni quel territorio senza che questo metodo un giorno potesse chiedere il conto è un limite di miopia che oggi probabilmente pesa.

Quel che resta della Piazza


Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 febbraio 2011

Che c’entrasse poco con la dignità (in generale) delle donne, la manifestazione di domenica, lo han detto altre e altri ben più bravi di me. Che c’entrasse ancor meno col precetto rabbinico da cui prese ispirazione Primo Levi per il titolo della sua ultima opera e da cui il titolo, se non ora quando?, della manifestazione è anch’esso noto. Tuttavia le piazze di domenica sono state un indubbio successo politico da non sottovalutare né da archiviare in fretta proprio per il loro significato politico antiberlusconiano. Intanto perché mostrano limiti e potenzialità di una opposizione politica che, forse, potrebbe in caso di elezioni diventare un eterogenea ma possibile maggioranza parlamentare.

E’ vero, come scrive un amico, che nessuna opposizione ha mai vinto con una manifestazione ma nessuna ha mai vinto senza, per cui quello che è sceso in piazza sabato è qualcosa di più di un corteo. E’ un popolo disponibile, direbbero i dottori della politica, alla grande alleanza dalemiana, no è il popolo del Tutto tranne Berlusconi ribatterebbe Ferrara. Di sicuro è una parte della popolazione italiana che è stufa di Berlusconi in quanto tale e che alla fine di quest’ultimo subordina qualsiasi cosa.

Il che è giustificabile in una folla un po’ meno in un partito politico. Lo sa bene il PD, che per la prima volta vede intorno a sé condizioni politiche a lui favorevoli. Intanto Di Pietro incapace di riprendersi da Scilipoti, chiuso in un angolo, coi consensi erosi da SEL e umori intercettati dalla società civile del Palasharp, poi Vendola e i competitor interni che l’accelerazione della crisi potrebbe mettere fuori gioco, così come le primarie (interne o di coalizione) che il precipitare degli eventi metterebbe gioco forza in naftalina, consentendo a buona parte del gruppo dirigente nazionale (in special modo quello di seconda fascia) di sopravvivere un’altra legislatura.

Un PD che è stato sicuramente essenziale nella manifestazione di domenica ma che deve fare i conti con un successo che è solo in parte suo, che fa intravedere (ancora una volta) il rischio di un partito portatore d’acqua a una guida esterna, sia essa Casini o il papa nero di Largo Fochetti.

Bersani questo lo sa e ha provato a trarvi rimedio. Intanto mettendo in campo una proposta politica economica con le 41 liberalizzazioni. A parte una scarsa capacità di comunicazione con le 41 proposte che in realtà sono 34 in attesa delle altre 7 (eppure bastava chiedere da queste parti come si fa a moltiplicare i punti di programma) e qualche scarso coraggio (si parla blandamente di riformare gli ordini professionali) hanno il merito di rispondere a chi dice che il PD non ha un idea.

Il bivio però che il PD ha di fronte è se cavalcare la protesta da CLN, come proponeva ieri Veltroni con l’idea di una manifestazione con le sole bandiere italiane, oppure provare a dare gambe e proposte politiche a questo movimento. Inutile dire quale preferisca chi scrive, anche se non si nasconde il rischio di perdere non poca di quella spontaneità che domenica era in piazza. Ma l’idea che, una volta sgomberato il campo da Berlusconi, tra le macerie il centrosinistra non abbia la minima idea di cosa fare e passi il tempo a litigare è una paura ben più grande.

La Befana vien di notte

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 6 gennaio 2011

L’epifania tutte le feste se le porta via, insieme anche a un bel numero di buoni propositi per l’anno nuovo svaniti come gli aghi dell’abete appena dismesso.

La dieta solennemente giurata il giorno di Natale allentando la pressione sulla pancia sganciando il bottone dei pantaloni appena dopo gli antipasti, si è smaterializzata di fronte al primo 3 per 2 di panettoni e pandori, con la stessa fermezza che uno Scilipoti qualsiasi può opporre di fronte alle lusinghe di Silvio.

