Italiani, mica scemi di guerra

Di seguito l’articolo completo pubblicato sul Nuovo Corriere di Firenze del 24 marzo 2011.

Quando era presidente Massimo D’Alema e l’Italia era impegnata sopra i cieli del Kossovo fu coniata l’espressione di difesa attiva, che faceva capire che i nostri aerei partecipavano ai bombardamenti ma in modo diverso a quello di altri Paesi. Con Berlusconi presidente si abbandonano i sofismi della lingua politica e si proclama un più spiccio “i nostri aerei sorvolano la Libia ma non bombardano”. In entrambi i casi sono parole che pesano, sia internamente che nei rapporti internazionali. All’interno suonano ipocrite, mistificatorie, e sicuramente ingenerose per quei professionisti che stanno rischiando la vita sopra i cieli di Tripoli mentre i loro connazionali si convincono che siano lì per voli di piacere. Una posizione che, peraltro, convince pochi, forse solo quel parlamentare PD che nei mesi della finanziaria chiedeva sul proprio profilo facebook di togliere soldi all’acquisto di aerei militari per destinarli alla scuola e poi nei giorni scorsi reclamava a gran voce, sulla solita pagina, l’avvio della no-fly zone. Sono parole che hanno a che fare con la costituzione materiale e formale del Paese. Dal punto di vista formale sono meccanismi che allontanano le decisioni del Parlamento e danno quasi carta bianca all’esecutivo non solo nella condotta delle azioni militari, che è sacrosanto, ma anche della loro legittimazione, dei confini e dei compiti di quell’azione stessa. Dicendo che non siamo in guerra o coinvolti in azioni militari dirette l’esecutivo scansa il dibattito parlamentare e si riserva aree in cui muoversi. Un meccanismo che esiste in altri ordinamenti, quello americano per esempio, dove il Presidente ha il potere di agire ma all’interno di meccanismi di controllo certi e per un periodo di tempo breve e limitato: poi deve comunque rendere conto al parlamento. Da noi, no. E il modo che il Parlamento ha per mettere bocca nelle “missioni di Pace” è quasi esclusivamente quello del finanziamento delle missioni stesse. Basti pensare che al momento i nostri aerei sorvolano un Paese formalmente a noi alleato in virtù di un vergognoso trattato di amicizia, non ancora sospeso o cancellato, di cui si preferisce non parlare visto che fu votato da tutti con l’eccezione di Radicali, UdC e due deputati PD. L’altro punto ha a che fare con la retorica di pace e col profondo sentimento “pacifista” che pervade l’opinione pubblica italiana, ed è qui che la cosa, a parere di chi scrive, si fa ancora più ipocrita. Io rispetto i pacifisti convinti e integrali, apprezzo meno chi impegna i propri soldati in missioni internazionali e poi le definisce missioni di pace, si fa bello in tv del fatto che i propri aerei sorvolano il campo nemico privi di armi come in Afghanistan (con peraltro un evidente controsenso economico visto quanto costa mantenere mezzi come quelli). L’Italia partecipa attualmente a missioni importanti e pericolose. I suoi soldati muoiono, il suo strumento militare è, con difficoltà, messo in grado di operare alla pari con quello degli altri paesi occidentali, i nostri militari partecipano e sono apprezzati dagli alleati, comandano altri contingenti eppure qua da noi continuano a essere dipinti come crocerossine col fucile. Una retorica che influisce anche nel ruolo internazionale del Paese e ne rende deboli, come accade in queste ore, le richieste di contare di più nella definizione di compiti e strategie degli interventi. Si ha un bel dire di voler dire la propria solo mettendo a disposizione la retrovia mentre sono gli altri a rischiare la pelle. Quello che accade in Libia in queste ore non è una scampagnata. Se si pensa, ed io lo penso, che fosse giusto e necessario intervenire militarmente si abbia il coraggio di dirlo e di rivendicarlo, si dia innanzitutto al Parlamento la possibilità di discuterne pubblicamente e con trasparenza e si dia ai cittadini la possibilità di conoscere e decidere.

