Il coraggio della verità e l’occidente in ritardo

Mentre leggo, per meglio dire divoro, “La Russia di Putin”, il libro di Anna Politkovskaja del 2004 ristampato meritoriamente da Adelphi in questi giorni, iniziano ad arrivare le immagini dei massacri di Bucha in Ucraina ed è molto difficile non collegare quanto leggo da quanto vedo.

Anna Politkovskaja non potrà raccontarci però quello che accade in Ucraina, come invece aveva fatto per quanto avveniva in Cecenia, la guerra che promuoverà Putin ad autocrate di tutte le Russie, perché nel frattempo è stata uccisa, proprio il giorno del compleanno di Putin nel 2006. Un macabro regalo per il presidente.

In questo libro come del resto in tutto il lavoro di ricerca dell’autrice il soggetto è la Russia, il gigante uscito dal comunismo, ubriacatosi del capitalismo e approdato all’autocrazia più nera. In questo processo di passaggio “La Russia di Putin” rappresenta una guida per noi occidentali allora (forse – si spera – oggi non più) affascinati dall’uomo forte del Cremlino, per spiegarci che dietro le foto a torso nudo nei ghiacci si stava ricostruendo un regime di terrore totalitario simile allo stalinismo.

Un paese in cui centinaia di giovani coscritti venivano derubati, vessati, umiliati e financo uccisi da ufficiali corrotti, ubriachi, psicopatici. Non casi isolati ma un sistema che fa da contrappunto agli ufficiali della flotta dei sommergibili nucleari costretti a saltare i pasti.

Impossibile non leggere quelle pagine dedicate all’esercito e non pensare a quanto avviene a Kiev o Mariupol, non pensare che per metodo e insensatezza l’Ucraina non sia che la terza guerra Cecena. O forse la quarta o la quinta se si contano la Georgia e la Siria.

Eppure quel sistema opprimente, quanto la Politkovskaja scriveva il suo libro, riscuoteva così tanto successo qui da noi. Nel libro l’ex premier Berlusconi viene descritto come “innamorato” di Putin, quello che ne canta le lodi più sperticate. Lo stesso Berlusconi che a poche settimane dall’omicidio dell’autrice in una conferenza stampa congiunta proprio con Putin fece il segno di una pistola con le dita ad un giornalista che aveva fatto una domanda impertinente al presidente. Certo Berlusconi era il primo ma non l’unico. Una compagnia che vedeva Chirac e Schroeder non certo critici con quello che avveniva a Mosca, tanto che il secondo ci si troverà talmente bene da farsi assumere a Gazprom.

Un occidente che veniva messo in guardia ma preferiva guardare altrove: al gas, il petrolio, i minerali e l’enorme mercato russo. Un occidente che oggi si trova sguarnito e ricattato dal tiranno anche perché non ha ascoltato le grida degli ostaggi asfissiati – con un gas scelto personalmente dall’ex tenente colonnello del KGB Putin – nel teatro Duvbrovka o dei loro parenti, umiliati e zittiti dal proprio stesso Stato.

Neanche quando Anna Politkovskaja fu assassinata da queste parti ci si sentì in dovere di porsi delle domande, di partecipare al dolore dei suoi colleghi e compagni. Al suo funerale spiccava, perché unico politico occidentale, il solo Marco Pannella.

Anna Politkovskaja, La Russia di Putin, Adelphi, 2022. Traduzione di Claudia Zonghetti.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n.442 del 9 aprile 2022.

Il Sovversivo Serantini cinquant’anni dopo

Franco Serantini aveva vent’anni. Orfano era cresciuto nella reclusione di istituti e riformatori e aveva conosciuto un primo, fugace, riscatto nello studio e nell’impegno politico in quel di Pisa dove era finito dopo un giro d’Italia degli istituti per figli di NN. Franco Serantini era un anarchico. Un anarchico nella Pisa del lungo sessantotto; quella città che con i suoi studenti era centro di alcune delle elaborazioni più nuove, più radicali, di quella stagione.

In quella Pisa in fermento, il 5 maggio 1972, Franco Serantini partecipò ad una manifestazione illegale per impedire un comizio dell’MSI. Verrà prima picchiato, poi arrestato, probabilmente di nuovo picchiato, poi lasciato morire in una cella del carcere Don Bosco. Ucciso sia dalle botte dell’apparato repressivo dello Stato, quanto dall’indifferenza dello stesso Stato che lo aveva in custodia.

Una storia che già allora fece rumore, con interventi di Umberto Terracini e con gli articoli di Corrado Stajano sul Corriere della Sera. Stajano che nel 1975 dedicò a Serantini un libro, il Sovversivo, che ne ha fissato la memoria in generazioni di italiani.

Michele Battini ritorna, dopo cinquant’anni dal fatto, su quella morte e ne scrive da storico non imparziale, come spiega bene lui stesso, ma avvertendo il lettore che di quei fatti fu protagonista. Giovane studente militante di quei gruppi extraparlamentari che furono una delle poche socialità documentate di Serantini.

Però Battini non si limita al racconto o allo svelamento dei fatti tragici di quel giorno e dei processi, tesi tutti a dissimulare le colpe, ma ricostruisce il contento in cui quella morte accadde. Un contesto locale, con la Pisa ancora operaia in cui le lotte studentesche si provano ad unire a quelle operaie e dalle aule, passano alle fabbriche e poi alla città. Ai quartieri borgata in cui si ammassano, senza servizi, i nuovi operai massa.

Un contesto però anche nazionale con il dispiegarsi della strategia della tensione, il punto di rottura della strage di Milano del 12 dicembre 1969, il doppio stato e la persistente paura, per i gruppi antagonisti, di un colpo di mano reazionario.

Un clima che ha già colpito movimenti e anarchici col “volo” di Pinelli. Quel Pinelli che dà il nome al gruppo anarchico che Serantini frequenta e che tornerà in ballo, quando la procura milanese accuserà il gruppo dirigente di Lotta Continua di aver deciso l’uccisione del commissario Calabresi proprio durante un corteo per ricordare Serantini e di aver dato l’ordine di morte proprio per vendicare lo studente pisano oltre che il ferroviere anarchico.

