Berlinguer l’ambizione cinematografica

Esce nelle sale questa settimana Berlinguer la grande ambizione di Andrea Segre. Abbiamo avuto l’opportunità di vederlo in anteprima alla cineteca di Bologna all’interno della Biennale dell’economia cooperativa organizzata da Legacoop alla presenza dell’autore e del protagonista Elio Germano. È stata dunque l’occasione per una riflessione non solo sul film ma sulla “presenza” di Berlinguer nel dibattito politico e storiografico e di come si trasmetta la sua memoria.

Joseph Buttiegieg che fu il traduttore dei Quaderni dal Carcere di Gramsci in lingua inglese scrisse che non bisognava fare del pensatore comunista una “reliquia intoccabile”. Per Gramsci, anche grazie alla fortuna oltreoceano del suo pensiero che la traduzione di Buttiegieg ha aiutato, probabilmente questo rischio è stato in parte evitato mentre il timore è stato e rimane altissimo per un altro comunista sardo: Enrico Berlinguer.

Erano già gli anni 2000, infatti, quando ancora bastava nelle riunioni del partito che già si discostava dal PCI di 10 anni e di due cambi di nome e ragione sociale, citare il nome del segretario comunista per ridestare un uditorio un po’ distratto o ottenere un applauso su un passaggio delicato. Ed è storia, e giusto omaggio, dei nostri giorni lo sguardo di Berlinguer sulla tessera del partito democratico.

In questi anni poi si sono moltiplicati i libri anche pregevoli, compreso quello di due redattori di questa rivista, i documentari, una bella e partecipatissima mostra e tante altre iniziative dedicate ad una delle figure più importanti non soltanto per la sinistra italiana. Una mole di produzioni che ha amplificato, talvolta stuzzicato, sia l’effetto nostalgia, sia il rischio “vita dei santi”.

Un rischio che anche il film di Andrea Segre Berlinguer la grande ambizione, si trova di fronte e prova a evitare da un lato con un rigore “citazionista” quasi filologico, lasciando al minimo le parti di pura invenzione drammaturgica, e dall’altra con un ritratto di Berlinguer che mischia l’uomo politico, l’uomo pubblico, con il Berlinguer privato quello della dolcezza con i figli e la moglie.

Un’operazione, quella di Segre, rischiosissima e coraggiosa e che non aveva avuto, almeno a memoria di chi scrive, precedenti in campo di opere cinematografiche non documentaristiche e che ci restituisce un ritratto del politico negli anni centrali della sua segreteria, quelli che vanno dal colpo di stato cileno del settembre 1973 all’assassinio di Aldo Moro nel maggio 1978. La grande ambizione del titolo (che si rifà a una citazione di Gramsci) è infatti quella dell’approdo del PCI al governo del Paese attraverso da un lato libere elezioni (in continuità con l’impostazione che dal rientro di Togliatti da Mosca nel 1944 aveva caratterizzato il PCI come gli altri partiti comunisti dell’Europa occidentale) e dall’altro la partecipazione di tutte le forze democratiche e popolari al governo, DC compresa. Ed è proprio questo secondo punto il centro della novità e del disegno berlingueriano che, attraverso il cosiddetto “compromesso storico” (Moro più enigmaticamente parlava invece di “convergenze parallele”) doveva portare prima ai governi della “non sfiducia” e poi alla partecipazione al governo dei comunisti.

Questo disegno, interrotto dal sequestro e dall’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse, è l’ambizione interrogata e raccontata nel film di Segre, che accompagna Berlinguer, interpretato con grande delicatezza da Elio Germano, tra riunioni del comitato centrale del PCI, assemblee con la “base” del partito, viaggi a Mosca, gli incontri “clandestini” con Moro ma anche i momenti di intimità con la famiglia del segretario.

Segre fa muovere Germano e gli altri attori su un sentiero rigido, reinterpretando al minimo passi di diari dei protagonisti o dei verbali delle riunioni conservati all’Istituto Gramsci e dunque restituendoci una ricostruzione storicamente appurata anche se tutta proveniente da una delle parti in causa, quella del gruppo dirigente del PCI.

