Solo l’uomo uccide i suoi cuccioli

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 22 marzo 2012.

Se le notizie che arrivano da Tolosa mentre scrivo saranno confermate pare che la strage compiuta di fronte a una scuola di quella città sia opera di un fanatico jihadista per vendicare i bambini palestinesi. Una disumana legge del taglione che mostra quanto l’uomo differisca (in peggio) dalle bestie a cui millenni di antropologia ci fanno appoggiare per narrare il male che ci circonda, dal Minotauro a Cappuccetto Rosso.

I naturalisti ci spiegano infatti che il senso di naturale affetto che ci viene guardando un cucciolo di quasi tutte le specie animali è un prodotto della selezione naturale per garantire la continuità della specie e la sopravvivenza dei piccoli in situazioni di pericolo.

L’uomo (quasi mai la bestia) in nome del proprio delirio e fanatismo rompe anche questa regola della natura, riuscendo ad uccidere i suoi cuccioli, indifesi per natura e lo fa, in questo caso, per una supposta vendetta nei confronti di altri bambini e per di più in nome di una divinità che dovrebbe aiutarci ad affrontare la nostra esperienza terrestre in vista della morte e di quello che potrebbe esserci dopo.

Il fanatico in questo caso fa poi coincidere, come tanta parte di noi purtroppo, uno Stato, certo fortemente radicato di religiosità e fede, con una religione e una comunità di fedeli, vedendo in ogni ebreo la continuazione di Israele inteso come le scelte di uno Stato sovrano.

E’ questa identità che muove razzismi più o meno inconsapevoli, e che certo trova un qualche fondamento nello Stato e nelle isitituzioni israeliane; che pesa ormai sulle discussioni e sul nostro atteggiamento nei riguardi della fede ebraica. Non voglio certo dire che è lo stesso meccanismo che muove la mano del fanatico, non si provi nessuno nemmeno a pensarlo; ma è un meccanismo che ci crea imbarazzo, ci mette di fronte a tragedie come queste con un carico emotivo diverso. Non è un caso che la prima reazione sia quella di cercare nel neonazismo il colpevole, è un modo per trovare un nemico talmente grande (e su cui abbiamo tanto senso di colpa come europei) che, da solo, ci impedisce di pensare a ebrei uguale israeliani. Finché non supereremo la dicotomia ebrei o come vittime del nazismo ovvero come israeliani qualunque discorso pubblico sull’ebraismo e persino sulla politica israeliana (fosse anche per criticarla fortemente) sarà monco e distorto.

Possiamo dare una mano al Nuovo Corriere?

Chi segue questo blog sa che quasi tutto il materiale che viene pubblicato qui ha una sua vita cartacea sulla prima pagina de il Nuovo Corriere di Firenze.

Oltre a quanto leggete qui, da un anno, il sabato insieme ad altri amici facciamo uscire, sempre sul Nuovo Corriere, un inserto culturale, Cultura Commestibile, che a noi e a diversi lettori piace molto.

Domani il Nuovo Corriere non sarà in edicola. I suoi giornalisti e i suoi poligrafici, cioè tutti quelli che il giornale lo fanno e consentono ai rompipalle come me di poter scrivere, sono in sciopero dopo che la proprietà ha proposto un piano di ristrutturazione a dir poco drastico.

Qui trovate il comunicato con cui indicono lo sciopero e questa mattina hanno promosso un’assemblea e una conferenza stampa per spiegare le loro ragioni.

Sono momenti difficili per tutta la stampa: oggi pare che chiuda anche il Riformista. Non so cosa si possa fare, a parte stare vicini a quelli che rischiano seriamente il proprio posto di lavoro. Ma se avete qualche idea, qualche soldo da investire, forse potrebbe essere il momento giusto.

 

Quando i diritti valgono una vita

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 15/03/2012

A dar retta a quanto scrive sabato scorso il Foglio (giornale da sempre attento al mondo dei servizi d’informazione italiani), dietro alla mancata chiamata da parte inglese circa il raid fallito per liberare un ostaggio britannico e uno italiano in Nigeria ci sarebbe stata la questione del sequestro di Abu Omar.