Trame che si intrecciano nella storia come nel libro, insieme alle botte, all’incuria dei medici, allo zelo assolutorio dei magistrati. Lo Stato impunito, lì dove, ci dice Battini, la persistenza del fascismo (in uomini, prassi e azioni) minava dal dentro la Repubblica e che però ha continuato a mantenersi attivo come testimoniano i tanti casi di cittadini morti mentre erano reclusi e dunque sotto la tutela assoluta dello Stato.

Una persistenza tragica mentre delle altre si perde traccia e memoria, dissolte nell’8 settembre della fine della prima repubblica. A chi gli ha chiesto quanto tempo fosse occorso per scrivere questo libro, Battini ha risposto “cinquant’anni”. Non solo perché egli era lì, non solo dunque per trovare il giusto distacco, anzi. Credo che la molla di questo libro fosse la paura dell’oblio, la necessità, al netto delle tante mutazioni che nella vita di ognuno avvengono, di testimoniare che c’è stato un tempo in cui si andava perché ci si credeva. La frase, che dà il titolo al libro e che viene dall’interrogatorio, sommario, che fu fatto a Serantini quanto fu arrestato, pesto e dolorante. Alla guardia che gli chiedeva perché fosse andato a quella manifestazione il Serantini, a domanda rispose, “Andai perché ci di crede”. Non tornò invece a casa perché lo Stato che incontrò non credeva in se stesso.

Michele Battini, “Andai perché ci si crede”. Il testamento dell’anarchico Serantini, Sellerio, Palermo, 2022.

Articolo apparsi su Cultura Commestibile n.437 del 5 marzo 2022

“Quando il mondo intero tremava al rumore dei nostri razzi”

Dal trailer dela serie For All Mankind – AppleTv+

Pochi anni fa è uscita una serie Tv – in onda su Apple TV – che si apre con le immagini della discesa, nel luglio del 1969, da parte del primo essere umano sulla Luna. Un sovietico.

La serie, For All Mankind, racconta una storia distopica della corsa nello spazio, tra USA e URSS, in cui il vantaggio iniziale dei Sovietici, conquistato con lo Sputnik, Laika e Gagarin non fosse stato recuperato dagli americani ma anzi fosse incrementato ancor di più dallo sbarco sovietico sul satellite terrestre.

Finzione a parte, pochi oggi ricordano o conoscono, quanto sullo spazio si sia giocata una parte, non certo trascurabile, del confronto tra superpotenze nella cosiddetta guerra fredda. Un confronto che ebbe luogo anche da noi, il paese con il più potente partito comunista dell’occidente, che dunque visse quella stagione riproponendo, sui giornali e nella politica quel confronto.

Un confronto che, nella fase iniziale, continuava ad alimentare il mito dell’URSS anche da noi, come esperimento vittorioso di costruzione di un mondo nuovo, capace di vincere il nazismo prima e conquistare lo spazio poi.

Il progresso tecnologico sovietico, era dunque visto come conferma della supremazia del socialismo e della sua inevitabile vittoria dalle colonne de l’Unità o di Rinascita, mentre veniva visto come pericoloso e minaccioso dalla stampa democristiana o comunque legata all’alleanza con gli USA.

I missili che solcavano i cieli erano dunque un segno di progresso per una parte, non trascurabile, del Paese e un pericoloso presagio di Apocalisse (se pensati come vettori di testate nucleari) per l’altra Parte.

E’ questo il contesto in cui Stefano e Marco Pivano, collocano il loro I comunisti sulla Luna, un libro che affronta, in due parti, la corsa per lo spazio, vista dal nostro Paese. Se la prima parte è un racconto dell’influenza delle conquiste spaziali sovietiche in Italia, con alcuni divertentissimi cascami sul mito tecnologico sovietico che porta, soprattutto militanti, a credere che un Paese che invia il primo uomo sullo spazio sia in grado di produrre anche auto e trattori altrettanto avanzati (spoiler, non sarà così); la seconda parte del libro è un racconto di storia della scienza che sta dietro gli iniziali successi e l’incapacità successiva di reggere il confronto con il modello scientifico statunitense. In grado di primeggiare non solo per capacità di spesa, ma per meriti legati alla collaborazione e la fiducia che erano più difficili da ottenere in URSS anche rispetto al propellente dei razzi.

Un libro piacevole, a tratti divertente, certamente divulgativo e capace di incuriosire rispetto a un piccolo pezzo della storia del nostro paese e del confronto, politico e sociale, in corso tra i due campi e che ha segnato le storie di molti.

Stefano Pivato, Marco Pivato, I comunisti sulla Luna. L’ultimo mito della Rivoluzione russa, il Mulino, 2017.

Apparso su CulturaCommestibile, n. 430 del 15 gennaio 2022

Il lungo rapporto tra Socialisti e Stato liberale

La Fondazione dei socialisti francesi, la Fondation Jean Jaurès, ha pubblicato nello scorso agosto un piccolo libriccino a cura di Mathieu Fulla e Marc Lazar, che estrae e riassume un’opera imponente da loro curata, sul rapporto dei socialisti e socialdemocratici europei con le istituzioni statali dei rispettivi paesi.

Il rapporto tra socialisti europei e lo Stato è mutato profondamente nel corso del tempo. Da nemico da abbattere in quanto struttura del potere borghese e del capitale, sia attraverso moti rivoluzionari che all’interno dei poteri locali o delle forme di lavoro cooperativo.

Via via però che il movimento socialista si radicava, passando dai comuni ai Parlamenti, il rapporto con lo Stato si modifica, il nemico si identifica con le strutture repressive del potere (polizia e esercito), mentre si inizia a teorizzare che la struttura capitalistica si può modificare attraverso lo Stato stesso o che le condizioni per il processo rivoluzionario possono essere favorite da politiche di riforma attuate all’interno delle istituzioni liberali.

Non che le forme insurrezionaliste o localiste vengano meno ma o finiscono in minoranza o danno vita a scissioni.