Questo rigore se ha il pregio di rendere “solido” il film pone però almeno due problemi: da un lato piega alcuni avvenimenti al raggiungimento della grande ambizione; questo avviene in almeno due momenti: nella ricostruzione del referendum sul divorzio che viene raccontato come un’occasione per i comunisti di dimostrare alla DC che il Paese era pronto a uno sviluppo progressista che poteva portare all’alleanza tra le forze popolari. Se è vero che questa sarà la pronta lettura che il gruppo dirigente comunista darà dell’esito della consultazione referendaria, non va però dimenticato che il PCI era assolutamente contrario al fatto che si tenesse il referendum e Berlinguer in particolare, questo dicono i verbali del comitato centrale, era convinto che il voto si sarebbe rivelato in un trionfo del sì e della DC. Questa parte nel film è invece affidata ad una piccola scena di passaggio in cui Nilde Iotti convince il segretario della bontà del referendum criticando il “maschilismo” dei quadri del partito. Problema che era certo presente nel partito e che la Iotti conosceva bene anche per le proprie vicende personali.

Il secondo punto in cui il film piega la ricostruzione degli eventi al fine della grande ambizione è in una scena “moscovita” in cui Berlinguer parlando con il responsabile dei rapporti col PCUS, Gianni Cervetti fa intuire che il momento sia propizio per interrompere i finanziamenti “straordinari” di Mosca al partito. Così lo spettatore meno preparato può pensare che quella riflessione portò effettivamente all’interruzione di quel canale di finanziamento che invece proseguì e per molti anni, come ricorda lo stesso Cervetti nel suo “l’oro di Mosca”.

L’altro problema che questa impostazione filologica e rigida pone è che il Berlinguer di Germano non ha mai un dubbio, né nella parte pubblica (cosa che vista l’aura del segretario ci può stare) né nella parte privata. Ora è improbabile che, per esempio, di fronte alla volontà di autonomia dei comunisti italiani rispetto a Mosca, non fosse altro che per il prestigio dei comunisti sovietici agli occhi di chi aveva vissuto la Rivoluzione di Ottobre e la sconfitta del nazismo, non venisse nella solitudine della propria cameretta il dubbio di aver fatto la cosa giusta. Dubbio che in un’opera di fiction poteva ben essere rappresentato, rendendo più completo, più umano il personaggio. E invece anche il Berlinguer/Germano privato risponde sempre fermamente ai dubbi dei figli difendendo la propria posizione, pur “senza perdere la tenerezza”.

È questa la parte del film in cui il rischio agiografico non viene del tutto risolto ed è un peccato perché il film complessivamente si muove bene, non appare un prodotto pensato per la generazione dei “berlingueriani” (e dunque creato per l’effetto nostalgia) ma molto di più per chi Berlinguer non l’ha conosciuto e ne racconta la fase cruciale più innovativa e coraggiosa. Per questo non hanno senso le critiche come quella di Giuliano Ferrara sul Foglio di una passione per Berlinguer in quanto “perdente di lusso”. Quantomeno per questo film tale critica non si pone perché Segre, a mio avviso intelligentemente, sceglie di raccontare il Berlinguer che non si è ancora “spento” quello che avrebbe potuto farcela, seppur nel film la responsabilità della sconfitta non sia mai, nemmeno in parte, sua ma sempre di agenti altri: dalle BR, ai Russi o agli americani.

Scegliendo però l’arco narrativo 1973-1978 Segre si sottrae al giudizio storico su Berlinguer: la deriva “morale” dopo il fallimento del compromesso storico e la lunga apnea del PCI negli anni ottanta che la prematura morte nel 1984 sottrarrà al pensiero e all’azione di Berlinguer.

In questa sospensione temporale e di giudizio il film consente quindi, magari anche furbescamente, di non doversi esprimere, lasciando allo spettatore e alla sua inclinazione di declinare quello che dopo accadrà, limitandosi, si fa per dire, a una ricostruzione didascalica di un’intuizione, di un’azione e di un primo risultato negativo.

