Per più di un anno ho scritto sul Nuovo Corriere di Firenze. L’ho fatto usurpando la prima pagina quasi tutte le settimane, grazie al suo direttore Alessandro Rossi e alla incredibile libertà di cui ho goduto. Una libertà che è difficile da descrivere.
L’ho fatto pensando di non essere un giornalista nè un professionista dell’informazione ma semplicemente un piccolo osservatore con qualcosa da dire. Ho goduto di quello spazio cercando di non approfittarmente, provando a rispettare il lavoro dei professionisti che quel giornale (e tutti gli altri) ogni giorno compongono con un lavoro che è tutt’altro (e con tutt’altre difficoltà e pesantezze) da quello di mettersi davanti a pc e esprimere un’opinione sul mondo.
Io, dunque, smetto di scrivere, loro di lavorare e sono loro i protagonisti (loro malgrado) di questa chiusura e sono loro quelli a cui dobbiamo dedicare attenzione e sforzi perchè tornino presto a fare il loro mestiere. Tuttavia in questo anno e mezzo mi son sentito parte se non di una famiglia, almeno di una squadra. Ospite non solo tollerato ma anche parte di un’esperienza che, soprattutto con Cultura Commestibile, è stata grande e profonda.
Per questo mi sento di scrivere queste parole. Di dire che, alla fine, quella che ci rimette davvero è Firenze. Perchè il Nuovo Corriere, nel bene e nel male è stato un unicum del giornalismo fiorentino. Un momento di confornto, dibattito ma anche di ilarità. Mancherà al mio amico Lorenzo che mi segnalava le locandine le più fantasiose. Mancherà ai clienti del bar di Alessandro che ogni giorno glielo proponeva. Mancherà ai politici e ai cittadini fiorentini che trovavano nel corriere notizie e spazio per dire la loro. Sempre e comunque, di qualunque colore fossero. Mancherà anche a quelli che il corriere più criticava. Mancherà anche al Sindaco di Firenze e dispiace che proprio lui pare non averlo capito non spendendo una parola per un giornale che chiude nella sua città.
Non avrebbe cambiato le cose ma il non farlo è un segno non bello. L’assenza di gravitas che David Allegranti ha descritto nel suo libro dedicato al primo cittadino, penso che stia anche in queste cose a dimostrazione che si possono prendere i voti (parafrasando un titolo storico del Nuovo Corriere) e il potere ma non è necessariamente detto che si acquisti anche il necessario distacco che serve per esercitarlo nel modo più giusto.
Capiamoci, quando facevo politica, certi titoli ed articoli della redazione fiorentina di un grande quotidiano mi facevano girare fortemente i coglioni e con certi capo redattori non è che proprio abbia ancora voglia di andarci a cena (cosa del resto reciproca). Ma ho semplicemente smesso di comprare quel giornale in edicola; però se mai dovesse chiudere penso che sarebbe un problema per questa città. Non è retorica è intelligenza ed è buon gusto.
Spero che abbia ragione Alessandro Rossi nell’editoriale apparso oggi sul Nuovo e che potete leggere qui sotto. Che quello di oggi possa essere un arrivederci. Perchè da oggi siamo tutti un po’ più poveri. Per davvero.
Il giornale con le calze rosse
di Alessandro Rossi, dal Nuovo Corriere di Firenze del 14 maggio 2012
Non so ancora, in tutta onestà, se questo è un addio o un arrivederci. Comunque sia non è un gran momento. E’ uno di quei momenti in cui ti passa davanti agli occhi il film della tua vita. Ho avuto la fortuna, nella mia professione di giornalista, di avere solo maestri grandi o grandissimi.