Racconta infatti una fonte dei servizi al giornale di Ferrara che, dopo quella vicenda, cioè il fatto che la magistratura italiana ha fatto un processo per il rapimento da parte di agenti americani di un cittadino sul suolo italiano con l’aiuto dei servizi italiani, i servizi anglo americani si fidano molto meno di noi.

Va fatta qui un’avvertenza di metodo. Al Foglio collabora da tempo, tra gli altri, Pio Pompa, ex barba finta, che fu implicato in quel processo e si può supporre che ci sia una certa benevolenza per la tesi che la non collaborazione in quella “extraordinary rendition” abbia comportato una perdita di peso dei nostri servizi; anche perché altri paesi hanno istituito analoghi processi per quei sequestri avvenuti un po’ in tutto il mondo in barba al diritto e ai diritti umani spesso.

Tuttavia volendo prendere per buona la tesi dello spione fonte de il Foglio, si apre un’interessante quesito sulle priorità di una democrazia e di una società: il valore dei nostri diritti, persino dei diritti di un uomo sospettato di terrorismo, valgono la vita di un nostro cooperante che si troverà rapito da un gruppo terroristico?

Qualcuno potrà dire che il nesso è forzato. In parte è vero, ma si tratta di ragionale aldilà del singolo caso, del particolare. Cercando di tenere insieme le due cose, facendo qualcosa di più dell’indignarsi di fronte al fatto che un alleato non ti abbia fatto sapere che sta per tentare un blitz, risolto purtroppo nel peggiore dei modi per gli ostaggi, o dello sfruttare polemicamente la perdita di peso del nostro governo nel mondo.

Perché se i britannici non ci hanno avvertito, come scrive il Foglio, in quanto abbiamo processato chi ha rapito illegalmente un cittadino nel centro di Milano, beh io personalmente posso anche andarne fiero.

Bisogna saper perdere

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 8 marzo 2012.

Tra le tante canzoni di Lucio Dalla ricordate dopo la sua scomparsa, una, è stata considerata molto poco: Bisogna saper perdere, cantata al festival di Sanremo del 1967 con i Rokes. Canzone che, evidentemente, non sta nelle playlist degli esponenti siciliani di SEL e IDV.

Infatti dopo l’esito delle primarie di Palermo prima Claudio Fava, poi Leoluca Orlando e infine la stessa Rita Borsellino tutto hanno fatto tranne che dimostrare di saper accettare un esito di una competizione elettorale che, fin dalla sua genesi, presentava tutti quegli elementi che portano oggi a dire che non è possibile dichiarare Ferrandelli vincitore.

Perché che le primarie siano molto più facili da “manipolare” o che non presentino elementi di garanzia pari a quelli delle elezioni regolari non è una cosa che si impari nella notte tra domenica e lunedì. E che Palermo sia città dalle evidenti opacità non è affare che si scopre solo ora, anzi il buon Orlando su questo ci ha costruito tre quarti della sua carriera politica.

Dunque appaiono pretestuosi, ineleganti e politicamente devastanti gli appelli e i ricorsi contro il voto di domenica( a cui naturalmente non si fanno mancare una bella inchiesta della procura palermitana di cui difficilmente si riesce a capire le ipotesi di reato);  e qualcosa di simile ad un suicidio politico l’ipotesi di Orlando di candidarsi comunque contro il vincitore delle primarie di domenica scorsa.

Un regalo incredibile per il centrodestra che rischia di portare a casa la città dopo gli anni di malgoverno dell’attuale amministrazione e che pagherà anche l’incolpevole (solo in questa fase della vicenda) PD.

Certo anche il vincitore delle primarie ci mette del suo a farsi non amare se nelle prime interviste post primarie si dice contento per poter “agguantare” la poltrona di Cammarata.

Il pane della domenica

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 1 marzo 2012.

Da buon liberale quando ho sentito Monti affermare che, col suo governo, i fornai avrebbero potuto fare il pane di domenica sono sobbalzato. Ma perché, mi son chiesto, lo Stato si impiccia se il mio fornaio ha voglia di svegliarsi alle 4 anche di sabato per farmi avere la pagnotta calda anche per il desco domenicale (facendomela pagare tra l’altro non poco)?  Poi però, un altro pensiero mi è sovvenuto: ma io sono anni che compro il pane fresco la domenica!