E così l’anno riparte, ahinoi, dove l’abbiamo lasciato. Con la politica che continua a discutere di elezioni, crisi, governi tecnici un giorno sì e l’altro pure. Un balletto che fa contenti solo i giornalisti che possono comporre con amena faccia di tolla un pezzo che giura elezioni il martedì e governo tecnico il mercoledì.

Intanto il Paese vive la sua crisi quotidiana e l’inflazione, ci dicono quasi di sfuggita, ha toccato l’1,9% su base annua, mentre i salari (chi ce l’ha) son rimasti fermi.

E così ci si divide su chi sta con Marchionne e chi sta con la FIOM, mentre sì è sinceramente tentati di aderire al vecchio adagio, né con l’uno né con l’altro; visto che nessuno domanda al canadese d’Abruzzo come intenda recuperare quote di mercato sull’auto non prevedendo alcun nuovo modello per il 2011. Già perché nell’anno appena andato, finiti gli incentivi statali, le case automobilistiche che hanno messo il segno  più davanti alle cifre delle vendite in Italia sono state quelle che hanno introdotto nuovi modelli e alla fine dell’anno FIAT per la prima volta è scesa sotto il 30% delle nuove immatricolazioni in Italia. Non era mai accaduto e dubito fortemente che il problema siano le relazioni industriali.

Così come non suscita, in chi scrive, simpatia un sindacato che si ricorda dello statuto dei lavoratori a fasi alterne, che si mobilita come di fronte all’avvento della dittatura se si parla di modificare l’articolo 18 e poi grida egualmente al fascismo quando si applica l’articolo 19.

E così tra i buoni propositi dell’anno nuovo ci sarebbe piaciuto quello di non vedere più gli appelli dei soliti intellettuali a favore delle solite battaglie. Primo perché ormai paiono moduli prestampati a cui cambiare solo intestazione e propagatore della dittatura di turno, secondo perché a memoria non si ricorda un unico esito positivo di tali forme di lotta salvo aumentare la tiratura di un paio di quotidiani.

Così come ci piacerebbe vedere per il 2011 i giovani che continuano a manifestare per il loro futuro in piazza, evitando però di confondere una minima riforma universitaria con la fine della speranza, incazzandosi perché colpisce troppo poco quel sistema che non li soddisfa e chiedendosi dove stanno sbagliando se il barone che ha appena piazzato moglie, nuora e figlio in cattedre spesso inutili, è al loro fianco e urla che hanno ragione.

Poi per il 2011 mi piacerebbe vedere il PD. Verrebbe da dire in qualsiasi forma si manifesti, ma in realtà mi piacerebbe vedere un partito che discute di primarie, cosciente che si tratta di un mezzo e non di un fine, che ad ogni uscita del segretario non si affanna a proporre mille distinguo, che definisca una proposta per il Paese bella o brutta che sia ma che sia sua, che finalmente valuti le interviste di Aldo Cazzullo a Walter Veltroni per quello che sono: un genere letterario che spesso confina con la fantascienza.

Il paradosso di Fassino

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 31 dicembre 2010.

Un paio di settimane fa su queste colonne ho espresso una posizione piuttosto indulgente sul PD e sulla gestione dei giorni della mozione di sfiducia da parte del segretario Bersani. Come spesso accade il pezzo è stato commentato, criticato e ha ricevuto molti giudizi taluni dei quali negativi o confutativi.

Quello che mi ha colpito è che la maggior parte dei giudizi negativi o sfiduciati nei confronti della mia tesi venissero da iscritti al PD. Ora è evidente che la platea delle mie conoscenze, reali e virtuali, non rappresenta una platea rappresentativa essendo in massima parte soggetti che hanno, o hanno avuto, interesse per la politica coté PD in maggioranza. Tuttavia non può sfuggire una capacità autocritica molto sviluppata all’interno del maggiore partito d’opposizione. A questo si aggiunga poi che la maggior parte delle critiche veniva da esponenti che all’ultimo congresso avevano appoggiato proprio Pierluigi Bersani.