Facendo il paragone con una carriera scolastica si potrebbe dire che ho fatto le materne con Maurizio Boldrini (uno dei fondatori della facoltà di scienze della comunicazione a Siena), le elementari con Gabriele Capelli (semplicemente maestoso per professionalità e umanità) all’Unità di Firenze, le medie con Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani a la Repubblica, le Superiori con Paolo Panerai a Milano Finanza/MF e l’Università con Mike Bloomberg. Ma ho conosciuto tanti altri personaggi e colleghi due dei quali, più di tutti, insieme ai miei maestri, hanno lasciato il segno nella mia formazione e nella mia coscienza: Romano Bilenchi e Guido Vergani. Del primo tutti sanno tutto a cominciare dalle vicende del suo Nuovo Corriere a cui, almeno nella testata, questo giornale ha avuto la presunzione di ispirarsi. Bilenchi era geniale da rasentare la follia, si batteva per la sua indipendenza come contro le sue malattie, spesso immaginarie, da cui non riusciva a staccarsi. Intellettuale sofisticato, amava le storie semplici. Di paese. Non piegò mai la testa. Comunista critico, libertario, sostenitore del dialogo con i cattolici. L’ho incontrato qualche volta a casa sua, a Firenze e mi chiamava “Pallino”. Lui chiamava tutti Pallino. Mi diceva. “Pallino, Il Nuovo Corriere è morto. Non ne voglio parlare. E’ morto e non ci sarà mai più un giornale come quello”. Aveva ragione Bilenchi. Un giornale non è mai uguale a un altro anche se oggi si fa a gara a somigliarsi. Ma almeno al suo tempo ogni giornale era una piccola opera d’arte. Sono sempre stato affascinato da quello scimmione di Colle Val d’Elsa, sbracato sul divano che si toccava continuamente la testa. E ho sempre sognato di poter lavorare al “suo” Nuovo Corriere. Di Guido Vergani, figlio del famoso Orio, si sa molto meno. L’ho conosciuto a Repubblica a Milano. Era uno e bino, trino, o chissà quante altre ancora: borghese ma progressista, non era bello ma piaceva alle donne, frequentatore e animatore dei salotti che poi raccontava senza pietà. Grande affabulatore, sempre ironico, elegante anche con i vestiti ciancicati. Qualcuno di lui scrisse che “nel suo lungo percorso non è mai caduto nell’errore di annacquare la sua libertà di giudizio con il senso dell’opportunità”. Guido indossava sempre delle calze rosse, quasi cardinalizie. Un modo di dichiararsi diverso anche nei particolari. A Vergani e Bilenchi ho cercato di rubare tutto quello che gli potevo rubare: l’onestà intellettuale, l’indipendenza di giudizio, l’attenzione alla scrittura, la voglia di stare dalla parte della gente comune. E poi l’ironia. Pur sapendo che la mia preziosa refurtiva, disgiunta dai proprietari originari, era meno commerciabile, ho provato a venderla lo stesso. Anzi, a regalarla. Ho cercato di condividere, spesso senza dirlo, l’eredità Bilenchi-Vergani con la redazione e con tutti quelli che in questi anni hanno lavorato con me a Il Nuovo Corriere, “il giornale più libero di Firenze”, ci dicevamo sempre. Insieme abbiamo fatto battaglie indimenticabili, scoop, inchieste, interviste, titoli divertenti, pungenti, cattivi. Provando a fare quel lavoro che dovrebbero fare tutti i giornalisti: non consentire niente al potere, rispettarlo ma affrontarlo senza paura. E poi dare voce a chi non ha voce: le nostre pagine sono state sempre piene di nomi, di interventi, di richieste, di lamentele, di indicazioni, di proteste di chi non viene mai ascoltato. Anche Cultura Commestibile, felice intuizione di Aldo Frangioni, è nata per dare spazio a uno squadrone di intellettuali, anche di altissimo valore, che non si riconosce nei modi tradizionali e omologati di fare cultura, quelli che fanno audience ma non fanno riflettere, non stimolano. E Asilo Politico? Quando Il Manifesto ha chiuso le sue pagine fiorentine abbiamo aperto le nostre alle loro idee. Ne condividiamo pochissime, ma cosa importa? L’importante è che non restassero senza voce. Avremmo fatto lo stesso anche con altre testate di qualunque parte politica nella stessa situazione. Ora che è arrivato il nostro momento non abbiamo voglia di scrivere la parola fine. Per un motivo semplice: lo spirito de Il Nuovo Corriere non morirà mai. Vivrà sempre in quei giornalisti che sapranno fare il loro dovere e il loro mestiere “senza cadere nell’errore di annacquare la libertà di giudizio con il senso dell’opportunità”.