Così mi sono messo a capire se il mio fornaio di fiducia stesse attuando una forma di disobbedienza civile liberale o se agisse nel rispetto della normativa e ho scoperto che era buona la seconda. Infatti la Regione Toscana nel maggio dello scorso anno, con apposita legge (la 18 del 2011) ha disciplinato il settore della pianificazione e ha concesso, all’art. 4, ai comuni la potestà di far aprire o meno i fornai di domenica.

Certo la formula dell’articolo è un po’ complessa e consente ai comuni l’apertura “per rilevanti esigenze di servizi alla collettività” che, evidentemente, i comuni non interpretano come carestie o sommosse, ma con la semplice volontà dell’esercente di offrire un servizio anche alla domenica, interpretazione che finora non ha fatto sobbalzare sulla sedia la Regione.

La data del provvedimento non è banale. Erano vive, nel maggio scorso, le polemiche tra Rossi e Renzi sulle aperture festive e domenicali e le prese di posizioni di sindacati e cooperazione sul tema. Polemiche riprese e rinfocolate dal presidente della Regione e dagli stessi sindacati, compreso ricorso alla Corte Costituzionale, proprio sul tema delle aperture degli esercizi commerciali varate dal governo Monti. Aperture che contrastano coi diritti dei lavoratori se vendono alimentari o vestiti, mentre servono la causa del popolo se producono il pane per le masse?

La domanda allora sorge spontanea ci sono orwellianamente esercizi commerciali un po’ più esercizi di altri?

Bomba o non bomba, gli israeliani arriveranno a Teheran.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 23 febbraio 2012.

Nella quasi totale indifferenza dell’occidente e del nostro Paese in particolare (con la lodevole eccezione de il Foglio) nel vicino oriente si sta per scatenare una guerra dagli sviluppi imprevedibili e sicuramente non piacevoli. Certo la crisi, la Grecia da salvare, persino la biancheria intima di Belen appaiono argomenti più pressanti del conflitto che potrebbe vedere coinvolto Israele e Iran e veder scivolare nello stesso la Siria e a catena, l’intero medio oriente.

Ormai appare chiaro infatti che Israele ritiene l’opzione militare per bloccare il programma nucleare iraniano ogni giorno che passa come l’unica strada di fronte, per l’appunto, a un occidente troppo impegnato in altre faccende ed in particolare agli Stati Uniti impegnati nella campagna elettorale presidenziale. Non è un mistero poi che Israele, con molti torti e qualche ragione, non abbia mai visto in Barack Obama un difensore senza se e senza ma delle ragioni israeliane.

La sensazione di isolamento di Israele, già molto presente nella cultura israeliana, ha raggiunto quindi vette elevatissime in questi mesi ed è difficilmente immaginabile per noi, abituati alla pace, comprendere cosa sia vivere in uno Stato che dalla sua nascita non ha mai conosciuto un giorno di Pace e vive sotto la costante minaccia di attentati e attacchi missilistici. Gli analisti israeliani contano circa 20.000 missili puntati sul paese, tra quelli di Hezbollah, Jihad islamica, Iran e Siria. Tutti soggetti che probabilmente guiderebbero la reazione ad un eventuale attacco preventivo israeliano alle infrastrutture nucleari iraniane. Per questo la popolazione israeliana si sta attrezzando con esercitazioni (soprattutto contro armi chimiche e bombe sporche) e  distribuzione di nuove maschere antigas.

Nonostante questa minaccia l’establishment israeliano continua a considerare l’opzione militare preventiva come meno rischiosa di un minaccia nucleare iraniana che darebbe il via, secondo gli analisti israeliani, a una escalation nell’intera regione per dotare di armi nucleare l’Arabia Saudita e l’Egitto.

L’occidente ha chiesto tempo a Israele per risolvere pacificamente la questione e Israele sinora ha atteso. Certo non è stata con le mani in mano, compiendo sabotaggi e omicidi mirati che hanno rallentato (ma non bloccato) il programma iraniano. In questi mesi è infatti in corso una guerra di spie tra Tel Aviv, Teheran e l’Azerbaigian, alleato di Israele, e porta di ingresso per le operazioni del Mossad in Persia. Tuttavia la pazienza israeliana pare essere arrivata al limite visto anche l’atteggiamento USA molto più sensibile al blocco dello stretto di Hormuz che ai missili puntati su Tel Aviv.

