La battaglia delle idee

20130502-192723.jpgDomani, venerdì 3 maggio, torno in edicola con una piccola rubrica sul Corriere Nazionale – Qui Firenze riprendendo l’abitudine interrotta con la chiusura del Nuovo Corriere di Firenze. I temi saranno i miei usuali, la politica, l’economia e la società con un occhio speciale su Firenze. Il titolo della rubrica è decisamente impegnativo – la battaglia delle idee – visto il precedente sicuramente “migliore”.

Il primo articolo è dedicato alle risorse del governo Letta; alla ricerca delle quali tutti si affannano ma che, forse, non sono così importanti. Vi aspetto domani in edicola.

 

 

Tutt’altro che brevi cenni sull’universo (i 60 giorni che inchiodarono la Repubblica).

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Siccome sono un po’ di giorni che i miei dieci lettori mi fanno troppi complimenti per quello che dico nella sintesi dei 140 caratteri di twitter, sento l’urgenza di fare arrabbiare un po’ tutti mettendo giù qualche nota sparsa sulla situazione politica e sugli ultimi estenuanti 60 giorni delle istituzioni politiche italiane. Nessuna pretesa di esaustività, anzi, né di una logica tra, e in, quello che scrivo. Giusto un po’ di pensieri sparsi da offrire e facilissimi ad essere smentiti persino nei prossimi minuti. Un’unica avvertenza di metodo, soprattutto a me stesso, nessun interesse al contingente, sia esso il governo, il destino di questo o quello o gli appuntamenti interni alla vita dei partiti, ma solo temi generali come si compete ad uno spettatore interessato.

1)      La generazione playstation. Ho sempre pensato che la fila fosse sinonimo di civiltà; si trattasse di prendere un autobus, fare un prelievo al bancomat, progredire all’interno di una organizzazione sociale. Oggi invece, anche a causa di un paio di generazioni messe a tappo dell’intera società italiana (i meccanismi di cooptazione non hanno saputo adeguarsi all’allungamento della vita), è diventato di moda saltare la coda e fare vanto della propria inesperienza, almeno in politica. Così non ci sogneremo mai di farci difendere in un processo penale in cui rischiamo la galera dall’ultimo dei praticanti di uno studio legale, abbiamo invece affidato buona parte della vita dei partiti e delle istituzioni a degnissime persone, spesso brave e preparate, che però hanno iniziato la loro esperienza politica un minuto prima (talvolta persino un minuto dopo) essere elette. Il fatto che tutto questo lo si sia ammantato di merito, intendendo per merito le capacità extrapolitiche che indubbiamente molti di questi nuovi protagonisti hanno, ai miei occhi risulta come aggravante. Così abbiamo oggi in molte istituzioni e partiti politici una generazione che non ha mai giocato davvero a calcio pensando che fosse sufficiente essere dei campioni alla playstation. Da qui una sottovalutazione delle prassi, delle liturgie istituzionali (la cui conoscenza è indispensabile se le si vuole sovvertire) che porta a innocue goliardate come votare Mascetti alla Presidenza della Repubblica (atto apparentemente innocuo ma significativo del clima da gita scolastica) o al pensare che male non farà dare un po’ di schede contro Prodi giusto per vedere l’effetto che fa. Solo che poi, mancando mestiere e regia, finisce che le schede sono troppe e tutto crolla.