Con lo scoppio della prima guerra mondiale queste tensioni esplodono e i residui dell’internazionalismo vanno in frantumi, nel dopoguerra le tensioni rivoluzionarie con la “competizione” coi comunisti prima e la lotta al fascismo poi radicheranno e ancoreranno ancor di più i socialisti (per la prima volta al governo in molti paesi) allo Stato; ma sarà col secondo dopoguerra che la coincidenza dei socialisti con lo Stato, da “occupare” per riformare avrà la sua epoca d’oro. Sarà anche in quegli anni che la base elettorale dei vari partiti socialisti e socialdemocratici europei si modificherà: perdendo molti consensi nella classe operaria (che si rivolgerà molto spesso ai partiti comunisti) e guadagnandone moltissimi tra i dipendenti pubblici fino a diventare, in molti casi, il partito di riferimento delle varie funzioni pubbliche.

Questo rapporto va  in crisi, ci raccontano i due autori, verso la fine degli anni settanta dove il paradigma neoliberale, rappresentato dai governi Tatcher e Reagan, ha finito per influenzare profondamente i socialisti europei fino a far diventare questi gli esecutori, negli anni ’90, della teoria dello stato “debole”, mero regolatore dei mercati e fornitore sussidiario di servizi non proficui.

Sono gli anni di Blair, Shröder, D’Alema e Jospin, gli anni in cui il sistema di welfare state su cui si è fondato il compromesso democratico europeo, si è costruita la ricchezza del continente e si sono sviluppate le nostre società, viene frantumato nella speranza di un mercato finalmente libero e globale.

Una stagione che, però, per i partiti socialisti ha coinciso anche con l’inizio della fine poiché, questa la tesi del libro, i socialisti hanno di fatto segato il ramo su cui erano seduti, andando a colpire proprio quell’elettorato fatto di pubblici dipendenti che, colpito e deluso, si è rifugiato molto spesso nella destra (anche in conseguenza della scomparsa di un’offerta politica di sinistra comunista credibile dopo la fine della guerra fredda). Tutto questo senza che ci fosse un ricambio elettorale da parte dei “ceti medi riflessivi” per dirla con le parole di Richard Florida, sociologo allora molto in voga.

Però, questa la tenue speranza instillata dal libro, dopo la crisi del 2008, crisi che di fatto non è ancora finita e si lega a quella attuale legata anche alla pandemia, il paradigma neoliberale è andato (o diciamo più scetticamente può andare) in crisi e quindi si potrebbe aprire uno spazio nuovo, per il pubblico in quanto tale e dunque per i socialisti.

Una speranza che il libro, non sviluppa come è inevitabile che sia per un’opera storica, ma che appare davvero difficile immaginare con gli attuali gruppi dirigenti, ci sia concesso di dire, che guidano ciò che rimane del socialismo europeo. Non tanto per le qualità dei singoli, che certamente molti di loro possiedono, ma per l’assenza di un quadro di riferimenti, di pensieri lunghi, non necessariamente nati all’interno del campo socialista (in fondo Keynes, sulle cui idee molti socialismi democratici hanno prosperato, era un liberale). Tuttavia, se le istanze e i bisogni di giustizia sociale e di progresso degli ultimi sono oggi più necessari che mai, occorre a chi ancora socialista si dice e si crede, interrogarsi su come alimentare tale fiaccola. Partire, come nel caso di questo libro, da ciò che si è stati può essere un buon inizio.

Articolo apparso su Culturacommestibile n. 426 del 4 dicembre 2021

La libertà di obbedire al capoufficio.

C’è correlazione tra le procedure insegnate nelle scuole di management e il nazismo? A dirla così si potrebbe pensare che l’ultimo libro di Johann Chapoutot viri verso un genere prolifico ma non proprio rigoroso: quello del nazismo esoterico e delle teorie complottiste che vogliono l’occidente del secondo dopoguerra pieno di nazisti alla dottor Stranamore.

Una sensazione, purtroppo, alimentata dalla scelta dell’editore italiano, Einaudi, di far diventare il titolo originale del libro il sottotitolo dell’edizione italiana e di puntare su un titolo ed una frase-domanda retorica in copertina, acchiappalettori.

Tuttavia, si sa, che ogni mito si appoggia alla realtà ed è in fondo di una specie di Dottor Stranamore che nel libro di parla. Reinhard Höhn fu giurista, professore universitario e generale delle SS durante il nazismo e poi direttore di un’accademia per manager nel dopoguerra. Una struttura in cui passarono i principali quadri della potenza economica tedesca e si formarono 600.000 manager.

Chapouchot, dopo averci raccontato come i professori di dirtto tedesco diedero fondamento alla barbarie nazista ne La legge del sangue (Einaudi, 2016), riparte da una di quelle figure, Höhn per l’appunto, e ce lo mostra trasformarsi, senza mai rinnegarsi, nel dopoguerra democratico in un giustificatore del nuovo modello liberale e capitalista.

Una continuità che viene indagata a fondo e forse un po’ troppo apoditticamente dall’autore, che liquida l’abbandono delle idee razziste, dell’antisemitismo e della conquista dello spazio vitale all’est, da parte di Höhn, con troppa leggerezza, considerandole quasi accessorie all’idea di organizzazione dello Stato e dell’economia. È evidente che linee di continuità esistono e l’autore le indaga a fondo, pur tuttavia, lo stesso Chapoutot è costretto ad ammettere che questa continuità è precedente al Reich nazista e affonda le radici da un lato nel darwinismo sociale del tardo ottocento e dall’altra dagli studi sull’organizzazione d’impresa dei primi del novecento.

Non è nemmeno riscontrabile una specificità nazista nell’accogliere queste teorie come dimostra lo stesso caso di Höhn che si trova a suo agio sia sotto il regime che sotto la repubblica federale.