Non mancano infine alcune chicche della politica politicienne come dicono i francesi, come quando Berlinguer giubila Cossutta da responsabile dei rapporti con Mosca promuovendolo agli enti locali o quando spiega a Ingrao, il dirigente più critico alla politica di governo con la DC, che l’accordo con Moro aveva come primo risultato la presidenza di una camera per i comunisti e che il nome che il PCI avrebbe fatto era proprio quello di Ingrao. Inquadrando quindi il “grande idealista” nel contesto della sua professione di segretario e non “solo” di pensatore, raccontandoci che la politica era fatta da persone di livello, di pensiero ma anche di mestiere. Ed è anche questo uno dei meriti, non marginale, del film.

Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 551 del 2 novembre 2024

Il comunismo spettacolare del giovane Marx

Vedere Marx, giovanotto, che corre per le strade di Parigi in fuga dai gendarmi. Bello, se non lui, l’attore che lo interpreta. Insolente come un Hippie, barbuto come un hipster. Lui che trascina con sé un efebico Engels. Giovani e rivoluzionari, pieni di vita, amati e amanti di donne belle, libere, tenaci.

Insomma il Giovane Marx, film di Raoul Peck, ci rende una rivoluzione che non è un pranzo di gala ma un’avventura filmograficamente interessante, persino avvincente. Ed è questo uno dei principali meriti di un film che rende appassionante la prima parte della vita di due filosofi, che passavano la maggior parte del tempo nello scrivere, nel confrontarsi sul materialismo e l’idealismo, polemizzando tra loro in diatribe molto più lunghe e complesse dei bei dialoghi del film. Eppure il film, nonostante le inevitabili semplificazioni e spettacolarizzazioni, regge anche sul piano del pensiero dei due amici che diedero un manifesto al comunismo.

L’altro punto forte del film è il cast, una generazione europea di attori capaci di recitare in tre lingue con accenti impeccabili (che invidia), con bravura e sentimento. Credibili e sempre sul filo della drammatizzazione senza però diventare caricatura. Un film accurato, nei pensieri e nelle ricostruzioni. Scenografie, costumi, persino la scelta dei cavalli, rimanda ad una precisione importante e all’altezza della confusione che le idee del giovane Marx portò a giro, come il suo famoso fantasma, per l’Europa.

Un film non ideologico ma che nelle frasi che lo concludono raccoglie, involontariamente forse, uno dei sensi dell’opera di Marx, il non finito, non come limite ma come presa d’atto che ce n’est qu’un début…

Articolo uscito su Cultura Commestibile n.258 del 14 aprile 2018

Yves Montand, memorie di un uomo libero

Yves Montand è stata una figura imponente che ha attraversato la Francia per almeno metà del XX secolo. Cantante, attore, icona, potenziale candidato alla presidenza della Repubblica, il figlio dell’esule antifascista di Monsummano Terme emigrato in Francia all’avvento del regime mussoliniano nel nostro Paese, è stato un punto di riferimento per registi, sceneggiatori ma anche tanti cittadini semplici che hanno amato le sue canzoni, i suoi personaggi e le sue prese di posizione franche e sincere.

Ripercorre la sua vita attraverso le sue dichiarazioni e interviste il bel volume, Moi ma vie, curato da Carole Amiel edito in Italia da Clichy che ripercorre la carriera artistica e la maturazione politica dell’artista.

Partito dai music hall della Francia occupata, approdato alla scena musicale parigina che conta grazie ad Edith Piaff con cui inizierà anche una storia d’amore. Quello della sua vita sentimentale, con la Piaff con la compagna di una vita Simone Signoret, sono sempre accenni, pudicamente lasciati fuori dal discorso pubblico. Preservati non per calcolo ma per scelta, a differenza delle posizioni politiche passate dall’innamoramento comunista ad una profonda battaglia contro il tradimento degli ideale e a un antisovietismo militante negli anni 80 che lo porterà a polemizzare anche con l’allora segretario del Partito Socialista Lionel Jospin.