2)      Questione Morale o questione politica. Passi trent’anni a dirti la parte sana e migliore del Paese e finisce che non solo ci credi ma condisci ogni dissenso dal tuo bene comune come tradimento o crimine. Ci riflettevo ieri sera quando un giovane, evidentemente non anagraficamente figlio delle tradizioni politiche novecentesche, ha detto “noi siamo il PD buono”. Allora mi è tornato in mente Natta (che mi pare Guido Vitiello giorni fa ha ritrovato su facebook) che criticava l’intervista di Berlinguer sulla questione morale. Diceva Natta che Berlinguer aveva commesso un tragico errore nell’avere posto non una questione politica ma una questione morale. Oggi possiamo dire che aveva ragione e che il clima di odio (sì odio) che si avverte nella società prima che nei gruppi dirigenti è la dimostrazione che la spaccatura nel Paese non è tra linee politiche ma tra linee morali, il bene e il male (sia chiaro analogo discorso vale a parti invertite dove anche larga parte del popolo di destra odia la sinistra). Occorrerebbe che la politica abbandonasse il campo immediatamente e non impostasse campagne elettorali involontariamente orwelliane (l’Italia migliore) e lasciasse alla cultura e persino alle religioni il compito di pacificare il Paese. Dovremmo impegnarci a farci almeno un amico (virtuale o reale) della parte avversa e conoscendolo vedere che ci somiglia molto più di quanto ci divida la scelta politica. Occorrerebbe anche rivalutare Natta, se non politicamente almeno culturalmente. Un operazione che la trasformazione in santino di Enrico Berlinguer ha sinora impedito. Penso e spero che a partire da quell’articolo che citavo presto qui o su qualche rivista possa proporvi una rilettura di Natta e della sua “diversità”.

3)      Un partito in Barca. Ho letto il documento di Barca. Occorrerà tornarci e discuterne approfonditamente. Conto di farlo da queste parti appena avrò un po’ di tempo per scrivere seriamente. La prima impressione è quella intanto di un metodo nuovo, seppur antico. Non ci si è limitati a una brochure colorata o una infografica ma si è scritto un saggio di 55 pagine con note e bibliografia. C’è fatica e c’è rispetto in siffatta maniera. Sul piano dei contenuti però la prima cosa che salta all’occhio è il tentativo, non proprio modernissimo, di coniugare Gramsci con Amartya Sen. Mi verrebbe da dire si accomodi. Sono circa venti anni che ci hanno (abbiamo se mi passate l’immodestia) provato. Ogni volta però il limite è stato di prendere in Gramsci le parti relative all’organizzazione e al partito e in Sen le parti economiche. Forse occorrerebbe prendere la lettura della società di Gramsci e il concetto di politica che deriva dalla declinazione di Libertà di Sen perché l’esperimento abbia buoni frutti.

4)      Divergenze tra me e il compagno Pannella. Criticare Marco Pannella non è mai operazione semplice, non tanto per la sua grande storia ma per la sua capacità spesso divinatoria di leggere la politica e la società italiana (una volta magari riusciti a dipanare qualcuno dei mille rivoli della sua oratoria). Però sulle sue critiche al presidente Napolitano mi spiace ma (per quel che conta) non sono d’accordo. Pannella parte dal condivisibile punto che Bonino sarebbe stata meglio di Napolitano e ne addita responsabilità anche allo stesso Napolitano. Certo il Presidente ha fatto un (grandissimo) discorso di (auto)investitura molto assolutorio verso se stesso e come lui ha inteso e agito la sua carica istituzionale nel primo settennato. Quello che però contesto a Pannella è una tendenza egualmente assolutoria nei confronti del suo partito (o della sua galassia). Ok il regime, ok la partitocrazia imperante ma forse causa dell’annientamento elettorale dei radicali è anche un gruppo dirigente tra i più immobili che il partito ha avuto nella sua lunga e gloriosa storia. Perché la partitocrazia e il regime sono ovunque ma in Puglia le firme le raccolgono nel nord no. Sia chiaro stiamo parlando di persone serie, preparate e con una passione e un impegno smisurati, tuttavia non capaci, a mio avviso, di essere nuovi, innovatori, come sempre sono stati i radicali. E non c’entra nulla la storiella di Pannella che mangia i suoi figli, Pannella quando dissente semplicemente si ferma e come ogni stella intorno alla quale ruotano sistemi solari, quando si bloccano i corpi celesti collassano su sé stessi. Credo che per il bene dei radicali (e dunque dell’intero Paese) una nuova fase politica di quel soggetto sia necessaria, aldilà delle figure e delle persone che la incarneranno.