Negli stessi giorni Piero Fassino ha sciolto le sue riserve e si candida alle primarie per Sindaco di Torino. Ora, personalmente, conservo di Piero Fassino un ottimo giudizio e, dei vecchi dirigenti DS, è quello per il quale nutro grandissima stima, simpatia personale e affetto, dunque il mio giudizio su di lui è pregiudizialmente positivo.  Non so cosa possano pensare gli adepti della rottamazione ma trovo che un dirigente così importante decida di mettersi in gioco, di mettere a disposizione la propria esperienza e le proprie capacità per la propria città, sia un modo intelligente da un lato di fare ricambio nel gruppo dirigente nazionale e dall’altro di garantire, se eletto, un buon amministratore a una città importante.

I primi sondaggi paiono peraltro confermare un giudizio largamente positivo su questa candidatura, appare dunque ancor più bizzarra (almeno ai miei occhi) una certa ritrosia nei circoli torinesi nel PD e una retorica del rinnovamento per il rinnovamento che ha accolto la sua candidatura. Un problema avvertito dallo stesso Fassino che ha tenuto a precisare come fosse forte il suo radicamento con la città e che lui non fosse un candidato imposto da Roma.

Un vero e proprio paradosso per colui che è stato il segretario del partito erede del PCI, un partito in cui l’investitura romana avrebbe garantito sostegno incondizionato almeno all’interno delle sezioni del partito, quelle che oggi sono forse le più ostili alla candidatura.

E’ un segno dei tempi che cambiano, probabilmente anche in meglio non c’è dubbio, ma non stupiscono, se consideriamo il dibattito intorno e nel PD a tutti i livelli, le parole di un autorevole  parlamentare del pd che descrive il suo partito come “sdraiato sul lettino dello psicanaliasta”.

Perchè Bersani non ha perso

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15 dicembre 2010

Come non molti prevedevano Berlusconi ha intascato una risicatissima fiducia in entrambe le camere. Forte dell’ennesimo cambio di casacche parlamentare, come già quello che gli consentì nel 1994 di ottenere la maggioranza al Senato, Berlusconi incassa e prosegue. Pochi riescono immaginare per quanto e con quali risultati, visto che partendo da un distacco di quasi 100 deputati è riuscito a fare così poco anche prima degli strappi di Fini.

Chi esce ridimensionato, per non dire distrutto, è Fini che dimostra ancora una volta di essere un personaggio comunque di contorno nel panorama politico italiano, incapace di giocare autonomamente una partita e fiaccato dalla troppa tattica e dai pochi e non chiari orizzonti lunghi.

Chi invece salva la faccia, oltre al serafico Casini, e alla fine forse non porta a casa una sconfitta è il PD di Bersani.  Un PD fortunato per il calendario, con la manifestazione dell’11 dicembre caduta a fagiolo tra la compravendita dei deputati dipietristi e il voto “affondafini”.

Bersani è stato capace di smarcarsi infatti dall’alleato Di Pietro, lasciandolo solo di fronte all’ennesimo passaggio di parte di suoi parlamentari e svuotando così, senza alcuno sforzo, la retorica dell’”unica opposizione a Berlusconi”, risultando il partito dell’ex PM anzi decisivo per la vittoria del governo. Di più si è smarcato, anche qui senza clamore, da Fini il cui abbraccio avrebbe potuto essere mortale per il segretario emiliano. Lo ha fatto con una manifestazione di partito (a vocazione maggioritaria si potrebbe definirla), senza appelli ad essere in piazza agli alleati presenti, passati e futuri e giocando la sua carta migliore; quella retorica pragmatica, fatta di gente comune, di cenni alla vita reale e anche sul fatto di conoscere per davvero quanto costa un litro di latte, dimostrando di essere qualcosa di più e di meglio della sola alchimia di palazzo.

Nessun cedimento nemmeno a Vendola, al quale il PD ha dimostrato di essere capace comunque di una mobilitazione e di una possibile “narrazione” autonoma dalla tattica delle alleanze.

Un Bersani molto poco dalemiano se vogliamo, che si è posto (e il voto di fiducia paradossalmente rafforza) come capo unico e possibile dell’opposizione intanto parlamentare.