Buon Compleanno Italia

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 marzo 2011

Evviva l’Italia. Quella Liberata, quella da liberare. Evviva il nostro Paese, che indice una festa e ci mette tre mesi per decidere se di festa vera si tratti o di mera sottolineatura del calendario. Evviva il Paese che, come per i còrsi in Francia o i baschi in Spagna, quando suona l’inno vede i rappresentanti di quei territori uscire dalle aule. Peccato però che non stiano al governo e non esprimano il ministro dell’Interno. Evviva gli stessi ministri leghisti che come Moretti in Ecce Bombo s’interrogano se si notano di più se vanno o se non vanno alle celebrazioni di questo pomeriggio in parlamento. Evviva Silvio che fu ferito come Garibaldi. Evviva il suo cerottone-lenzuolo degno di un martire risorgimentale. Evviva pure il dibattito sul nucleare, quello sulla giustizia, quello sulla bioetica, il testamento biologico, l’aborto, le canne, la pena di morte e tutto quello di cui si dibatte e di cui poco si fa.  Evviva il Paese che evade e quello che produce pagando le tasse. Evviva un Paese che al contrario di tutto e di tutti rimane una delle sette potenze economiche del mondo. Evviva il vincolo esterno per abbassare il rapporto debito Pil. Evviva un paese litigioso, ingegnoso, pieno di umanità e retorica. Evviva i tanti tricolori alle finestre, e quelli agli occhielli delle giacche di ex extraparlamentari di sinistra che trent’anni fa gridavano “uno, cento, mille, Vietnam”. Evviva l’Italia che si celebra e non ricorda, che rimuove il proprio passato coloniale, il ventennio fascista, che rimpiange la DC (anche in quelli che sempre trent’anni fa le auguravano diossina), che fa sfoggio di passato e poi nell’occasione del 150° non apre nessuna seria riflessione storica sul proprio passato e la propria identità. L’Italia dei Santi e soprattutto dei santini,  quella che anche quando prega si affida all’intermediario piuttosto che al diretto interessato. Evviva un Paese anziano che però parla e mostra sempre giovani belli atletici e perfetti. Evviva i cervelli in fuga e quelli che, nonostante tutto, restano. Evviva l’Italia e soprattutto viva gli italiani.

Cultura Commestibile n.6

Anche quella “scoreggia nello spazio” (come lo definì il suo amico Umberto Bossi) del Professor Miglio festeggia l’unità di Italia nel numero di domani di Cultura Commestibile.

Domani in edicola col Nuovo Corriere a Firenze, Prato, Lucca, Versilia e Arezzo.

Ciclamini non mimose

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 10 marzo 2011.

Di dignità delle donne nel nostro Paese si è parlato a lungo in queste settimane. Lo si è fatto a partire dalle note vicende delle feste di Arcore e dei comportamenti, non certo specchiati, del nostro Presidente del Consiglio, intanto a poche centinaia di chilometri la speranza di dare, finalmente, dignità alle donne d’Egitto veniva vanificata e diventava la prima (temiamo non l’unica) vittima delle Rivoluzioni dei ciclamini. Intanto la commissione che dovrà definire la nuova Costituzione egiziana non ha al suo interno nemmeno una donna. E pare già un fatto grave, almeno a chi scrive. Poi ieri, non a caso l’8 marzo, la manifestazione delle donne egiziane è stata un insuccesso. Per due motivi uguali e contrari. Intanto in quella piazza, diventata famosa nelle scorse settimane, si sono riversate poche migliaia di donne mentre la maggior parte anche di quelle che erano scese in piazza contro il tiranno Mubarak è rimasta a casa, dove gli uomini, novelli rivoluzionari, le hanno “consigliate” o obbligate a restare. Eccolo dunque il secondo fallimento, molti degli uomini che erano scesi (a fianco di tante donne) per chiedere libertà, hanno replicato all’istanza di libertà femminile che “non è questo il momento”, rispondendo alla domanda delle donne italiane “se non ora quando?”: non ora, non qui. Ecco forse una “cacelorada” per le donne egiziane sarebbe da inserire nell’agenda delle mobilitazioni permanenti e servirebbe a manifestare oltre solidarietà a quelle donne, un opinione pubblica sensibile che preme verso le cancellerie europee. Non tanto per smuovere l’impassibile Frattini, troppo occupato a chiedersi perché la riforma tribale di Gheddafi non abbia convinto i libici, ma magari quella Clinton e quella Merkel a cui servirebbe ricordare le proprie storie e le proprie battaglie di genere al fine di far prevalere, almeno un poco, le idealità rispetto alla ragion di Stato.

Subalterni e contenti

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 3 marzo 2011.