5)      Avanti il gran Partito. Collegandomi con quanto scritto sopra l’ultimo punto lo dedico al PSI di Nencini. Nel marasma generale quel partito mi è apparso, almeno nel centrosinistra, la forza politica che meglio esce da questi 60 giorni di delirio. Una posizione coerente sul Presidente della Repubblica, nessun tradimento dell’alleanza e dei suoi leader e una posizione chiara sul governo. Certo, direte, è facile farlo quando non si è determinanti ma anche avere coscienza dei propri limiti è grande pregio per una politica in cui abbiamo visto partiti del 3% pretendere propri esponenti alla guida delle istituzioni, dettare linee di governo e pontificare sempre e comunque. Certo non dimentico che Nencini è quello dell’accordo in cassaforte con Manciulli o quello che mentre faceva le manifestazioni contro la riforma della legge elettorale per le europee perché estrometteva i piccoli partiti, contemporaneamente votava la riforma del “cinghialum” toscano che provocava lo stesso effetto. Tuttavia in questa fase, per me, si è ben mosso e la sua proposta di rimettere in piedi un ragionamento sulla sinistra laica e socialista mi pare una  vecchia novità necessaria non per dar vita all’ennesimo partitino ma perché quelle tradizioni non siano assenti da questo (speriamo non infinito) dibattito.

 

La sporca guerra di Corea in festival a Firenze

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Con The front line anche la guerra di Corea diventa “sporca”. Infatti il film del 2011, in proiezione questa sera in anteprima italiana al Korea Film festival di Firenze, ci porta nel dramma del conflitto coreano dal punto di vista dei soldati che combatterono in trincea. Un approccio ben lontano dalla (poca) filmografia occidentale sul conflitto che troppo a ridosso della seconda guerra mondiale e troppo dentro alle dinamiche della guerra fredda non produsse né film epici né film di denuncia come sarebbe accaduto per il Vietnam. The Front Line colma questa lacuna, con un film decisamente antimilitarista in cui il messaggio sta nella frase del tenente cinico ma leale coi suoi uomini in cui il nemico non sono i comunisti ma la guerra stessa. Un punto di vista che fa ancora più effetto se proveniente da un Paese che formalmente, ma non solo, quella guerra non ha mai terminato e che vive dal 1953 con la minaccia del terzo esercito più numeroso del mondo ammassato lungo la linea smilitarizzata del 38° parallelo. Quella peraltro lungo la quale è ambientato tutto o quasi il film che narra l’assurda battaglia senza tempo per la conquista di una spoglia collina che cambia continuamente di mano.

La guerra e la sua assurdità, sono quindi al centro del film e dei suoi personaggi con un timido tentativo di umanizzare persino il nemico, fratello nella lingua e nella canzone (da cui prende il titolo il film) che i due schieramenti cantano insieme prima dell’ultima e ancor più assurda battaglia finale. Tuttavia le figure dei rossi risultano molto più stereotipate di quelle dei sudcoreani e il loro tentativi di risultare egualmente umani è probabilmente frustrato dal sentimento diffuso tra i sudcoreani e dalla continua propaganda di questi anni di armistizio. In sostanza il regista non se l’è sentita (o forse non ha semplicemente nemmeno pensato) di rendere ancora più forte il carattere di guerra civile della guerra di Corea, mantenendo sempre la distanza tra nord comunista e sud.

Continua a leggere a pagina 15 del numero 22 di Cultura Commestibile

(Il film sarà proiettato questa sera in anteprima italiana al Florence Korea Film Festival per info)

Tuttti i toni del Viola di Mario Ciuffi

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La vita di Mario Ciuffi quanto a fatica valeva tre delle nostre. Ciuffi era la gazzella del proverbio africano che la mattina si alzava e iniziava a correre per procurarsi letteralmente il cibo. Altri erano i leoni che l’inseguivano e alla lunga fare il tifoso professionista, come si definiva, l’ha consumato quasi fosse un mestiere usurante. Dell’intervista che insieme a Andrea Bruno Savelli e Marco Cei gli facemmo qualche anno fa per un documentario sulla sua vita, ricordo molto più che i fatti di calcio i fatti della sua vita personale. I soldi spesi con generosità estrema per sé e gli amici, per condividere la passione per la vita e per il calcio. La sua incapacità, quando faceva l’agente commerciale per la Moto Guzzi, di ritirare a chi non pagava i motocarri che gli aveva venduto e di come, qualche volta, fosse lui ad anticipare la rata per loro. E poi il matrimonio, la festa di nozze fatta al piazzale e l’amore per quella donna che, nonostante tutto, non l’ha mai abbandonato. Una vita in cui i pensieri ci saranno stati senz’altro e così i timori di non farcela, scacciati dalla Fiorentina e da quella speranza che le cose domani (un domani qualsiasi) si sarebbero sbloccate, che il destino l’avrebbe ripagato.  Giorno dopo giorno ha convissuto con questa speranza, permettendosi di seguire la sua Fiorentina, di vivere la vita che gli stava a genio, con compromessi a cui a vederli da fuori, noi, non avremmo mai resistito.