Il Montand che esce dalle pagine del libro non è un divo, è un artista (anche se civettuosamente si definisce per larga parte della sua carriera un artigiano) consapevole dei suoi mezzi, del suo valore (anche economico) che tiene a far sapere che di tutte le sue virtù quella per lui determinante sia la sua libertà. Una libertà anche politica che lo porta a prendere sempre e comunque posizione, per l’Unione Sovietica nei primi anni del dopoguerra, per la destalizzazione, per i profughi cileni, per la primavera di Praga, infine anche per Reagan nella sua battaglia contro i regimi dell’est. Una libertà che le cronache mondane raccontavano tale anche nella vita privata ma che invece nel discorso pubblico mai appare. Anzi l’uomo Montand che parla di sé è sempre il figlio del contadino toscano che va in esilio per affermare la sua libertà, l’uomo integro che pur cantando i sentimenti (fu il primo a portare al grande pubblico i versi di Prevert) non ne viene sopraffatto. Salvo forse sul finale, con l’arrivo in tarda età, del primo figlio a cui farà dedicare da un suo paroliere versi struggenti, un testamento e una promessa. Forse la stessa che Montand bambino fece a se stesso: di vivere da uomo libero.

Articolo apparso CulturaCommestibile n. 247 del 27 gennaio 2018

 

Il trapasso tutto da ridere di Stalin

La tragicità dello stalinismo è stata affrontata in saggi, romanzi, film. La durezza di quel regime, la ferocia di milioni di morti, imprigionati, le libertà soffocate, il terrore, il tradimento dell’ideale di eguaglianza, hanno attraversato generazioni di intellettuali. Eppure forse mai lo stalinismo è stato affrontato nel suo lato grottesco, nella sua farsa terribile. Troppi i morti, troppa la tragicità di intere popolazioni fatte morire di fame nelle carestie programmate per imporre il socialismo delle terre. Ci prova riuscendoci, Armando Iannucci, cineasta scozzese (a dispetto del nome) che mette in scena una commedia brillante, “Morto Stalin se ne fa un altro”, sulle ultime ore del dittatore sovietico e sulla successiva lotta per la successione.

Iannucci condensa molti fatti veri, seppur possano apparire completamente inverosimili, avvenuti sotto l’ombra del giorgiano, nello spazio dei giorni che vanno dalla morte al funerale di Stalin facendone un’iperbole che falsa un po’ la narrazione storica ma contribuisce a creare un effetto comico davvero eccellente. Così come eccellente è il cast, con una serie di attori in stato grazia, perfetti per il registro grottesco degli eventi: da Steve Buscemi nei panni (troppo magri rispetto all’originale) di Kruščëv o uno straordinario Simon Russel Beale in quelli (troppo grassi) di Lavrentij Berija. Un cast decisamente affiatato e british supportato da dialoghi scritti magistralmente che sono essenziali per un film corale in cui l’azione è tutta al supporto della sceneggiatura e non viceversa.

Siamo dunque di fronte a un piccolo film che però di questa dimensione trae vantaggio e si fa apprezzare per il suo essere molto divertente ma capace di farci riflettere sulle degenerazioni degli ideali, sulla tirannia e sulla sua riproducibilità, in questo il titolo italiano penalizzante rispetto all’originale (The Death of Stalin) ha almeno il merito, come ha notato in modo molto politically correct il regista nell’anteprima dello scorso martedì al cinema Stensen di Firenze, di farci riflettere sin da subito che quelle incredibili tragedie potrebbero anche ritornare se le dovessimo dimenticare.