Dunque la specificità del volume sta, a mio avviso, in altro; nell’indagine del nazismo come rottura del positivismo e nel capitolo in cui, in continuità con La legge del Sangue, dimostra come Hitler intenda superare lo Stato, entità che imbastardisce il sangue germanico, eredità di latini e giudei, per mettere al centro la razza da cui discende la comunità. Una rottura dello stereotipo dell’iperburocratizzazione del nazismo che, ci spiega invece l’autore, è figlia non dello statalismo ma dal moltiplicarsi di agenzie, potentati, feudi, ognuno intento a inseguire lo scopo della purezza della razza e della comunità germanica.

Non fa eccezione il governo dell’economia del Reich, che è per giunta fin da subito, economia di guerra prima votata al riarmo e poi a soddisfare il conflitto. Eppure l’autore ci mostra come questa economia (ed in fondo il regime tutto) pur basandosi sull’eliminazione anche fisica dell’altro, del non allineato, cercasse per la maggioranza dei suoi cittadini di costruire un consenso, financo un’adorazione per l’unico Reich, l’unico popolo, l’unico Führer.

Su questo l’organizzazione economica nazista differisce poco dalle altre organizzazioni capitaliste coeve. Il manager è dotato di autonomia e libertà non verso le scelte ma sul modo di realizzarle, libero di obbedire dunque. Responsabile dei propri insuccessi (veri e presunti) come nella Russia stalinista. Ma l’operaio come l’impiegato devono aver modo di riposarsi e tornare ad essere produttivi; dunque il regime ne organizza il tempo libero come nei dopolavoro fascisti e infine deve poter sognare che il bene che sta producendo potrà essere suo. Un modello che si identifica fin dal nome, per esempio, della Volkswagen la vetturetta per tutti proprio come la Ford Model T sarebbe stata l’auto costruita da quelli che la producevano.

Vi è dunque sì una continuità ma a dispetto di quello che l’autore sottintende è più propria del modello industriale, di cui il nazismo può essere considerata la più efferata delle varianti, che dell’ordine della razza e del sangue. Vista così stupisce meno la capacità di Höhn di ricostruirsi un destino nella Germania democratica di cui farà parte. Il management per obiettivi non fu infatti prerogativa del solo miracolo economico tedesco e non fu la “scoperta” del passato nazista di Höhn a farlo tramontare, casomai (come giustamente nota anche l’autore) fu la sua versione più ridotta, flessibile e meno invasiva teorizzata negli Stati Uniti, a decretarne la fine.

In questo sì il peso della sovrastruttura degli ex nazisti può aver giocato un ruolo di appesantimento e di minor capacità di adattamento alle mutate forme di produrre che, a partire dagli anni ’70, cambiarono l’organizzazione del lavoro almeno nel mondo occidentale.

Vi è poi infine un salto logico difficilmente giustificabile in Chapoutot quando nell’ultimo capitolo, liquidato Höhn e decretato storicamente il fallimento del suo modello, l’autore tende a fare un parallelo tra l’attuale alienazione del lavoro e le teorie del moderno capitalismo.

Alienazioni che sono del tutto evidenti e forse persino più marcate, probabilmente perché difettano di un contromodello culturale e sociale, che negli anni del miracolo economico ma che stentiamo a vedere come discendenti da una elaborazione giuridica che giustificava un regime assassino e genocida.

Come direbbe un caro amico: il problema è il capitalismo casomai, non Höhn.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 396 del 10 aprile 2021.

Una nuova casa, una nuova proprietà privata

http://www.wiparchitetti.com/portfolio-item/housing-sociale-3/

Si potrebbe pensare che sia un segno di questi strani tempi che viviamo se un imprenditore, un immobiliarista, non proprio avvezzo alle teorie del marxismo leninismo intitoli un suo libro, La ville pour tous – repenser la propriété privée (La città per tutti, ripensare la proprietà privata), invece il volume di Robin Rivaton è stato scritto prima della pandemia e, infatti, non tiene conto delle riflessioni che quest’ultima ha posto di fronte alla città o al lavoro da casa.

La tesi del saggista e immobiliarista francese è che ovunque nel mondo lo sviluppo avviene nelle città, in particolare nelle metropoli. È lì dove si trovano i migliori lavori, i migliori servizi, le migliori opportunità. La frattura tra metropoli e campagna è dunque destinata ad aumentare e così le tensioni sociali. Il modello che pensava di tenere divise queste entità in base al costo della vita delle aree urbane non si è rivelato un valido deterrente perché comunque le metropoli rendono meno pesante la povertà, con le loro reti di assistenza o semplicemente con le maggiori possibilità di un lavoro anche precario come quello della GIG economy.

Dunque, occorre invertire questa corsa alla crescita del valore fondiario che è oggi la risorsa – ci dice l’autore – più rara del pianeta, perché niente (probabilmente nemmeno questa pandemia) fermerà questo fenomeno di inurbamento metropolitano che tocca tutti i paesi, quelli emergenti come quelli sviluppati.

Quale soluzione allora? Per Rivaton una “metropolizzazione” virtuosa è possibile a condizione di abbassare drasticamente il prezzo degli immobili e questo passa attraverso delle misure radicali: confisca, costruzione e controllo per meglio redistribuire le case ed il loro valore.

Per Rivaton, che si concentra sul modello francese, questo si deve attuare nella creazione di un’unica imposta su case e terreni che favorisca, a seconda delle stagioni della vita, l’acquisto e la vendita di case in base ai reali bisogni e non alla convenienza. Una tassazione che naturalmente agevoli la costruzione di immobili e la messa a disposizione di case ed appartamenti colpendo in modo feroce la rendita, fino alla confisca, seppur con indennizzo, degli immobili non locati.

Un progetto che se appare massimalista nell’enfasi della banda rossa della copertina del volume, in realtà rappresenta un approccio liberale ad un tema spinoso ma cruciale del nostro futuro.

Marc Rivaton, La ville pour tous, repenser la propriété privée, L’observatoire, 2019

Articolo apparso su CulturaCommestibile n.394 del 27 marzo 2021

L’algoritmo pubblico per governare la rete

La nostra collaboratrice Maria Mariotti si è, giustamente, risentita per il fatto che Facebook ha cancellato, dal suo profilo, il suo articolo apparso sulla nostra rivista sabato scorso, che aveva come immagine a corredo una foto con tre donne etiopiche a seno scoperto.