(da Cultura Commestibile n.18 del 23/02/2013 )

HAL era psicopatico ed ad IBM la cosa andava bene

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Per anni il regista, Kubrick, e il co-sceneggiatore e autore del romanzo da cui il film 2001 odissea nello spazio è ispirato, Arthur C. Clarke, hanno sempre affermato che fosse del tutto casuale che il nome del supercomputer dell’astronave HAL, spostando tutte le lettere che lo compongono a quella successiva, desse vita all’acronimo IBM ovvero, all’epoca, la maggiore azienda produttrice di computer.

Fan devoti e fanatici del complotto hanno sempre teorizzato che dietro a questo cambio vi fossero state pressioni da parte dell’azienda al fine di non associare il proprio nome ad un computer che, sviluppando sentimenti umani, arriva ad uccidere l’equipaggio della nave che invece dovrebbe accudire.

Leggi il seguito su Cultura Commestibile n. 16

 

Stalinismo all’epoca di google (l’Italia Giusta).

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Chiara Di Domenico, per qualche merito a me ignoto, è salita sul palco di una iniziativa nazionale della campagna elettorale del PD. Chiara Di Domenico, per qualche merito a me ignoto, ha preso la parola sul palco di una iniziativa nazionale della campagna elettorale del PD e ha attaccatto Giulia Ichino perchè, dall’età di 23 anni lavora in Mondadori. Chiara Di Domenico su quel palco ha detto che Giulia Ichino lavora in Mondadori perchè figlia di Ichino, giuslavorista e fino a qualche settimana fa senatore del partito che, per qualche merito a me ignoto, la faceva parlare in quella iniziativa. Giulia Di Domenico poi  ha, tranquillamente, ammesso che non conosce né Giulia Ichino né la sua storia professionale ma ” […] basta scrivere su google il suo nome per scoprire qual è la sua storia […]”.

Ora che siffatta roba stia tra la cialtroneria e la diffamazione pare a me piuttosto evidente ma quello che mi inquieta è l’abbraccio che le ha tributato il segretario Bersani alla fine del suo intervento. Immagino che Bersani con quel gesto abbia voluto da un lato essere un padrone di casa affettuoso e dall’altro riferirsi all’intero intervento e non al solo attacco alla figlia di un suo ex senatore; tuttavia se “le parole per l’Italia Giusta ” (il titolo dell’iniziativa) sono queste (e al momento non mi risultatno prese di posizioni differenti da parte del PD)  mi corrono brividi lungo la schiena, perchè quel “giusta” rischia di suonare tristemente intollerante e totalitario.

Insomma viene il dubbio che si sia  alla fase della farsa della storia (per dar ragione al vecchio Marx), per cui si continua a condannare il traditore (fortunatamente non lo si sbatte più in Siberia)  ma occorre colpire tutta la sua famiglia. Non vorremmo che, cercando su google, trovassimo anche le foto del gruppo al senato del PD della passata legislatura sbianchettate proprio della figura di Ichino.

Ps. Per chi volesse qui trova la risposta di Giulia Ichino dalla quale pare che di raccomandazioni ne abbia avute ben poche.

Un museo fuori fuoco

Incuranimage005te della recensione non proprio lusinghiera apparsa su queste colonne della mostra “Gli Archivi Alinari e la sintassi del Mondo –Omaggio a Calvino” sabato scorso sono andato a vedermela al Museo Nazionale Alinari della Fotografia, portando con me mio figlio Giorgio di 4 anni e mezzo.

All’arrivo prima sorpresa, il costo del biglietto – ridotto – supera di un Euro quello degli Uffizi ….