L’occidente ha sottovalutato la cultura “guerriera” israeliana pensando che la progressiva laicizzazione israeliana e il miracolo economico in corso nel Paese avesse reso meno guerrafondaia la società israeliana e molto più interdipendente con l’occidente l’economia israeliana e dunque più “vincolata” alle scelte occidentali la politica di Tel Aviv. Hanno però dimenticato che Israele è sempre più interdipendente, economicamente,salvo nel settore della Difesa dove è in grado oggi, molto più di ieri, di fare da solo. L’altra sottovalutazione è stata quella della progressiva radicalizzazione dell’esercito israeliano: i giovani israeliani hanno preferito negli ultimi anni dedicarsi allo studio e all’economia, lasciando nell’esercito in larghissima parte ebrei ortodossi che stanno scalando le carriere militari (in Israele non esiste una vera e propria scuola ufficiali e questi ultimi sono reclutati dai più “capaci” tra i coscritti) giungendo ormai ai vertici delle catene di comando e portando il loro “furore” nei quartieri generali.

Questi elementi, oltre alla storia e alla cultura israeliana, rendono altamente probabile il conflitto e secondo molte fonti, la primavera di questo anno sarebbe il limite ultimo prima che Teheran sia in grado di produrre, da solo, la bomba atomica.

Cosa interessa a noi italiani di tutto cio? Beh innanzitutto abbiamo qualche migliaio di soldati al confine tra Libano e Israele, proprio sulla traiettoria dei missili di Hezbollah, poi siamo il primo partner commerciale  europeo dell’Iran ed il terzo mondiale e importiamo larga parte del nostro petrolio proprio dall’Iran, dato che in questi anni, nonostante le sanzioni e il clima montante, a differenza di Francia e Gran Bretagna non abbiamo interrotto i rapporti con il regime iraniano. Già oggi la benzina sfiora i due Euro, non oso pensare dove possa arrivare in caso di conflitto.  Ultimo punto, seppur molto improbabile, Theran è in possesso di missili in grado di raggiungere la parte meridionale del Paese.  Mi pare ci siano i motivi per occuparsene, almeno prima della farfallina di Belen.

 twitter @michemorr

Perchè Sanremo è Sanremo.

 

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 16 febbraio 2012.

L’immagine di un Paese la si coglie anche nelle sue manifestazioni, nel suo apparire. In questo senso il Festival di Sanremo è stato per lungo tempo l’immagine dell’Italia democristiana e rassicurante. Non certo uno spaccato sociologico del Paese, piuttosto una rappresentazione scenica di quello che, la classe dirigente italiana al potere, avrebbe voluto che il Paese fosse. Retorica, buoni sentimenti, poca politica, un po’ di impegno sociale e qualche guitto (cantante o ospite) a far divertire sovrani e popolo. Dunque una celebrazione di un modello piuttosto che una fotografia dell’Italia che cambia. Se dunque questo era il tema e lo scopo del festiva dei fiori, la prima puntata andata in onda martedì, preoccupa alquanto. Televisivamente parlando uno spettacolo senza tempi, senza professionalità, con microfoni aperti sempre troppo presto e chiusi troppo tardi, vallette di rimpiazzo più fuori luogo del solito e una scrittura che tendeva al turpiloquio e all’eccesso (inteso come troppo parlare) anche senza l’intervento di Celentanoo l’incapacità di votare le canzoni che poi dovrebbe essere il cuore della manifestazione. Per non parlare delle canzoni stesse. Aldilà dei gusti personali e musicali, non c’era un testo non dico votato all’ottimismo ma almeno una vecchia rima cuore, sole, amore. Crisi, disoccupazione, Spiritualità, Dio e religione tanto per citare qualche tema comune a molti cantanti. Nemmeno si fosse al Tenco, piuttosto che a Sanremo. Inutile parlare di Celentano e il suo sermone, come notava Massimo Bordin, trattandosi di deliri non vale nemmeno la pena commentarli.

 

L’olimpiade romana

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 9 febbraio 2012.