Si trattava di una cartolina che i nostri coloni mandavano in patria per magnificare cosa trovavano nell’impero. Per ironia della sorte all’immagine di Maria è toccata la stessa sorte che sarebbe toccata alla cartolina fosse stata intercettata dalla censura del Ministero per l’Africa italiana che non vedeva di buon occhio tali pratiche perché toglievano purezza alla razza, come ricorda Emanuele Ertola in un bel libro Italiani d’Africa.

Ma il tema sollevato è molto più ampio e annoso. Le piattaforme informatiche, non solo quelle di social network, per anni si sono sempre considerate non responsabili dei contenuti pubblicati sulle loro pagine. Non degli editori quindi da dei meri fornitori di uno strumento. Essendo tutte nate negli Stati Uniti esse risentono di una certa inclinazione a far prevalere il diritto di espressione rispetto a quello di tutela dei dati e dell’onorabilità dei fruitori. A differenza di quello che avviene qui in Europa dove si ha una maggiore attenzione al secondo aspetto.

Tuttavia, fin dall’inizio della loro espansione le piattaforme social si sono poste il tema della “moderazione” dei contenuti che venivano pubblicati sul loro strumento. La prima impiegata assunta da Facebook a tale scopo fu assunta tre anni dopo la nascita del social network nel 2004. A differenza, infatti, di quello che normalmente si pensa la questione non è gestita soltanto dagli algoritmi e oggi Facebook ha diversi uffici sparsi per il mondo che controllano i contenuti postati e le segnalazioni con competenza, ognuno, per una determinata area geografica.

Il reporter del Newyorker, Andrew Marantz, ha dedicato al tema un bel volume, Antisocial, e numerosi articoli sulla rivista, uno dei quali proprio sul rapporto tra Facebook e la politica di gestione dei contenuti, apparso sul numero del 12 ottobre 2020 della rivista.

Quello che emerge dalle inchieste di Marantz è che Facebook, ma il discorso può valere anche per gli altri social, ha politiche rispetto a cosa viene pubblicato sulle proprie pagine diverse a seconda del contesto, della convenienza “politica” dell’azienda ma anche del “vento che tira”.

Unica costante, di cui ha fatto le spese la nostra collaboratrice, il nudo e i contenuti pornografici che paiono essere sempre e comunque boccati applicando l’adagio delle truppe sovietiche a Stalingrado, prima spara poi fai le domande.

Così non è stato invece per organizzazioni e gruppi neonazisti qui in Europa che hanno goduto a lungo di un diritto di tribuna piuttosto esteso e incontrollato e che hanno visto bloccare le loro pagine, immaginiamo del tutto casualmente, mentre l’Unione Europea affrontava il tema della privacy e della tassazione degli utili delle piattaforme.

Casi ancora più marcati riguardano le “concessioni” ai regimi mediorientali o a quello cinese che tutte le piattaforme hanno accordato per non perdere l’accesso al mercato cinese.

Anche negli Usa le cose non sono andate meglio. C’è stato il caso di Cambridge Analitica, il sostanziale “mani libere” accordato a Trump e ai suoi sostenitori per tutta la sua prima campagna presidenziale e per larga parte del suo mandato. Poi col cambiare del vento, qualcosa lì si è mosso. Ricorderete l’audizione di Marc Zukerberg al congresso americano, incalzato dalle domande della Ocasio Cortez e poi la scelta di Twitter (che ha costretto le altre piattaforme ad adeguarsi) prima a segnalare, poi a oscurare e infine a bloccare i tweet del Presidente in carica Donald Trump.

È oggi del tutto evidente che il tema della neutralità delle piattaforme non ha più senso. Da qui discende una necessità di chi e come si regolano i contenuti che hanno oramai in modo inconfutabile dimostrato la loro pericolosità sia a livello individuale che sociale.

L’idea che trattandosi di aziende private queste abbiano il diritto di autoregolarsi a piacimento, non è un concetto in contrasto con i dogmi del socialismo reale ma con i principi della democrazia liberale. Da sempre gli organi di informazione sono soggetti regolati e soggetti al controllo pubblico. Leggi, organismo, comitati di garanzia, da sempre e in ogni ordinamento democratico regolano la vita di stampa, radio e televisione.

Nel caso della rete il problema si complica di molto per due fattori su tutti. La quantità di utenti e contenuti e per la dimensione sovranazionale delle piattaforme.

Nel primo caso una proposta potrebbe essere quella di far sviluppare, gestire e implementare gli algoritmi di controllo non alle stesse piattaforme ma a soggetti regolatori pubblici o comunque indipendenti; mentre per il secondo punto occorrerebbe conferire il mandato del controllo ad agenzie sovranazionali in ambito almeno europeo, per quanto ci riguarda, e magari in ambito di nazioni unite per l’intero globo.

La trasformazione che questi strumenti hanno impresso alle nostre vite e soprattutto quella che hanno imposto alle nuove generazioni ci obbligano ad affrontare il tema e a dargli una risposta politica di dimensioni e confini nuovi ed inediti.

Articolo uscito su Cultura Commestibile n. 386 del 30 gennaio 2021

Le città postpandemiche

Parigi – urban farm

Per anni dietro le mie spalle, nel mio ufficio di allora, ho avuto un manifesto (se non ricordo male era dell’ARCI) con il motto medievale tedesco: “l’aria delle città rende liberi”. Ci ripensavo in questi mesi di pandemia quando l’aria delle città – più correttamente degli sprawl – appare quella meno salubre e più feconda per la trasmissione del virus. Ragionamenti che anche sociologi, urbanisti, amministratori, stanno provando a fare, approfittando del virus come occasione di ripensamento e ridisegno degli spazi del nostro abitare.