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Che fine ha fatto il cinepanettone?

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Il Natale è, anche un genere cinematografico. Inevitabile certo ma, per quanto riguarda il nostro Paese, piuttosto recente. In fondo Vacanze di Natale, il primo, è del 1983. Probabilmente nemmeno i fratelli Vanzina, potevano supporre che, proprio a partire da quell’occasione, sarebbe nato uno dei filoni più prolifici e contemporaneamente disprezzati, del cinema italiano: i cinepanettoni. Una miriade di Natale a Cortina, Miami, New York ed altre amene località di cui abbiamo perso il conto ma non la trama, essendo questa più o meno sempre la stessa, così come molti degli interpreti; uno su tutto l’inossidabile Cristian De Sica. Probabilmente per sadismo o cristiana espiazione, in questi giorni di festa, Sky ha dedicato al Natale un canale della sua offerta, in cui passavano, ossessivamente, queste pellicole. Ammettiamo che non siamo riusciti a guardare che pochi minuti delle varie pellicole, rimanendo però colpiti che aldilà della location e talvolta dei protagonisti, avresti potuto benissimo iniziare a seguire un Natale a Parigi, appisolarti per il troppo panettone, risvegliarti in India e proseguire la visione senza troppa difficoltà, come capita a chi per un periodo aveva una madre che seguiva Beautiful e si trova a riseguirlo causa fidanzata.

Continua a leggere l’articolo sul numero 10 di CulturaCommestibile.com

Il Nuovo Corriere mancherà a Firenze (anche al suo sindaco).

Per più di un anno ho scritto sul Nuovo Corriere di Firenze. L’ho fatto usurpando la prima pagina quasi tutte le settimane, grazie al suo direttore Alessandro Rossi e alla incredibile libertà di cui ho goduto. Una libertà che è difficile da descrivere.

L’ho fatto pensando di non essere un giornalista nè un professionista dell’informazione ma semplicemente un piccolo osservatore con qualcosa da dire. Ho goduto di quello spazio cercando di non approfittarmente, provando a rispettare il lavoro dei professionisti che quel giornale (e tutti gli altri) ogni giorno compongono con un lavoro che è tutt’altro (e con tutt’altre difficoltà e pesantezze) da quello di mettersi davanti a pc e esprimere un’opinione sul mondo.

Io, dunque, smetto di scrivere, loro di lavorare e sono loro i protagonisti (loro malgrado) di questa chiusura e sono loro quelli a cui dobbiamo dedicare attenzione e sforzi perchè tornino presto a fare il loro mestiere. Tuttavia in questo anno e mezzo mi son sentito parte se non di una famiglia, almeno di una squadra. Ospite non solo tollerato ma anche parte di un’esperienza che, soprattutto con Cultura Commestibile, è stata grande e profonda.

Per questo mi sento di scrivere queste parole. Di dire che, alla fine, quella che ci rimette davvero è Firenze. Perchè il Nuovo Corriere, nel bene e nel male è stato un unicum del giornalismo fiorentino. Un momento di confornto, dibattito ma anche di ilarità. Mancherà al mio amico Lorenzo che mi segnalava le locandine le più fantasiose. Mancherà ai clienti del bar di Alessandro che ogni giorno glielo proponeva. Mancherà ai politici e ai cittadini fiorentini che trovavano nel corriere notizie e spazio per dire la loro. Sempre e comunque, di qualunque colore fossero. Mancherà anche a quelli che il corriere più criticava. Mancherà anche al Sindaco di Firenze e dispiace che proprio lui pare non averlo capito non spendendo una parola per un giornale che chiude nella sua città.

Non avrebbe cambiato le cose ma il non farlo è un segno non bello. L’assenza di gravitas che David Allegranti ha descritto nel suo libro dedicato al primo cittadino, penso che stia anche in queste cose a dimostrazione che si possono prendere i voti (parafrasando un titolo storico del Nuovo Corriere) e il potere ma non è necessariamente detto che si acquisti anche il necessario distacco che serve per esercitarlo nel modo più giusto.

