Oddio torna Sanremo!

La settimana che arriva, per alcuni (ed io tra questi) è l’equivalente musicale della settimana santa, sia detto con tutto il rispetto. Si svolgerà infatti la settantacinquesima edizione del festival della canzone italiana, più semplicemente noto come Festival di Sanremo, cioè una sospensione collettiva della realtà che funziona spesso più di un censimento per registrare persistenze (di ampia magnitudine) e mutazioni (lente e talvolta impercettibili) non tanto della musica popolare italiana ma della società italiana nel suo complesso.

Capiamoci, Sanremo non è uno specchio del Paese, né nel bene né nel male; Sanremo è un fenomeno italiano, in cui tutto e il contrario di tutto passa sul palco del teatro Ariston, in quella settimana in cui persino il campionato di calcio si accomoda in secondo piano. Sanremo è spettacolo e finzione, a partire dal gigantismo del palco che sembra immenso dalla televisione di casa, grazie al sapiente mestiere di scenografi e maestranze che trasformano un cinema/teatro di provincia nel palco per eccellenza, scale vertiginose comprese.

Insomma il Festival è un pezzo della storia del nostro Paese, aldilà della storia del costume, senza sminuire il peso della storia del costume in un Paese che, diceva Churchill, perde le guerre come fossero partite di pallone e partite di pallone come fossero guerre. 

Dunque il festival entra in noi, parafrasando Rilke citato da Gianni Cuperlo, molto prima che avvenga e anche chi si sente assolto non può dirsi non coinvolto. Infatti lo snobismo pseudo intellettuale di chi “io no, non guardo Sanremo” vacilla alla prova del ritornello della canzone vincitrice, come quella scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit, in cui il coniglio non resiste a completare la canzoncina “ammazza la vecchia col flit…” tanto da sfondare il muro dietro cui si è nascosto.

La cosa vale anche per i cantanti, tutti o quasi, non sanno resistere al palco del festival. Possono finirci sopra direttamente anche se tutta la loro produzione musicale è distantissima dall’immaginario sanremese. Come dimenticare, tra questi, Sergio Caputo che, dopo aver dedicato a Sanremo uno dei versi più belli di Sabato italiano (la radio mi pugnala col festival dei fiori) va a Sanremo nel 1987 con Il Garibaldi innamorato, pezzo dalle armonie sudamericane, in cui tenta la connessione tra due colonne dell’italianità Garibaldi e il festival per l’appunto. Risultato modesto, finì ventunesimo su 24 partecipanti. Altro partecipante atipico Davide Van de sfroos, che si presenta nel 2011 con Yanez in cui un altro “mito” fondativo del fare gli italiani, Salgari, viene usato col suo personaggio più famoso Sandokan. Infine nel 2000 è la volta dei Subsonica con Tutti i miei sbagli in cui riescono a far passare una canzone che parla di dipendenze per una canzone d’amore. Pezzo bellissimo con gran fortuna di vendite ma che nell’implacabile legge del festival si piazza solo undicesima.

Caso diverso invece per giovani che usano il festival per farsi conoscere ma poi prederanno strade lontanissime dall’Ariston, Zucchero e Vasco Rossi su tutti.

Qualcuno si domanderà perché in questo gruppo non abbia, ancora, citato Elio e le storie tese ma loro al festival hanno rappresentato un’altra “quota” protetta del festival: gli irriverenti, il momento ironico trasgressivo, la linea comica. Fenomeno che ha caratterizzato in modo particolare le edizioni pippobaudesche del festival con un copione quasi immutabile in cui vincevano giovani bravi nelle nuove proposte, nei big trionfavano le canzoni d’amore, Toto Cutugno arrivava immancabilmente secondo ma c’era sempre uno o talvolta un gruppo che rompeva la triade sole, cuore amore con un pezzo “ironico”. Non che mancasse la qualità soprattutto se la “quota” la rappresentava Enzo Jannacci per ben tre volte in gara al festival e che nel 1985 sale sul palco con un pezzo tra i più belli e tragici del cantautore milanese Se me lo dicevi prima.

Poi ci sono quelli che al festival non ci vanno ma magari il festival lo vincono pure, come autori. È il caso di Gianna Nannini autrice di Colpo di Fulmine che vinse nel 2008 interpretata da Gio di Tonno e Lola Ponce, reduci dal successo del musical Notre Dame le cui canzoni erano scritte da Riccardo Cocciante che Sanremo lo vinse invece nel 1991 con Se stiamo insieme (e qui vi vedo che state canticchiando il ritornello struggente).

Si ma qualcuno mi dirà, gente seria come De Gregori, al festival non c’è mai andata. E invece persino Francesco De Gregori non sfugge alla legge di Sanremo. Intanto il principe ha scritto un pezzo, Festival, che racconta del suicidio di Tenco che avvenne proprio durante la partecipazione di Tenco al Festival del 1967 dopo una fredda accoglienza del suo pezzo, bellissimo, Ciao Amore ciao. Fu “la notte in cui presero il vino e ci lavarono la strada”. Dopodiché nel 1980 De Gregori fu autore del testo di Marilù, con musiche di Ron, portato in gara da Gianni Morandi che si piazzò al quarto posto per finire, senza rimpianti, nel dimenticatoio.

Insomma a Sanremo non si sfugge, è vana ogni resistenza, e se chiedete di dirvi un valido, serio e razionale motivo per cui ci apprestiamo, come sempre, a fare le due per una settimana, ad ascoltare canzoni che nel resto dell’anno ci farebbero premere il tasto skip sul nostro smartphone o girare la manopola (per noi boomer) dell’autoradio e cambiare stazione, potremo rispondervi soltanto cantando la sigla per eccellenza del festival, quella di Pippo Baudo e del Maestro Pippo Caruso: “perché Sanremo è Sanremo”. Ta da da.

Articolo uscito su Cultura Commestibile n. 563 del 8 febbraio 2025

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