Non tanto come metodo di lotta al virus, si spera che i tempi di cura del COVID non siano quelli medi del ridisegno delle nostre città ma molto, molto, più rapidi, piuttosto un ripensamento che va in direzione di una sostenibilità ambientale e come precauzione per le prossime crisi, non necessariamente pandemiche, che come ci insegna David Quammen in Spillover ci troveremo, anche a causa del nostro sviluppo ad affrontare. Mentre qui da noi si oscilla tra archistar che blaterano di un ritorno ai piccoli borghi, amministratori che aborrono lo smart working per non far chiudere il baretto sotto la Regione e un generale senso di “add’ha passà a nuttata”, nel resto del mondo qualcosa si muove in direzioni diverse e interessanti. Rispondendo ad una intervista del Sole 24 ore del settembre scorso Richard Florida, l’urbanista guru della società della conoscenza che tanto ha plasmato gli anni dell’ottimismo obamiano, ha riletto la sua concezione di egemonia della classe creativa alla luce del COVID-19. Fine delle metropoli, ritorno alla media dimensione urbana. Va considerato che Florida parla del contesto americano e quelle che lui considera grandi città non sono certo le dimensioni delle nostre cittadine italiane. Dunque paradossalmente i nostri centri urbani potrebbero partire avvantaggiati rispetto a questa nuova fase. Anche perché il secondo elemento che Florida ritiene determinante nella città post pandemica è la piazza. Istituzione italiana per eccellenza, che non viene declinata al virtuale ma proprio come spazio di aggregazione e, perché no, di lavoro, legata allo smart working.

Inutile dire che la riflessione di Florida, così come la sua teoria più famosa, affronta il livello medio alto della società, quello che può telelavorare, quello che è sopravvissuto alla rivoluzione dell’ICT e che sopravviverà alla rivoluzione della robotica. Noi invece qualche problema su come sopravviveranno, anche in termini urbanistici, i milioni di lavoratori poco o per nulla qualificati nel processo di espulsione della loro forza lavoro ad opera dei robot vorremmo provare a porlo. Magari con soluzioni non troppo diverse, possibilmente, di quelle immaginate per la parte ricca (di soldi e di conoscenza) della popolazione.

Anche in Canada, precisamente in Québec, il tema è stato affrontato. Le smart city, il lavoro che cambia, le nuove generazioni iperconnesse erano alcuni dei temi della MTL Connect che si è svolta, per larga parte online, la scorsa settimana. In questo caso siamo già a i primi ripensamenti ad un ridisegno delle smart cities a partire dal fallimento di Toronto Google city.

Anche da questa parte dell’oceano però non si sta con le mani in mano. La città di Parigi ha iniziato il percorso di ridisegno del proprio strumento di programmazione urbanistica, ponendosi (prima del COVID) l’obbiettivo di un piano a bilancio ambientale positivo. Per cui dal consumo di suolo si passa alla restituzione di verde e aree umide in misura maggiore a quelle in cui si continuerà a colare cemento.

All’interno di questo processo, che prevede anche interessanti esercizi di democrazia partecipativa, Le Monde ha dedicato lo scorso 16 ottobre due pagine agli interventi di due urbanisti ed una sociologa sul tema del nuovo PLU (Plan Local d’Urbanisme). Ebbene tutti e tre gli interventi andavano nella direzione di Florida, del superamento della scala urbana della rottura della continuità del costruito. Più radicale, anche nella critica, l’urbanista Albert Levy che poneva come efficace non il limite della città (stiamo comunque parlando di Parigi) e nemmeno quello dell’aria ad essa confinante ma quello dell’intera regione parigina. Parlando in termini di difesa dai cambiamenti climatici, in particolare del surriscaldamento urbano, anche in termini sanitari. Scrive Levy: “lottare contro l’isola di calore urbano ed i suoi effetti sanitari deleteri deve divenire l’obiettivo prioritario dell’urbanistica bioclimatica, rinforzando il posto della natura nella città: ripiantare verde e alberi lungo le strade e nelle piazze, diversificare la vegetazione, rendere verdi facciate e tetti, sviluppare l’agricoltura urbana, gli orti comuni, i parchi, le trame verdi e blu, bloccare l’artificializzazione del suolo, demineralizzare il suolo, favorire l’infiltrazione naturale della pioggia, incoraggiare la fitoterapia, manutenere i corsi d’acqua”. Sono questi gli assi dello sviluppo urbanistico di Parigi, che però se vuole avere un senso deve avvenire a livello di scala regionale, avendo poco senso un salotto verde attorniato da banlieue cementificate, aeroporti intercontinentali e fabbriche inquinanti. Rompere il tessuto urbano, ridare soluzioni di continuità ad un tessuto che si è espanso senza fine e senza senso.

Queste le tesi anche di Agnés Sinaï e di Antoine Grumbach che vanno entrambi nella direzione della fine dell’urbanistica della congestione, la prima, e di una forse utopica riscoperta del territorio e della sua gestione armoniosa per il secondo.

Comunque il punto di fondo è la fine della megalopoli come modello di sviluppo, un ritorno a rotture tra città e campagna con quest’ultima fortemente collegata da infrastrutture tecnologiche e materiali ad impatto però ridotto.

Uno scenario che potrebbe vedere l’Italia e in particolare quel territorio centrale che va dagli Appennini alla Capitale come un unico scenario di sviluppo di queste nuove competenze, di un modello bioclimatico a cui si aggiungerebbero le bellezze architettoniche, artistiche, storiche e paesaggistiche ed un modello di sviluppo economico diffuso, ridisegnando e sostenendo in infrastrutturazione, ricerca e sviluppo il tessuto di medie e piccole imprese.

Potremmo essere capofila di un modello di sviluppo che per le parti più avanzate del pianeta vorrebbe dire cambio traumatico di traiettoria, mentre per noi, prosecuzione di un cammino millenario. Potrebbe, a patto di non limitare l’ottica ai dehors dei bar e ristoranti oramai vuoti, al museo da tornare a riempire e alla ZTL da perforare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile.com n. 374 del 24 ottobre 2020

Usare lo Stadio per ridisegnare la Piana.