Capiamoci, quando facevo politica, certi titoli ed articoli della redazione fiorentina di un grande quotidiano mi facevano girare fortemente i coglioni e con certi capo redattori non è che proprio abbia ancora voglia di andarci a cena (cosa del resto reciproca). Ma ho semplicemente smesso di comprare quel giornale in edicola; però se mai dovesse chiudere penso che sarebbe un problema per questa città. Non è retorica è intelligenza ed è buon gusto.

Spero che abbia ragione Alessandro Rossi nell’editoriale apparso oggi sul Nuovo e che potete leggere qui sotto. Che quello di oggi possa essere un arrivederci. Perchè da oggi siamo tutti un po’ più poveri. Per davvero.

Il giornale con le calze rosse

di Alessandro Rossi, dal Nuovo Corriere di Firenze del 14 maggio 2012

Non so ancora, in tutta onestà, se questo è un addio o un arrivederci. Comunque sia non è un gran momento. E’ uno di quei momenti in cui ti passa davanti agli occhi il film della tua vita. Ho avuto la fortuna, nella mia professione di giornalista, di avere solo maestri grandi o grandissimi.

Facendo il paragone con una carriera scolastica si potrebbe dire che ho fatto le materne con Maurizio Boldrini (uno dei fondatori della facoltà di scienze della comunicazione a Siena), le elementari con Gabriele Capelli (semplicemente maestoso per professionalità e umanità) all’Unità di Firenze, le medie con Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani a la Repubblica, le Superiori con Paolo Panerai a Milano Finanza/MF e l’Università con Mike Bloomberg. Ma ho conosciuto tanti altri personaggi e colleghi due dei quali, più di tutti, insieme ai miei maestri, hanno lasciato il segno nella mia formazione e nella mia coscienza: Romano Bilenchi e Guido Vergani. Del primo tutti sanno tutto a cominciare dalle vicende del suo Nuovo Corriere a cui, almeno nella testata, questo giornale ha avuto la presunzione di ispirarsi. Bilenchi era geniale da rasentare la follia, si batteva per la sua indipendenza come contro le sue malattie, spesso immaginarie, da cui non riusciva a staccarsi. Intellettuale sofisticato, amava le storie semplici. Di paese. Non piegò mai la testa. Comunista critico, libertario, sostenitore del dialogo con i cattolici. L’ho incontrato qualche volta a casa sua, a Firenze e mi chiamava “Pallino”. Lui chiamava tutti Pallino. Mi diceva. “Pallino, Il Nuovo Corriere è morto. Non ne voglio parlare. E’ morto e non ci sarà mai più un giornale come quello”. Aveva ragione Bilenchi. Un giornale non è mai uguale a un altro anche se oggi si fa a gara a somigliarsi. Ma almeno al suo tempo ogni giornale era una piccola opera d’arte. Sono sempre stato affascinato da quello scimmione di Colle Val d’Elsa, sbracato sul divano che si toccava continuamente la testa. E ho sempre sognato di poter lavorare al “suo” Nuovo Corriere. Di Guido Vergani, figlio del famoso Orio, si sa molto meno. L’ho conosciuto a Repubblica a Milano. Era uno e bino, trino, o chissà quante altre ancora: borghese ma progressista, non era bello ma piaceva alle donne, frequentatore e animatore dei salotti che poi raccontava senza pietà. Grande affabulatore, sempre ironico, elegante anche con i vestiti ciancicati. Qualcuno di lui scrisse che “nel suo lungo percorso non è mai caduto nell’errore di annacquare la sua libertà di giudizio con il senso dell’opportunità”. Guido indossava sempre delle calze rosse, quasi cardinalizie. Un modo di dichiararsi diverso anche nei particolari. A Vergani e Bilenchi ho cercato di rubare tutto quello che gli potevo rubare: l’onestà intellettuale, l’indipendenza di giudizio, l’attenzione alla scrittura, la voglia di stare dalla parte della gente comune. E poi l’ironia. Pur sapendo che la mia preziosa refurtiva, disgiunta dai proprietari originari, era meno commerciabile, ho provato a venderla lo stesso. Anzi, a regalarla. Ho cercato di condividere, spesso senza dirlo, l’eredità Bilenchi-Vergani con la redazione e con tutti quelli che in questi anni hanno lavorato con me a Il Nuovo Corriere, “il giornale più libero di Firenze”, ci dicevamo sempre. Insieme abbiamo fatto battaglie indimenticabili, scoop, inchieste, interviste, titoli divertenti, pungenti, cattivi. Provando a fare quel lavoro che dovrebbero fare tutti i giornalisti: non consentire niente al potere, rispettarlo ma affrontarlo senza paura. E poi dare voce a chi non ha voce: le nostre pagine sono state sempre piene di nomi, di interventi, di richieste, di lamentele, di indicazioni, di proteste di chi non viene mai ascoltato. Anche Cultura Commestibile, felice intuizione di Aldo Frangioni, è nata per dare spazio a uno squadrone di intellettuali, anche di altissimo valore, che non si riconosce nei modi tradizionali e omologati di fare cultura, quelli che fanno audience ma non fanno riflettere, non stimolano. E Asilo Politico? Quando Il Manifesto ha chiuso le sue pagine fiorentine abbiamo aperto le nostre alle loro idee. Ne condividiamo pochissime, ma cosa importa? L’importante è che non restassero senza voce. Avremmo fatto lo stesso anche con altre testate di qualunque parte politica nella stessa situazione. Ora che è arrivato il nostro momento non abbiamo voglia di scrivere la parola fine. Per un motivo semplice: lo spirito de Il Nuovo Corriere non morirà mai. Vivrà sempre in quei giornalisti che sapranno fare il loro dovere e il loro mestiere “senza cadere nell’errore di annacquare la libertà di giudizio con il senso dell’opportunità”.