Un credito che dovrà esser bravo a salvaguardare, difendendolo dall’iper tatticismo di chi lo consiglierà di giocare la solita partita dell’alleanza con Casini, sia da chi da dentro e da fuori il partito lo bombarderà con critiche continue, seppur magari un po’ più deboli dopo recenti scivolate all’ora della merenda.

Per farcela il segretario dovrà semplicemente continuare come ha fatto in questi giorni, mettendo in campo la sua solita concretezza e rispondendo alle tattiche con quella semplice (ma efficace) domanda: “ma lei lo sa quanto costa un litro di latte?” .

E il centrosinistra che fine ha fatto?

Da il Nuovo Corriere di Firenze del 25 novembre 2010

Caro Direttore,

oggi aprendo il tuo giornale come al solito, mi imbatto in prima pagina nel “manifesto” a doppia firma di Andrea Barducci e Renzo Crescioli, titolato impegnativamente Terza Via a sinistra. Vista l’autorevolezza delle firme, il titolo assai attraente per un “blairiano” come il sottoscritto e la posizione a me cara in cui lo hai pubblicato ho iniziato subito a leggerlo.

L”articoletto si chiude con due parole molto suggestive ed evocative: libertà ed eguaglianza. L’ultima peraltro proprio il sottoscritto l’aveva adoperata sul tuo giornale chiedendo ai giovani rottamatori di inserirla nella loro discussione leopoldina. E dunque mi viene da interloquire coi due estensori del documento. Intanto mi chiedo, e chiedo loro, perché iniziare un manifesto in difesa? Dite che non è tempo di rottamare ma di costruire e lo fate ponendovi subito altri rispetto a un movimento che, almeno uno dei due, ha legittimato intervenendo e portando lì i propri argomenti. Perché cercare legittimazione a partire da un iniziativa, un movimento, che si considera non pienamente proprio e riconoscibile? E perché porlo come minaccia all’alienazione della politica da parte delle giovani generazioni quando proprio queste ultime erano maggiormente protagoniste dell’iniziativa della Leopolda? Forse più utile, sia detto senza polemica ma con spirito costruttivo come raccomandato dai due estensori, sarebbe interrogarsi sul modello attrattivo messo in campo dai rottamatori e chiedersi come estenderlo a quelli che alla Leopolda non c’erano e a quei tanti giovani che non sono raggiunti da quei messaggi o da quegli strumenti tecnologici. Dunque interrogarsi sui mezzi è necessario visto che questi prefigurano sempre i fini e serve a poco presumere di avere le idee migliori se queste non valicano i confini, certo familiari, delle nostre case del popolo.

Forse sarebbe utile parlare di comunicazione o ancora meglio farla, e metterla al servizio di quelle parole così solenni e impegnative che chiudono l’articolo.

Infine un altra notazione, più generale che lascio come interrogativo ai due estensori e forse al PD tutto. Dicono, Barducci e Crescioli, che servono parole e temi di sinistra, in analogia a quanto il segretario del PD Bersani elencava pochi giorni fa alla trasmissione di Fazio e Saviano. Figurarsi se il sottoscritto non è d’accordo. Ma se tale è il bisogno di parte così autorevole di tanti dirigenti del PD e non solo, non sarebbe forse necessaria anche una riflessione su un partito che era nato per essere qualcosa di più e di diverso dalla sola sinistra? Se è finito, non avvertito, il bisogno di centrosinistra e si ritiene necessario, certo aldilà di una semplice distinzione correntizia, riproporre la sola sinistra come identità e cammino non è forse arrivato il momento di un giudizio su un partito che molti finiscono per non sentire proprio, impalpabile e indefinito per i propri dirigenti, figurarsi per iscritti ed elettori. Seguire una strada di lento consumo, di ritorno al passato in contenitori che si dicono nuovi è un espediente che rassicura ma non convince e non attrae.

Ai costruttori dunque un in bocca al lupo sincero confidando che se anche non terza possano aiutare a trovare una via all’eguaglianza e alla libertà.