Cosa accadrebbe se il nostro fornaio, una volta ogni 15 giorni, per far ben respirare il suo lievito madre, con cui fa quelle pagnotte che ci piacciono tanto, bloccasse la strada dove abitiamo costringendoci a faticose deviazioni, a parcheggi difficilissimi o a dover uscire da casa a orari impossibili per evitare il blocco? Probabilmente alla seconda volta che il fornaio interrompesse la strada chiederemmo l’intervento dei vigili e pretenderemmo da loro di sgombrarci la strada per la nostra casa. Eppure tutto questo avveniva ogni 15 giorni al Campo di Marte quando allo Stadio Franchi giocava la Fiorentina nell’epoca pre covid. Non che a porte chiuse non ci siano disagi se il post con cui il Comune annuncia le deviazioni alla mobilità per le attuali partite a porte chiuse non ci sta in un unico screenshot del telefonino.  Disagi che si ripetono ogni 15 giorni perché, lo dico tristemente da tifoso viola, la squadra da anni è quel che è e non si giocano le coppe europee, altrimenti la frequenza e i disagi (giocando nel mezzo della settimana) sarebbero maggiori.

Pochi si ricordano, per fortuna mi viene da dire, che ben prima della conferenza al Four Seasons dei Della Valle, nel 2008, fu una presa di posizione del Consiglio Comunale – a firma del sottoscritto, di Alberto Formigli e Dario Nardella, allora segretario, capogruppo dei DS il partito di maggioranza relativa e presidente della commissione cultura – a porre il tema dello spostamento dello stadio dal Campo di Marte. Lo facemmo in occasione della discussione del Piano Strutturale, partendo dall’assunto che lo stadio lì non consente, strutturalmente, l’ordinato dispiegarsi delle altre funzioni. Cosa che sarebbe considerata inaccettabile, in primis dai residenti della zona, in qualunque altra città del mondo.

Quello che è accaduto dopo è noto, con gli anni dei Della Valle in cui ho sempre avuto l’impressione, dal giorno della “presentazione” al Four Seasons in poi, che si giocasse una sfida a chi rimaneva col cerino in mano, su chi avrebbe detto di no al nuovo stadio, tra la proprietà della squadra e l’amministrazione comunale.

Con l’arrivo di Commisso però le cose sono parse muoversi verso una più chiara e determinata volontà dell’imprenditore privato, riaprendo anche la possibilità di un restyling del Franchi che rappresenta certo una sfida interessantissima sul piano architettonico ma non sposta di una virgola, oggi come 12 anni fa, le problematiche urbanistiche di un quadrante denso di residenza, schiacciato sulle colline e senza prospettive di nuova viabilità a supporto. Anche la proposta avanzata su queste colonne da Gianni Biagi pur prevedendo un ridisegno complessivo dell’area di Campo di Marte e quindi dando risposta non soltanto con un nuovo impianto ai bisogni della Fiorentina e dei tifosi ma anche, almeno in parte, a quelle dei residenti, non appare complessivamente in grado di risolvere lo stadio nel mezzo di un quartiere residenziale densamente popolato.

Oltre a questo ridiscutere del Franchi perché soluzione gradita al soggetto privato mentre il soggetto pubblico, da tre amministrazioni, ha discusso e deciso di trasferire la funzione altrove, andrebbe nella direzione opposta a quella che dovrebbe essere la potestà pubblica del governo del territorio e ben oltre quell’”urbanistica contrattata” che fu ampiamente contestata (e mi si permetta di dire che era cosa assai diversa) una decina di anni fa da chi oggi questa città governa. In questo senso il metodo che propone Gianni e prima di lui Domenici di una società di scopo per costruire e gestire l’impianto rappresenta un punto di equilibrio e di innovazione tra pubblico e privato da perseguire in ogni soluzione scelta.

Anche l’argomento che non si può spostare lo stadio perché poi non si saprebbe cosa fare del Franchi appare un argomento che sancisce il fallimento del pubblico e della sua capacità programmatoria e di ideazione, attrazione e governo delle funzioni. Tanto è vero che sempre su queste colonne sia Biagi che Andrea Bacci hanno ipotizzato funzioni assolutamente compatibili e qualificanti per il vecchio impianto. Se si fosse ragionato con l’idea di non saper che fare dei contenitori dismessi avremmo ancora l’Università in via Laura, il Tribunale in San Firenze e la scuola dei Carabinieri in Santa Maria Novella.

Tuttavia, con buona pace del dibattito che questa rivista e la città hanno intrapreso, è probabile dopo 10 anni di programmazione, ideazione, bandi, localizzazioni impossibili come la Mercafir, che non sarà sulla base di un ragionamento sulla bontà della collocazione per rispondere al bisogno “stadio” che l’impianto si farà o meno al Franchi a Campo di Marte o a Campi, ma sarà sulla base della convenienza del costo dei terreni che il soggetto privato, legittimamente, farà e sulla rapidità di esecuzione di un progetto che Firenze ha annunciato per tre amministrazioni ma mai avviato.

A me pare dunque che oltre ai meriti urbanistici, vista la non volontà di praticamente nessuno di tornare all’ipotesi di Castello, la possibilità di costruire il nuovo stadio a Campi Bisenzio sia quella oggi che ha maggiori vantaggi di realizzabilità. Una scelta che avrebbe il vantaggio di costruirsi su un’area meno carica di funzioni ma che, proprio per questo, imporrebbe costi più elevati per realizzare le infrastrutture di mobilità, soprattutto su ferro, per rendere fruibile in modo sostenibile lo stadio. Un prezzo elevato che il pubblico potrebbe in parte sostenere, a mio avviso, sia impostando un modello di partecipazione mista come quello ipotizzato da Biagi e Domenici sia se lo stadio fosse una delle funzioni sulle quali si aprisse una stagione, finalmente, di pianificazione complessiva della Piana; in cui il capoluogo non scaricasse in quel quadrante solo le funzioni più impattanti o di servizio (aeroporto, termovalorizzatore, ecc…) ma tornasse, come avvenne per l’Università a Sesto, a pensare ad uno sviluppo complessivo e contemporaneo del suo territorio, insieme a quello di quei comuni. Per esempio coinvolgendoli in un ripensamento dell’intervento di Castello che, evidentemente, visto che la proprietà per prima non dà seguito alle previsioni di Piano, ha necessità di essere rivisto, ragionato e ripensato. Sia nella parte privata che in quella pubblica dato che il non avvio della prima non consente la realizzazione di quel parco della piana che comunque sarebbe oggi, praticamente ingestibile, per i costi di conduzione elevatissimi, da un’amministrazione comunale sola.