Dubitiamo sinceramente che per scaldare il cuore di Monti, affinché appoggi la candidatura alle Olimpiadi di Roma del 2020, l’appello degli sportivi italiani sia la mossa giusta. Nella costruzione dell’immagine rassicurante del professore che si prende cura del Paese ci è stato fornita ogni tipo di informazione su Monti, la sua famiglia, i suoi gusti; persino quelli alimentari e in quali negozi si rifornisca la signora Monti per il cenone di Capodanno. Dei gusti sportivi invece sappiamo molto poco, solo, per esempio, che sia “moderatamente” rossonero.  Tuttavia aldilà di appelli e interessi del mondo sportivo (e imprenditoriale) il tema delle Olimpiadi a Roma può essere una cartina di tornasole di questo Paese e della sua (in)capacità di programmarsi e pensarsi. Certo nei giorni in cui la capitale è stata messa in ginocchio da una nevicata (dopo esserlo stata per un nubifragio) e in cui il Paese discute se riuscirà o meno ad evitare il default ed uscire da una crisi sistemica, il dibattito potrebbe anche non iniziare. Se proviamo ad astrarci però possiamo considerare l’evento Olimpico (come i grandi eventi sportivi) come un motore di sviluppo e un motivatore di cambiamenti incredibile. Negli anni novanta, nella stagione della pianificazione strategica degli enti locali, la finalizzazione di una trasformazione, della vocazione e della struttura di una città, veniva aiutata dall’obbiettivo di una grande occasione sportiva. Il caso di Torino e le sue olimpiadi invernali è il massimo esempio di questa stagione. Una città che si scopre post-industriale e ripensa sé stessa e finalizza la sua trasformazione prima all’aggiudicarsi, poi a gestire giochi i olimpici e le trasformazioni successive a questi. Ecco perché Manchester, impossibilitata a richiedere olimpiadi, fece di tutto per ospitare almeno i giochi del Commonwealth. Dunque più che l’investimento economico e urbanistico immediato i giochi erano pensati come occasione di investimento culturale, sociale e amministrativo. Giochi che quindi celebrano un Paese e una città che sono stati in grado di pensarsi, trasformarsi e gestirsi. Come sarà per Londra alla fine del decennio della cool Britannia o ancor di più per il Brasile potenza economica mondiale. Altrimenti risultano essere un disastro e non è un caso se nella periodizzazione del declino greco quasi tutti gli osservatori datino l’inizio della fine proprio con le Olimpiadi ad Atene. Il punto che dovrebbe farci considerare dunque l’olimpiade di Roma è  se questo Paese non sia soltanto in grado di costruire faraoinici impianti sportivi ma anche di costruire un futuro a sé stesso, in cui aldilà di quello che raccontava De Coubertin l’importante non è tanto partecipare, ma vincere.

Come la neve fa cantare Renzi fuori dal coro della comunicazione

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 2 febbraio 2012.

Alla fine la neve è arrivata. Poca o tanta dipende da quale prospettiva la si guardi: seguendo la nevicata sui social media pareva che fosse in corso una “tormenta” (come twittava un autorevole amministratore cittadino), con stoici inviati di testate importanti costretti ad una notte in bianco per seguire i lavori di pulitura strade. A guardarla dalla finestra di casa ci pareva una nevicata come ne capita ogni tanto d’inverno. Detto questo va premesso che la macchina del Comune e della protezione civile ha consentito di minimizzare i disagi e liberato le strade garantendo la viabilità verso scuole e luoghi di lavoro, in città ma anche nell’hinterland. Quello che però interessa qui è la gestione della comunicazione dell’evento, con la creazione e l’amplificazione di un effetto “ansia” già presente dopo la nevicata di due anni fa e il disastro organizzativo di quell’evento. Certo a muovere gli amministratori pubblici c’era quel principio di precauzione che declinato alla fiorentina recita più o meno “meglio aver paura che buscarne”, più che comprensibile certo ma che riflette, almeno nel caso del primo cittadino fiorentino, anche un modello comunicativo fatto di enfasi, sovrapposizione tra comunicazione personale e comunicazione istituzionale e sovraesposizione di messaggi e informazioni, effimere o per la natura del media da cui si lanciano o per la durata del messaggio prima che ne arrivi un altro. Non sta a noi dire se questo tipo di comunicazione sia o meno efficace (dipende molto dallo scopo naturalmente)  ma ci pare utile sottolinearne la differenza rispetto a un modello comunicativo nazionale che, negli ultimi mesi, è profondamente cambiato. Insomma non sono più i mesi (e gli anni) di Berlusconi con la sua roboante presenza e ingombranza, tempi in cui Renzi pareva l’unico del centrosinistra a cantare intonato al mainstream comunicativo plasmato dal Cavaliere. Nell’era della sobrietà di Monti, l’effetto è quello di una voce dissonante (non per questo sia chiaro meno affascinante). Monti non sovrappone la propria comunicazione personale (anzi  non ne ha proprio) con quella del governo. Non ha account twitter o facebook, parla attraverso i canali istituzionali o in conferenze stampa fiume che hanno l’aspetto (e il rigore) di lezioni universitarie, humor compreso ma che manifestano un rapporto adulto col cittadino, messo nella condizione non solo di essere informato ma di poter capire quanto comunicato. Certo non è esente da scivoloni, come la pagina alla nordcoreana con gli estratti delle lettere al premier con la bambina che lo chiama nonno Mario.  Tuttavia siamo di fronte ad uno stile diverso che sembra essere molto meno presente sui media (poi in realtà questo governo parla un sacco), improntato a un meneghino spirito del fare, del far sapere senza però farci romanzi sopra. Dunque nel riposizionamento in corso da parte di Matteo Renzi paiono cambiate molte cose (la tempistica, l’attenzione dal nazionale al locale, una propensione a parlare di ciò che fa qui piuttosto di quello che farà per il Paese) ma non l’irruenza comunicativa, una scommessa precisa nei confronti della sobrietà dei professori.