La rivoluzione si sa, non è un pranzo di gala. Nemmeno quella, col sorriso, di Matteo Renzi a Firenze sfugge a questa regola, e se uno dei tratti più innovativi del nuovo corso è la messa in discussione delle vecchie liturgie dei partiti e delle istituzioni e un riacquistato rapporto diretto tra governati e governante, questo a giudizio di molti osservatori è avvenuto a spese dei partiti e delle istituzioni quali giunta e consiglio. Così assistiamo, aldilà della promessa elettorale, a una giunta di facce nuove sì ma incompleta da quasi un anno di un membro (peraltro di genere femminile) per l’avvenuta promozione dell’assessora Scaletti (IdV) al soglio regionale. Un anno è un tempo che, nella vecchia politica, sarebbe stato impensabile, oggi appare naturale, e nemmeno il partito “sacrificato” sbraita più di tanto e si accontenta di annunci di rimpasto fatti dal sindaco che assomigliano alla Tempesta di Shakespeare, di cui in tutto il dramma si parla ma in scena mai si vede.

Non appare difficile dunque che David Allegranti possa, nel suo bel libro su Renzi, descrivere un quadro della giunta (e più in generale del renzismo) fatto di Matteo Renzi e di consiglieri fedeli posizionati principalmente al di fuori dalle istituzioni e dai gruppi dirigenti dei partiti, e dunque se non sorprende che qualcuno possa essersi risentito di questa analisi, questi ultimi abbiano però confuso il cronista con l’agente.

Altra rottura della liturgia istituzionale appare anche la recente vicenda della presidenza del consiglio comunale che, dopo la nomina di Eugenio Giani a consigliere regionale, presenta un caso di triplo incarico per lo stesso: presidente del consiglio comunale, consigliere comunale e consigliere regionale.

Seppur disponibile a lasciare il primo dei tre incarichi, Giani, ha rimesso tale decisione alla volontà del Sindaco il quale  pare abbia rinviato il tutto al solito rimpasto.  Un mix di stili politici vecchi e nuovi che, a modesto parere di chi scrive, indebolisce ancor di più il consiglio comunale e rafforza l’immagine di subalternità di questo non più rispetto ai partiti ma al sindaco stesso. Si badi bene è un modello, che deriva dalla legge elettorale, che Renzi sfrutta benissimo ma che certo non è sua invenzione.

Questo però avviene anche perché, evidentemente, al consiglio (e in particolare ai consiglieri di maggioranza) tutto ciò alla fin fine sta bene, perché nel caso dei comuni essi avrebbero non solo la sovranità formale ma anche quella sostanziale essendo eletti con le preferenze e non nominati come, per esempio, i loro colleghi regionali.  Un tema che sarà bene che si tenga a mente quando si riproporrà la cosiddetta frustrazione dei consiglieri rispetto all’esecutivo.

Un rapporto che non regge

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 24 febbraio 2011.

Colpiscono, nell’ennesima puntata della collocazione della pista di Peretola, i modi e i toni usati per “sollevare” il problema. Sul merito non ci addentriamo, conoscendo poco o punto, l’iter e gli atti del Pit della Regione Toscana. Ci par di capire che la Regione avesse poco da dire se le compatibilità urbanistiche della pista parallela fossero tali. In fondo il piano regionale non è lo strumento che decide la collocazione ma, appunto, ne misura le compatibilità e le coerenze. Quello che stupisce, allora, è la modalità con la quale amministratori seri e non inclini a colpi di teatro hanno deciso di scatenare una polemica mediatica e politica di cui certo conoscevano le ricadute e il clamore.

Se, dunque, sono arrivati fino a quel punto, pare significare che un modello di rapporti istituzionali, politici e partitici (visto che tutti o quasi gli attori coinvolti militano nel PD) non solo non regge più ma produce danni.

Dall’esterno sembra che ci troviamo nell’ennesimo portato di una politica tutta votata all’annuncio, alla spettacolarizzazione dell’atto, alla consegna alla stampa prima che agli attori delle decisioni. Un ennesima degenerazione di un modello che è indubbiamente positivo, quello cioè di uscire dal ristretto ambito degli addetti ai lavori e di fornire ai cittadini tutti i risultati del confronto e delle decisioni politiche. Ma è un metodo che funziona solo in due scenari, uno antitetico all’altro. O c’è un uomo solo al comando, capace per carisma, competenze, mediaticità, di essere l’unico soggetto sulla scena, di rispondere anche sprezzantemente alla critica, volendo di infischiarsene; oppure c’è un modello che costruisce pazientemente rapporti, che moltiplica le occasioni di confronto. Che non esclude la conferenza stampa ma la precede da un incontro coi soggetti in campo. Li fa sentire importanti e partecipi. Che coinvolge i cosiddetti soggetti della rappresentanza (in primis i partiti) non solo come mantra retorico alle assemblee ma li dota di strumenti, capacità e uomini in grado di svolgere il ruolo di mediazione o al limite d’informazione. Non si tratta di complicare i percorsi decisionali, di togliere potere alle istituzioni (sarebbe come scavare il petrolio col cucchiaio) ma, per esempio, di calibrare un nuovo ruolo ai partiti, di soggetti portatori almeno di informazioni, capaci di organizzare (perché ne hanno mandato e informazioni) le riunioni prima e non dopo.