Sul vagone dei rottamatori

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 novembre 2010 p.1

E alla fine il treno dei rottamatori è arrivato alla Stazione Leopolda, o per meglio dire da lì è partito. Sì perché tutto nella tre giorni fiorentina, dall’assenza dichiarata di programma alla non selezione di temi e interventi, era all’insegna dell’avvio, del movimento anche, forse, fine a sé stesso.

Una tre giorni iniziata senza relazioni introduttive ma conclusa da Matteo Renzi con un discorso che ricordava più un’introduzione che delle vere e proprie conclusioni. Grandi visioni, immagini, un repertorio di brillanti battute, temi evocati, sfiorati mai morsi per davvero, lasciati lì pronti per il prossimo appuntamento. Già perché scegliere oggi sarebbe equivalso a selezionare. Selezionare temi e proposte e anche qualcuno dei presenti, sopra e sotto il palco.

Evidentemente per Renzi non è ancora il momento, gli interessa più unire e consolidare il movimento e lo spirito di Firenze insieme alla propria indiscussa e inattaccabile leadership. Una leadership che Civati non può contendere, né oggi né mai, e infatti il consigliere regionale lombardo appare in tutta questa vicenda come uno dei personaggi dei film horror americani, uno di quelli che sai fin dalla prima inquadratura che non arriveranno in fondo al film.

Quello che ti colpisce della Leopolda è lo spirito. L’entusiasmo e la voglia di esserci e partecipare. E’ una bella sensazione, soprattutto nel vedere che è diffusa in ogni ordine e grado. Quello che colpisce è anche, per dirla con le parole di un caro amico, che ti aspetteresti una gran voglia di dare calci nel sedere e scopri una gran voglia di stringere le mani.

Un modo ben strano di iniziare una rivoluzione ma forse una garanzia per provare a finirla, visto come sono andate quelle con la rabbia addosso.

Non c’è rabbia nemmeno nel chiedere (chiedere e non esigere peraltro) il ricambio e la rottamazione nei molti interventi sul tema, l’unico forse realmente condiviso e digerito di qua e di la dal palco.

Per ora l’unico vero rottamato a Firenze è il veltronismo, con Renzi che si candida a occupare lo spazio dell’immaginario, del sogno. La prova nell’intervento di Giovanna Melandri a cui i due in consolle non avrebbero dovuto dare il gong alla fine dei 5 minuti ma tre canti del gallo.

Eppure tra Renzi e Veltroni qualche differenza corre. Non solo d’età. Di Veltroni possono non piacere tante cose (e a me non piacciono) ma quel che diceva ha provato a fare, rendendo azioni le parole spese, anche se discutibili e non sempre felici. A Roma si è inventato il festival del cinema, a Firenze abbiamo avuto il festival del gelato. Ha posto il tema del rinnovamento e ha portato in parlamento (certo con risultati non tutti felici) scrittori, ricercatori e imprenditori, a Firenze si chiama in Comune un dirigente neo-pensionato e non certo la precaria magari in attesa del posto della Finocchiaro.

Sul piano locale Renzi, consolida e certifica la propria egemonia nei confronti di amministratori e partito se il cuore degli interventi del segretario regionale Manciulli e del Presidente della Provincia Barducci sono, per il primo, “il rinnovamento lo stiamo facendo” e, per il secondo, che non serve il limite di tre mandati ma due sono addirittura troppi. Segno che il tema dei rottamatori non solo era giusto ma persino da perseguire e anticipare.

Ma anche a Roma, Renzi c’è e la tre giorni leopoldina, lo fa assumere a soggetto imprescindibile in quelle che saranno le dinamiche del PD del prossimo futuro, anche se la mossa di Gianfranco Fini di accelerare la fine del Berlusconismo rischia di giocare un brutto scherzo ai rottamatori, lasciando a Bersani e al gruppo dirigente nazionale l’onere delle scelte e delle decisioni e che soprattutto in caso di elezioni anticipate vedrebbero inevitabilmente il popolo democratico stringersi al proprio partito contro il centrodestra, diminuendo lo spazio per il dissenso.