Lo Stato “sfigato” che non paga le ditte.

Dal Nuovo Corriere di Firenze del 26 gennaio 2012.

180 giorni, 6 mesi. Il tempo che passa tra la befana e il due giugno. Si fa in tempo a vedere la neve e a fare i primi bagni. E’ il tempo che, in media, occorre alla pubblica amministrazione italiana per pagare le ditte o i professionisti che hanno lavorato per lei. E parliamo di dato medio, che è quindi fatto dei trenta giorni del comune virtuoso ma anche dei più di due anni che ci sono voluti ad una cooperativa sociale per farsi pagare da una ASL campana. Nel frattempo l’imprenditore ha emesso fattura (non si lavora a nero per lo Stato) e pagato l’IVA, gli stipendi e i contributi ai propri lavoratori. Ma ha fatto di più, ha svolto anche il lavoro di esattore delle tasse per lo Stato, svolgendo il compito di sostituto d’imposta e, per farlo, quasi certamente si è rivolto (pagando) a un professionista. Poi gli sarà pure capitato di pagare in ritardo qualcuno di questi tributi, il che può succedere quando non ti pagano, ed allora si sarà visto recapitare una bella cartella con spropositati tassi di interesse per il ritardato pagamento. Nel frattempo le banche anticipano sempre meno il credito e anzi spesso ti chiedono di rientrare: “sa c’è la crisi”. Non va molto meglio se l’imprenditore si trova a lavorare per conto di grandi gruppi industriali. Ormai i contratti prevedono di regola i pagamenti a 90 giorni, tre mesi. Senza interessi, naturalmente. Da lunedì, un parlamentare radicale,  Marco Beltrandi è in sciopero della fame per chiedere al governo Monti di approvare una legge di cui Beltrandi insieme al democratico Misiani è primo firmatario che chiede i pagamenti entro 60 gironi. Una legge proposta prima ma che recepisce o meglio anticipa una Direttiva Europea che chiede proprio questo. Il governo, attraverso il ministro Passera, ha detto che non aspetterà il termine previsto per dare attuazione alla Direttiva e cioè metà 2013; anche se è ben cosciente che ad oggi lo Stato non è in grado di onorare i propri creditori a meno di non creare ulteriore debito pubblico. Di certo però, e a somma zero per le casse dello Stato, potrebbe agire verso le grandi aziende. Rimane comunque necessario muoversi presto , ad oggi infatti , calcola il sole24ore, il 31% dei fallimenti è causato proprio nel ritardo dei pagamenti. Ditte quindi che potrebbero vantare un credito significativo e con creditori solvibili devono comunque chiudere mandando a casa i propri lavoratori perché ottengono pagamenti con tempi biblici. Parafrasando il sottosegretario Martone potremmo dire che ci pare sfigato uno Stato che non paga chi ha lavorato con lui.