Articolo uscito il 13 gennaio 2018 su Cultura Commestibile n.245

Gli ultimi Jedi dirazza e non delude

Arrivati all’ottavo episodio di una delle più longeve e fortunate saghe cinematografiche, gli ultimi Jedi, non delude le aspettative e anzi supera di gran lunga il predecessore, primo della trilogia targata Disney, mostrando una maturità ed un autonomia che fanno bene al film e alla saga. Visto al primo giorno di programmazione in un tripudio di spade laser brandite da quarantenni accompagnati dai propri figli, gli ultimi Jedi, è un film spettacolare, forse un po’ troppo ingarbugliato e con un’eccessiva ramificazioni di sotto trame che a qualche spettatore han fatto pensare al “troppa trama” di universale memoria, che gioca con l’effetto nostalgia ma in modo meno smaccato e pesante del predecessore.

Eppure il film, lungo, scorre e non si ingolfa mai, certo la storia talvolta si risolve senza difficoltà, in uno standard da film d’azione holliwoodiano, e la complessità dei personaggi è abbozzata, mai scavata. Una differenza sostanziale con le due trilogie di George Lucas. Qui, come ne il risveglio della forza, l’universo Star Wars è a servizio del plot (e del merchandising) e non la storia al servizio dell’universo Star Wars. George Lucas creò un mondo attraverso un film (che infatti ha dato vita a migliaia di spin off fumettistici, di giochi ruolo, letterari, …), Disney usa quel mondo come il contesto dove ambientare dei buoni film. Se l’operazione era parzialmente riuscita a JJ Abrams nell’episodio VII (forse per troppo timore reverenziale del regista), portata all’estremo in Rougue One (uno splendido film di guerra casualmente ambientato nell’universo Star Wars), qui il mix si fa completo rendendo gli ultimi Jedi un film pienamente inserito nella saga ma autonomo nel suo svolgersi. Anzi Rian Johnson, regista e sceneggiatore, riesce a dare un tocco personale, inserendo un umorismo caustico, battute fulminanti che sinora erano riservate al solo Ian Solo. Anche nel ridisegnare i personaggi non mostra alcun timore reverenziale e si permette di inaugurare persino la figura del Jedi sfiduciato, dando finalmente a Luke Skywalker una dimensione non più lancillottesca (non apprezzata, si racconta, dall’attore Mark Hamill, vero fan della saga).

Certo l’impronta Disney si nota, i personaggi sono rigorosamente multietnici, le depressioni, le bassezze, mai portate al limite (come ci si poteva aspettare da uno dei registi di Breaking Bad), nessun rimando a una lettura politica (salvo forse un Kilo Ren che declina un manifesto, oltre la destra e oltre la sinistra, per dominare l’universo), nessuna indagine sulla caduta e la redenzione, centrali nelle due trilogie precedenti. Qui anzi il tormento tra bene e male serve a costruire un colpo di scena fondamentale ma non è il cuore della storia. Anche il rapporto tra padri e figli non si scioglie e la cosa non crea grossi problemi.

Dunque gli ultimi Jedi, con le sue scene di battaglie, i suoi rimandi alla trilogia o a molto altro cinema, risulta un bel film che rinuncia a competere con la trilogia classica e così facendo ne esce rafforzato e godibilissimo.