Ma il treno è appena partito e crediamo che chi vi è salito e il suo conducente abbiano tutte le risorse, di capacità e di tempo, per giocare molte partite nel futuro.

Alla rivoluzione senza programmi

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 5 novembre 2010 p.1

Sia detto qui in cima a sorta di premessa: Evviva Renzi e Civati e il loro allegro rottamare. Evviva la tre giorni alla Leopolda.

Già perchè, aldilà delle critiche che anche qui verranno fatte, l’evento che si apre stasera qui a Firenze ha meriti incancellabili. Intanto pone un problema vero, quello di un gruppo dirigente del PD che ha passato indenne, senza che finora nessuno ne chiedesse conto, più di 10 anni di vita politica italiana, vincendo anche ma perdendo molto di più. Non innovando la società italiana quanto avrebbe avuto necessità e quanto, almeno con l’Ulivo, avevano promesso. Non portando a compimento un’unione ideale, politica e partitica dei riformisti italiani, come promesso col PD, ma riproponendo le antiche liti e beghe in un contenitore nuovo dalla grafica bruttina e dall’appeal modesto.

Eppure questi che oggi i rottamatori vogliono togliere dalla prima fila hanno avuto occasioni, contesto e capacità: l’Ulivo come stagione politica, la cosiddetta terza via come orizzonte ideale e la vittoria elettorale del 96 per trasformare quella idea in azione di governo.

Quella stagione fu l’ultima stagione di proposta e innovazione politica per il centro sinistra italiano, di obiettivi (magari non sogni ma raramente la politica del governo è sogno), di internazionalità, di superamento vero e non pubblicitario di steccati ideologici (dai progressisti all’ulivo c’è più rottura di tabù che in tre anni di PD). Da allora è stato un susseguirsi di riti, di fughe in avanti seguite da imponenti marce indietro, di leader consumati al ritmo di un merenghe, di vecchi programmi spacciati per nuovi, di GAD, FED e Unione, vocazioni maggioritarie e ritorni al Partito con la p almeno maiuscoletta. Una sorta di commedia dell’arte che mette in scena il solito canovaccio con le solite maschere.

E a quelle maschere si rivolge il dinamico sindaco di Firenze e quelle maschere svela nella loro immutata fisionomia, nel loro apparire sempre uguali, bidimensionali. E quelle maschere molto si arrabbiano. Lo giudicano irriverente, maleducato, sgarbato. E che diamine vi vuol seppellire, ci mancherebbe che fosse educato o garbato. Che poi lo foste voi quando spediste il vecchio Natta e tutto il rimanente gruppo dirigente comunista nemmeno alla Fondazione Gramsci ma direttamente in pensione? Le cronache dell’epoca ci dicono di no. E non poteva essere altrimenti. Certo vale per gli ex Pci ma che dire degli ex DC? Loro magari avrebbero potuto essere anche garbati ma non lo sapremo mai, visto che del ricambio (chiamiamolo così) nel loro partito se ne occupò la magistratura e non certo loro e da questo vizio d’origine (l’aver acquisito il comando senza l’aver combattuto) forse deriva quella loro innata titubanza, lo scarso coraggio dimostrato. Quel coraggio che avrebbe dovuto trovare in loro, i Franceschini i Letta, i veri esclamatori del rinnovamento nei confronti dei D’Alema, dei Veltroni e dei Bersani.

E invece ci son voluti Renzi e Civati, coi rischi che questi comportano, come giustamente si nota in questo dibattito sui rottamatori. La mancanza d’esperienza, la mancanza di contenuti. Come negarlo? Eppure se guardiamo da chi vengono queste critiche, seppur giuste, ci appaiono tardive, interessate. Come dare credito ai Rondolino, ai Velardi, o ai Morassut? Intelligenti spin doctor dei rottamandi leader che paiono più giustificare sé stessi e il loro pensiero che muovere una riflessione.