Infine la reazione dei sindaci è una reazione forte perché sanno che gli strumenti con cui condividere le scelte urbanistiche sono pochi e in questo scontano anche responsabilità proprie. In altre stagioni, dove le divergenze e le difformità erano assenti o minori, troppo poco si è fatto per arrivare a un governo urbanistico comune della piana. Cedere la sovranità su un ambito come quello urbanistico non è affar semplice, bisogna dirlo, ma pensare di aver sviluppato ognuno per conto proprio, e talvolta apparentemente l’uno contro l’altro, in tutti questi anni quel territorio senza che questo metodo un giorno potesse chiedere il conto è un limite di miopia che oggi probabilmente pesa.

Quel che resta della Piazza


Dal Nuovo Corriere di Firenze del 17 febbraio 2011

Che c’entrasse poco con la dignità (in generale) delle donne, la manifestazione di domenica, lo han detto altre e altri ben più bravi di me. Che c’entrasse ancor meno col precetto rabbinico da cui prese ispirazione Primo Levi per il titolo della sua ultima opera e da cui il titolo, se non ora quando?, della manifestazione è anch’esso noto. Tuttavia le piazze di domenica sono state un indubbio successo politico da non sottovalutare né da archiviare in fretta proprio per il loro significato politico antiberlusconiano. Intanto perché mostrano limiti e potenzialità di una opposizione politica che, forse, potrebbe in caso di elezioni diventare un eterogenea ma possibile maggioranza parlamentare.

E’ vero, come scrive un amico, che nessuna opposizione ha mai vinto con una manifestazione ma nessuna ha mai vinto senza, per cui quello che è sceso in piazza sabato è qualcosa di più di un corteo. E’ un popolo disponibile, direbbero i dottori della politica, alla grande alleanza dalemiana, no è il popolo del Tutto tranne Berlusconi ribatterebbe Ferrara. Di sicuro è una parte della popolazione italiana che è stufa di Berlusconi in quanto tale e che alla fine di quest’ultimo subordina qualsiasi cosa.

Il che è giustificabile in una folla un po’ meno in un partito politico. Lo sa bene il PD, che per la prima volta vede intorno a sé condizioni politiche a lui favorevoli. Intanto Di Pietro incapace di riprendersi da Scilipoti, chiuso in un angolo, coi consensi erosi da SEL e umori intercettati dalla società civile del Palasharp, poi Vendola e i competitor interni che l’accelerazione della crisi potrebbe mettere fuori gioco, così come le primarie (interne o di coalizione) che il precipitare degli eventi metterebbe gioco forza in naftalina, consentendo a buona parte del gruppo dirigente nazionale (in special modo quello di seconda fascia) di sopravvivere un’altra legislatura.

Un PD che è stato sicuramente essenziale nella manifestazione di domenica ma che deve fare i conti con un successo che è solo in parte suo, che fa intravedere (ancora una volta) il rischio di un partito portatore d’acqua a una guida esterna, sia essa Casini o il papa nero di Largo Fochetti.

Bersani questo lo sa e ha provato a trarvi rimedio. Intanto mettendo in campo una proposta politica economica con le 41 liberalizzazioni. A parte una scarsa capacità di comunicazione con le 41 proposte che in realtà sono 34 in attesa delle altre 7 (eppure bastava chiedere da queste parti come si fa a moltiplicare i punti di programma) e qualche scarso coraggio (si parla blandamente di riformare gli ordini professionali) hanno il merito di rispondere a chi dice che il PD non ha un idea.

Il bivio però che il PD ha di fronte è se cavalcare la protesta da CLN, come proponeva ieri Veltroni con l’idea di una manifestazione con le sole bandiere italiane, oppure provare a dare gambe e proposte politiche a questo movimento. Inutile dire quale preferisca chi scrive, anche se non si nasconde il rischio di perdere non poca di quella spontaneità che domenica era in piazza. Ma l’idea che, una volta sgomberato il campo da Berlusconi, tra le macerie il centrosinistra non abbia la minima idea di cosa fare e passi il tempo a litigare è una paura ben più grande.