Uscito su CulturaCommestibile n.243 del 16 dicembre 2017

Il passato del futuro

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Era il 1985 quando fu pubblicata la prima edizione italiana di Neuromante, romanzo fantascientifico di William Gibson, che l’anno prima aveva vinto il premio Hugo; il più importante premio letterario per la fantascienza. Quel volume uscito da noi nella serie oro dell’editore Nord, ha per sempre cambiato il rapporto della fantascienza con il futuro. Nel 1985 la rete, internet, era poco più di un esperimento, la globalizzazione non si sapeva cosa fosse in un mondo incardinato sul bipolarismo USA URSS e il potere dell’economia transnazionale non aveva dispiegato la sua forza. Eppure Gibson riuscì a disegnare un futuro in cui la connessione alle reti dati diventa fondamentale per la società, le multinazionali dominano la vita degli individui e l’urbanizzazione crea ammassi di città senza soluzione di continuità: lo sprawl o BAMA (asse metropolitano Boston Altanta). Certo la rappresentazione grafica del cyberspazio gibsoniano è totalmente diversa dalla normalità del nostro internet, le arcologie delle multinazionali non sono diventate la regola urbanistica (anche se certe tendenze di molte archistar hanno qualche debito con questa teoria) e soprattutto nessuna Las Vegas spaziale orbita intorno alla terra. Eppure il futuro di Gibson conteneva tante tracce del nostro presente, esasperate in un’allegoria come solo la migliore fantascienza sa fare. Per esempio l’individualismo estremizzato (Gibson scrive negli anni dell’edonismo reaganiano) e la totale assenza di ogni struttura politica o statuale ad esclusione del potere repressivo o la successione di guerre e conflitti. Gibson elabora ed esaspera, attualizza, il pessimismo di Philip K. Dick e ne riprende uno dei temi centrali di Do Androids Dream of Electric Sheep? (da cui Ridley Scott trarrà le varie versioni di Blade Runner) ovvero il rapporto tra uomo e macchina. Anzi tra uomo e intelligenza artificiale. Quelle che per Turing (omaggiato non a caso da entrambi gli autori) e la comunità scientifica sono in grado non tanto di apprendere ma di rappresentare la propria conoscenza. In parole povere di pensare, seppure in modo diverso da un essere umano (col paradosso che nessun essere umano potrà mai descrivere un modo diverso di pensare da quello con cui pensa). Ecco quel nodo e quel tema, l’interazione con Neuromante e Invernomuto o i replicanti di Dick, ci appare ancora oggi fantascientifico, irreale. Eppure anche quel futuro è molto più vicino di quello che speriamo. Software in grado di apprendere, potenze di calcolo inimmaginabili sono già oggi realtà e tutti i giorni ci sottoponiamo a test di Turing ogni qualvolta immettiamo un codice CAPTCHA (quelle combinazioni di numeri e lettere scritti strani) per accedere a servizi online e dimostrare così di non essere macchine. Insomma il futuro di Gibson rimane maledettamente attuale e la cultura pop americana continua ad interrogarsi sul rapporto tra uomo e intelligenza artificiale in un percorso che arriva fino agli Avengers che combattono Ultron in questi giorni nelle nostre sale cinematografiche, come nota Raffaele Alberto Ventura su internazionale.it, colpevole soltanto di non citare Gibson tra i riferimenti dell’ultimo blockbuster Marvel. A partire da Gibson abbiamo preso coscienza marxianamente che androidi, multinazionali e supercomputer continueranno a popolare i nostri sogni e incubi di cittadini occidentali e costituire un immaginario collettivo fondamentale in società modellate sempre più da comunità di informatici e scienziati, che prima di diventare tali, sono stati NERD divoratori di fantascienza.

Articolo apparso su www.culturacommestibile.com n.121 del 2 maggio 2015

La sporca guerra di Corea in festival a Firenze

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Con The front line anche la guerra di Corea diventa “sporca”. Infatti il film del 2011, in proiezione questa sera in anteprima italiana al Korea Film festival di Firenze, ci porta nel dramma del conflitto coreano dal punto di vista dei soldati che combatterono in trincea. Un approccio ben lontano dalla (poca) filmografia occidentale sul conflitto che troppo a ridosso della seconda guerra mondiale e troppo dentro alle dinamiche della guerra fredda non produsse né film epici né film di denuncia come sarebbe accaduto per il Vietnam. The Front Line colma questa lacuna, con un film decisamente antimilitarista in cui il messaggio sta nella frase del tenente cinico ma leale coi suoi uomini in cui il nemico non sono i comunisti ma la guerra stessa. Un punto di vista che fa ancora più effetto se proveniente da un Paese che formalmente, ma non solo, quella guerra non ha mai terminato e che vive dal 1953 con la minaccia del terzo esercito più numeroso del mondo ammassato lungo la linea smilitarizzata del 38° parallelo. Quella peraltro lungo la quale è ambientato tutto o quasi il film che narra l’assurda battaglia senza tempo per la conquista di una spoglia collina che cambia continuamente di mano.