Ed allora tutto bene e trovata in Prossima Fermata Italia la soluzione ai problemi del PD? Magari, ma temiamo non sia così. Intanto l’assenza, dichiarata e voluta, di contenuti rischia di far tendere al minimo l’accordo che a Firenze si potrà trovare. Andare alla Rivoluzione senza programmi, come rivendica lo stesso Renzi su il Post, è infatti sicuramente d’effetto, molto moderno (o postmoderno) ma preannuncia, se le idee non sono semplicemente nascoste ma effettivamente assenti, un accordo sui mezzi che si trasformano così in fini e un minimo comun denominatore sui contenuti che è uguale (e contrario) alle mille pagine del programma dell’Unione.

In questo senso un po’ ci attraggono le trovate sceniche proposte (la consolle del dj, i video, la musica…), un po’ ci spaventano perchè quell’armamentario di presidenze, ragionamenti, interventi scritti, erano certo liturgia ma anche il modo che, finora, si era trovato per ragionare e discutere a un livello superiore di quello della chiacchera da bar.

Guardiamo a Firenze con curiosità lo ammettiamo, ma anche con in mente le parole di Verazzoli sulla rivista di quel giovane ottantenne di Emanuele Macaluso: “contrariamente a quanto avvenuto sia tra i laburisti che tra i socialdemocratici, l’attacco sferrato da Renzi ai massimi dirigenti del Partito Democratico si è basato unicamente sulla necessità di una loro sostituzione; senza altre spiegazioni”.

Il che non significa che a Renzi, o a Civati, manchino idee o programmi. Il punto è quanto queste idee siano masticate, digerite e condivise tra di loro e tra quelli a cui si rivolgono.

Di sicuro è condiviso, largamente, il bisogno da loro posto, quello di svecchiare il PD; da questa tre giorni forse capiremo non tanto se avranno la forza per rottamare chi sta di fronte a loro ma se, una volta conquistato il ponte di comando, avranno una minima idea di dove mandare la nave.

Perchè Renzi ha già vinto il congresso PD

Dal Nuovo Corriere di Firenze di oggi.

E’ probabile che alla fine i candidati appoggiati da Renzi prevarranno, ma anche se così non fosse il sindaco, il congresso del PD lo ha già vinto. Per (molti) suoi meriti e per (molti) demeriti dei suoi avversari.

Intanto Renzi in questo anno e mezzo ha fatto il sindaco e mai il segretario di partito, a differenza del suo predecessore. Non ha messo bocca nelle vicende del PD fiorentino e poco anche in quelle del gruppo consiliare, ha conservato il suo ottimo rapporto coi cittadini, ha mantenuto consenso personale e ha occupato la scena della politica amministrando e facendo operazioni di comunicazione e di costruzione del consenso perfette come i 100 luoghi. Non occupando la scena del partito è riuscito ad occuparne il campo, a surrogarne i compiti e ad essere oggi lui l’unico soggetto politico.

Accanto a ciò ha ridimensionato o ammansito i suoi vecchi oppositori ed adesso lascia loro la (possibile) partita per le candidature alle prossime politiche. Un potere non piccolo direte? Una partita che Renzi, però, non ha bisogno di giocare. Il suo potere all’interno del PD non passa da qui. La partita di Renzi è ormai una partita romana, ha saputo diventare un leader nazionale e i suoi interlocutori sono Veltroni, D’Alema e Bersani non certo i loro luogotenenti locali.

Infine ha, anche qui per molti demeriti altrui, pressoché annullato la componente pistelliana approfittando della lontananza di Lapo, della frammentazione dei suoi simpatizzanti e della mancanza di leader possibili per capacità e autorevolezza riconosciuta. Risultato? La scomparsa di una componente organizzata che, sulla carta, poteva essere la vera “opposizione” interna.

Se questi i meriti di Renzi, quali i demeriti dei suoi avversari? Uno su tutti, lo sguardo rivolto al passato. Vale per Cioni e i cioniani innanzitutto. In una città che ha tripudiato Renzi in quanto fine del “regime” Domenici, come può apparire credibile l’ “opposizione” di Cioni e di Albini? Per quanto possano essere in buonafede i due rappresentano un sistema di potere che Firenze aveva finito per detestare e che nessuno vorrebbe oggi indietro. Ma lo sguardo al passato è lo stesso che caratterizza il competitor istituzionale Barducci. Per i metodi innanzitutto: caminetti nelle stanze di palazzo, accordi con sindaci e “potentati” locali. Anche i contenuti però non mancano: Barducci è stato per cinque anni il vice di Renzi, senza nulla da ridire né sui modi né sui contenuti.