 

 

Solo l’uomo uccide i suoi cuccioli

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 22 marzo 2012.

Se le notizie che arrivano da Tolosa mentre scrivo saranno confermate pare che la strage compiuta di fronte a una scuola di quella città sia opera di un fanatico jihadista per vendicare i bambini palestinesi. Una disumana legge del taglione che mostra quanto l’uomo differisca (in peggio) dalle bestie a cui millenni di antropologia ci fanno appoggiare per narrare il male che ci circonda, dal Minotauro a Cappuccetto Rosso.

I naturalisti ci spiegano infatti che il senso di naturale affetto che ci viene guardando un cucciolo di quasi tutte le specie animali è un prodotto della selezione naturale per garantire la continuità della specie e la sopravvivenza dei piccoli in situazioni di pericolo.

L’uomo (quasi mai la bestia) in nome del proprio delirio e fanatismo rompe anche questa regola della natura, riuscendo ad uccidere i suoi cuccioli, indifesi per natura e lo fa, in questo caso, per una supposta vendetta nei confronti di altri bambini e per di più in nome di una divinità che dovrebbe aiutarci ad affrontare la nostra esperienza terrestre in vista della morte e di quello che potrebbe esserci dopo.

Il fanatico in questo caso fa poi coincidere, come tanta parte di noi purtroppo, uno Stato, certo fortemente radicato di religiosità e fede, con una religione e una comunità di fedeli, vedendo in ogni ebreo la continuazione di Israele inteso come le scelte di uno Stato sovrano.

E’ questa identità che muove razzismi più o meno inconsapevoli, e che certo trova un qualche fondamento nello Stato e nelle isitituzioni israeliane; che pesa ormai sulle discussioni e sul nostro atteggiamento nei riguardi della fede ebraica. Non voglio certo dire che è lo stesso meccanismo che muove la mano del fanatico, non si provi nessuno nemmeno a pensarlo; ma è un meccanismo che ci crea imbarazzo, ci mette di fronte a tragedie come queste con un carico emotivo diverso. Non è un caso che la prima reazione sia quella di cercare nel neonazismo il colpevole, è un modo per trovare un nemico talmente grande (e su cui abbiamo tanto senso di colpa come europei) che, da solo, ci impedisce di pensare a ebrei uguale israeliani. Finché non supereremo la dicotomia ebrei o come vittime del nazismo ovvero come israeliani qualunque discorso pubblico sull’ebraismo e persino sulla politica israeliana (fosse anche per criticarla fortemente) sarà monco e distorto.