La guerra e la sua assurdità, sono quindi al centro del film e dei suoi personaggi con un timido tentativo di umanizzare persino il nemico, fratello nella lingua e nella canzone (da cui prende il titolo il film) che i due schieramenti cantano insieme prima dell’ultima e ancor più assurda battaglia finale. Tuttavia le figure dei rossi risultano molto più stereotipate di quelle dei sudcoreani e il loro tentativi di risultare egualmente umani è probabilmente frustrato dal sentimento diffuso tra i sudcoreani e dalla continua propaganda di questi anni di armistizio. In sostanza il regista non se l’è sentita (o forse non ha semplicemente nemmeno pensato) di rendere ancora più forte il carattere di guerra civile della guerra di Corea, mantenendo sempre la distanza tra nord comunista e sud.

Continua a leggere a pagina 15 del numero 22 di Cultura Commestibile

(Il film sarà proiettato questa sera in anteprima italiana al Florence Korea Film Festival per info)

HAL era psicopatico ed ad IBM la cosa andava bene

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Per anni il regista, Kubrick, e il co-sceneggiatore e autore del romanzo da cui il film 2001 odissea nello spazio è ispirato, Arthur C. Clarke, hanno sempre affermato che fosse del tutto casuale che il nome del supercomputer dell’astronave HAL, spostando tutte le lettere che lo compongono a quella successiva, desse vita all’acronimo IBM ovvero, all’epoca, la maggiore azienda produttrice di computer.

Fan devoti e fanatici del complotto hanno sempre teorizzato che dietro a questo cambio vi fossero state pressioni da parte dell’azienda al fine di non associare il proprio nome ad un computer che, sviluppando sentimenti umani, arriva ad uccidere l’equipaggio della nave che invece dovrebbe accudire.

Leggi il seguito su Cultura Commestibile n. 16

 

Che fine ha fatto il cinepanettone?

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Il Natale è, anche un genere cinematografico. Inevitabile certo ma, per quanto riguarda il nostro Paese, piuttosto recente. In fondo Vacanze di Natale, il primo, è del 1983. Probabilmente nemmeno i fratelli Vanzina, potevano supporre che, proprio a partire da quell’occasione, sarebbe nato uno dei filoni più prolifici e contemporaneamente disprezzati, del cinema italiano: i cinepanettoni. Una miriade di Natale a Cortina, Miami, New York ed altre amene località di cui abbiamo perso il conto ma non la trama, essendo questa più o meno sempre la stessa, così come molti degli interpreti; uno su tutto l’inossidabile Cristian De Sica. Probabilmente per sadismo o cristiana espiazione, in questi giorni di festa, Sky ha dedicato al Natale un canale della sua offerta, in cui passavano, ossessivamente, queste pellicole. Ammettiamo che non siamo riusciti a guardare che pochi minuti delle varie pellicole, rimanendo però colpiti che aldilà della location e talvolta dei protagonisti, avresti potuto benissimo iniziare a seguire un Natale a Parigi, appisolarti per il troppo panettone, risvegliarti in India e proseguire la visione senza troppa difficoltà, come capita a chi per un periodo aveva una madre che seguiva Beautiful e si trova a riseguirlo causa fidanzata.

Continua a leggere l’articolo sul numero 10 di CulturaCommestibile.com

Regala il DVD del Ciuffi per Natale

da questa settimana nei negozi Coop e Ipercoop di Firenze e provincia potete trovare la video intervista realizzata da Andrea Bruno Savelli al super tifoso viola Mario Ciuffi. La vita di Mario e le stagioni della fiorentina, dal primo scudetto a Prandelli, raccontate con la simpatia e le frustate di Mario Ciuffi. I momenti più divertenti delle sue trasmissioni, come la gentile contestazione della signora Franca, rivivono insieme ad aneddoti su campioni e brocchi che hanno indossato la maglia viole.

Con la Regia di Marco Cei e la produzione di Diogene Srl un regalo tutto viola da trovare sotto l’albero.