Analogo discorso vale per i sindaci della Piana, prima hanno atteso la fine di Domenici confidando nella perdita di potere di Firenze per aumentare quello loro di veto. Quando poi si sono trovati davanti il dinamico Matteo non hanno fatto altro che esercitare quel veto. Posizione che forse renderà sul piano amministrativo ma di certo non costruisce egemonia.

Infine il cosiddetto “partito dei circoli”, che pensa di rispondere alla comunicazione in tempo reale di Renzi con documenti della base, assemblee e ritorno alle sezioni come luogo di mediazione degli interessi. Un po’ come dire che una volta inaugurata la TAV debba essere percorsa da locomotive a vapore.

Ecco perchè Renzi ha già vinto, perchè la sua è al momento l’unica chiave di lettura della città contemporanea, e quindi, qualunque sia il risultato dei congressi, lui resterà, se non l’unico e possibile, almeno il prevalente interlocutore dei cittadini nei confronti della politica sul versante PD.

Dunque non esiste alcuna possibilità per chi ha una visione politica diversa, non omogenea a Renzi? No qualcosa potrebbe esserci. Intanto Renzi non è il renzismo, anzi il renzismo non esiste. Renzi è ditta individuale, il suo non è un sistema di potere plurimo. Non che non esista un inner circle renziano di fidati e validi collaboratori, ma questi sono più “tecnici” che “politici”.

Un uomo solo, per quanto bravo e per quanto possa lavorare come Stakanov, resta un uomo solo, soprattutto di fronte ai problemi. Costruire su questo opzioni, non in contrasto, ma in ausilio alla politica del sindaco è uno spazio politico che si potrà aprire. Servono però competenze e idee da offrire, poco spazio per le ambizioni personali e un orizzonte che al momento può apparire lungo.

Altra strada da percorrere è quella di essere più contemporanei di Renzi. Di “sfidarlo” sul suo terreno, essendo capaci di parlare la lingua (avendo naturalmente qualcosa da dire) con la quale Renzi si rivolge ai cittadini. Occupare il suo stesso spazio politico. Non è un problema di anagrafe ma di freschezza mentale. Di riferimenti culturali e politici.

Quest’ultima è una strada ancora più lunga, significa rompere con rassicuranti abitudini e posizioni di rendita, di rimettersi a studiare e di fare sfoggio di umiltà. Di imparare dai propri errori e dalle capacità dell’avversario.

Alla fine però resta l’unico modo per costruirsi come alternativa o come interlocutore vero. Per rappresentare qualcosa di più di sé stessi o al massimo dei propri (pochi) iscritti.

Forse non avevo troppo torto.

Quando scrissi, durante le primarie per la scelta del candidato sindaco del PD di Firenze, che lo slogan di Matteo Renzi, Prima Firenze, mi ricordava terribilmente l’America First di McCain e che mi sembrava uno slogan “di destra” (nel senso di una rassicurante chiusura identitaria) suscitai subito ampie critiche da parte degli spin doctor di Matteo.

Oggi, grazie ad Europa, scoprendo il blog di comunicazione politica nomfup vedo che la versione declinata al regionale di Prima Firenze è lo slogan del candidato alla presidenza della Regione Veneto della Lega Nord Zaia chd declina Prima il Veneto proprio come difesa identitaria. Segno che la mia lettura dello slogan era, seppur così non fosse certo nelle intenzioni degli ideatori, possibile e anche piuttosto facile.

(AVVERTENZA: prima che, come mi è successo altre volte, qualcuno si senta offeso, tengo a precisare che dire che uno slogan sembra di destra non significa dire che uno sia di destra o attui necessariamente politiche di destra. Così come scrivere questo post non significa  fare opposizione a chicchessia.)