Approfittare quindi del nuovo stadio per ribadire il ruolo del pubblico invece di utilizzarlo per appuntarsi una mostrina da riscattare alle prossime elezioni. Riprendere in mano un governo del territorio che sia sempre più cura del paesaggio, difesa dell’ambiente e risposta a bisogni dei cittadini. Bisogni dell’abitare, del muoversi ma anche del divertirsi e, perché no, del tifare.

Articolo apparso su Cultura Commestibile n. 362 dell’11 luglio 2020

L’attuale manzoniano della malagiustizia

Può apparire scontato, se non banale, che durante una pandemia si ripubblichi “Storia della colonna infame” di Alessandro Manzoni, non fosse che, come scrive Sciascia nella sua nota al volume per le edizioni Sellerio (nota che da sola vale l’acquisto), il testo del Manzoni sia uno dei suoi migliori quanto uno dei più misconosciuti. Come capita spesso ai testi che hanno fortuna di essere citati senza essere spesso letti o, peggio, capiti.

Testo di drammatica attualità e potenza quello di Manzoni che si interroga sull’ingiustizia della giustizia. Non sull’errore giudiziario, ma sul metodo accusatorio, sulla protezione che il giudice si costruisce da solo o come corporazione, sul bisogno di perseverare nella bugia una volta che questa è costruita per sostenere la tesi accusatoria, di piegare la legge alla consuetudine e al metodo di dover dare colpevoli alla folla.

Si parla di due untori, ma come nota Sciascia nel chiudere della sua nota, si potrebbe parlare dei terroristi degli anni ’70 e dei tanti imputati dei processi di oggi, condannati prima facendosi sfuggire intercettazioni e atti processuali che trovano ampia fortuna sulle pagine delle odierne gazzette e poi perdurando la pena del processo per anni e anni.

È quindi il metodo dello scritto del Manzoni che stupisce e convince. In punta di piedi, non volendo offendere in alcun modo l’illustre predecessore, nella premessa Manzoni, quasi scusandosi, dice che il suo lavoro si discosta da quello del Verri perché se quest’ultimo aveva come scopo combattere la tortura come metodo d’indagine, egli si pone il tema più generale della giustizia che sbaglia. E sbaglia consapevole di sbagliare come dimostra l’autore nell’entrare, forse pedantemente, nell’analisi delle norme e delle consuetudini che regolavano l’uso della tortura come metodo d’indagine ma soprattutto, nei meccanismi che regolavano la promessa di impunità che l’autorità poteva concedere per far confessare complici e mandanti agli accusati. Dunque non era, per il Manzoni, la tortura il problema ma l’arbitrio, l’abuso del giudice per ottenere non la Verità, ma un colpevole.

Storia vecchia direte, e qui ritorna Sciascia, la sua paura della legge sui pentiti, appena varata quando l’autore siciliano ripubblica per Sellerio l’opera del Manzoni e scrive la nota che accompagna quel volume e la ristampa attuale. E quanto attuale anche oggi può essere questa paura se pensiamo a Guantanamo, o per restare a casa nostra a quando venticnque anni fa nella solita Milano si pontificava di “metterli in galera qualche giorno per farli parlare”. Nell’applauso festante delle gazzette e degli inviati infreddoliti di fronte al maestoso (ma bisognoso di chiudi per stare in piedi come racconta Giorgio Fontana in un altro bel libro pubblicato sempre da Sellerio) Palazzo di Giustizia, con sfondo mobile di tram sferraglianti. Non stupisce a ripensarci oggi che poi uno veda anche la Madonna.

C’è poi un ultimo punto, ed è sempre Sciascia a farcelo notare, che è quello del reato di cui sono accusati gli sventurati protagonisti: di causare la morte per peste attraverso unguenti velenosi. Viene da dire superstizione da antichi da cui, oramai, siamo immuni. Non pare così, se si vuol dare retta a Sciascia, che ci racconta come la storia invece che essere una palla di cannone accesa è più spesso un arabesco che procede in avanti e indietro. Se infatti tra gli antichi vigeva il pregiudizio delle pestilenze come maleficio commesso da uomini per diabolici intenti, in quello che immaginiamo come buio medioevo si tendeva ad incolpare l’influsso degli astri o il castigo divino quali cause delle pestilenze.

Per tornare nel Seicento, raccontato dal Manzoni, a ricercar l’untore come capro espiatorio della non conoscenza e delle inefficienze della sanità lombarda, rifluendo invece nello scientismo dell’Ottocento che aveva a nemico igiene e ratti. Ma non occorre arrivare ai no vax attuali o ai complottisti del 5g per vedere che questo andirivieni di colpevoli aveva, ai tempi della spagnola, trovato nei governi i colpevoli. La prima guerra mondiale – scrivevano i complottisti dell’epoca – era finita troppo presto e occorreva diminuire ancora un po’ la popolazione mondiale attraverso qualche pozione venefica. All’obiezione che anche qualche potente fosse deceduto, si trovava facilmente rimedio nel dire che si era confuso tra veleno e antidoto.

Il punto però, aldilà del consolarci o preoccuparci per la lunga durata del complottismo, è quando queste tesi trovano una Procura zelante, una inquisizione compiacente, un giudice svogliato e ti trovi a passeggiare per Milano, compiendo il tuo mestiere, con una boccetta d’inchiostro in mano, oggi magari con uno smartphone 5g, ed invece di trovare giustizia ti imbatti nella Legge.

Articolo uscito su Cultura Commestibile n.361 del 4 luglio 2020