Esce nelle sale questa settimana Berlinguer la grande ambizione di Andrea Segre. Abbiamo avuto l’opportunità di vederlo in anteprima alla cineteca di Bologna all’interno della Biennale dell’economia cooperativa organizzata da Legacoop alla presenza dell’autore e del protagonista Elio Germano. È stata dunque l’occasione per una riflessione non solo sul film ma sulla “presenza” di Berlinguer nel dibattito politico e storiografico e di come si trasmetta la sua memoria.
Joseph Buttiegieg che fu il traduttore dei Quaderni dal Carcere di Gramsci in lingua inglese scrisse che non bisognava fare del pensatore comunista una “reliquia intoccabile”. Per Gramsci, anche grazie alla fortuna oltreoceano del suo pensiero che la traduzione di Buttiegieg ha aiutato, probabilmente questo rischio è stato in parte evitato mentre il timore è stato e rimane altissimo per un altro comunista sardo: Enrico Berlinguer.
Erano già gli anni 2000, infatti, quando ancora bastava nelle riunioni del partito che già si discostava dal PCI di 10 anni e di due cambi di nome e ragione sociale, citare il nome del segretario comunista per ridestare un uditorio un po’ distratto o ottenere un applauso su un passaggio delicato. Ed è storia, e giusto omaggio, dei nostri giorni lo sguardo di Berlinguer sulla tessera del partito democratico.
In questi anni poi si sono moltiplicati i libri anche pregevoli, compreso quello di due redattori di questa rivista, i documentari, una bella e partecipatissima mostra e tante altre iniziative dedicate ad una delle figure più importanti non soltanto per la sinistra italiana. Una mole di produzioni che ha amplificato, talvolta stuzzicato, sia l’effetto nostalgia, sia il rischio “vita dei santi”.
Un rischio che anche il film di Andrea Segre Berlinguer la grande ambizione, si trova di fronte e prova a evitare da un lato con un rigore “citazionista” quasi filologico, lasciando al minimo le parti di pura invenzione drammaturgica, e dall’altra con un ritratto di Berlinguer che mischia l’uomo politico, l’uomo pubblico, con il Berlinguer privato quello della dolcezza con i figli e la moglie.
Un’operazione, quella di Segre, rischiosissima e coraggiosa e che non aveva avuto, almeno a memoria di chi scrive, precedenti in campo di opere cinematografiche non documentaristiche e che ci restituisce un ritratto del politico negli anni centrali della sua segreteria, quelli che vanno dal colpo di stato cileno del settembre 1973 all’assassinio di Aldo Moro nel maggio 1978. La grande ambizione del titolo (che si rifà a una citazione di Gramsci) è infatti quella dell’approdo del PCI al governo del Paese attraverso da un lato libere elezioni (in continuità con l’impostazione che dal rientro di Togliatti da Mosca nel 1944 aveva caratterizzato il PCI come gli altri partiti comunisti dell’Europa occidentale) e dall’altro la partecipazione di tutte le forze democratiche e popolari al governo, DC compresa. Ed è proprio questo secondo punto il centro della novità e del disegno berlingueriano che, attraverso il cosiddetto “compromesso storico” (Moro più enigmaticamente parlava invece di “convergenze parallele”) doveva portare prima ai governi della “non sfiducia” e poi alla partecipazione al governo dei comunisti.
Questo disegno, interrotto dal sequestro e dall’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse, è l’ambizione interrogata e raccontata nel film di Segre, che accompagna Berlinguer, interpretato con grande delicatezza da Elio Germano, tra riunioni del comitato centrale del PCI, assemblee con la “base” del partito, viaggi a Mosca, gli incontri “clandestini” con Moro ma anche i momenti di intimità con la famiglia del segretario.
Segre fa muovere Germano e gli altri attori su un sentiero rigido, reinterpretando al minimo passi di diari dei protagonisti o dei verbali delle riunioni conservati all’Istituto Gramsci e dunque restituendoci una ricostruzione storicamente appurata anche se tutta proveniente da una delle parti in causa, quella del gruppo dirigente del PCI.
Questo rigore se ha il pregio di rendere “solido” il film pone però almeno due problemi: da un lato piega alcuni avvenimenti al raggiungimento della grande ambizione; questo avviene in almeno due momenti: nella ricostruzione del referendum sul divorzio che viene raccontato come un’occasione per i comunisti di dimostrare alla DC che il Paese era pronto a uno sviluppo progressista che poteva portare all’alleanza tra le forze popolari. Se è vero che questa sarà la pronta lettura che il gruppo dirigente comunista darà dell’esito della consultazione referendaria, non va però dimenticato che il PCI era assolutamente contrario al fatto che si tenesse il referendum e Berlinguer in particolare, questo dicono i verbali del comitato centrale, era convinto che il voto si sarebbe rivelato in un trionfo del sì e della DC. Questa parte nel film è invece affidata ad una piccola scena di passaggio in cui Nilde Iotti convince il segretario della bontà del referendum criticando il “maschilismo” dei quadri del partito. Problema che era certo presente nel partito e che la Iotti conosceva bene anche per le proprie vicende personali.
Il secondo punto in cui il film piega la ricostruzione degli eventi al fine della grande ambizione è in una scena “moscovita” in cui Berlinguer parlando con il responsabile dei rapporti col PCUS, Gianni Cervetti fa intuire che il momento sia propizio per interrompere i finanziamenti “straordinari” di Mosca al partito. Così lo spettatore meno preparato può pensare che quella riflessione portò effettivamente all’interruzione di quel canale di finanziamento che invece proseguì e per molti anni, come ricorda lo stesso Cervetti nel suo “l’oro di Mosca”.
L’altro problema che questa impostazione filologica e rigida pone è che il Berlinguer di Germano non ha mai un dubbio, né nella parte pubblica (cosa che vista l’aura del segretario ci può stare) né nella parte privata. Ora è improbabile che, per esempio, di fronte alla volontà di autonomia dei comunisti italiani rispetto a Mosca, non fosse altro che per il prestigio dei comunisti sovietici agli occhi di chi aveva vissuto la Rivoluzione di Ottobre e la sconfitta del nazismo, non venisse nella solitudine della propria cameretta il dubbio di aver fatto la cosa giusta. Dubbio che in un’opera di fiction poteva ben essere rappresentato, rendendo più completo, più umano il personaggio. E invece anche il Berlinguer/Germano privato risponde sempre fermamente ai dubbi dei figli difendendo la propria posizione, pur “senza perdere la tenerezza”.
È questa la parte del film in cui il rischio agiografico non viene del tutto risolto ed è un peccato perché il film complessivamente si muove bene, non appare un prodotto pensato per la generazione dei “berlingueriani” (e dunque creato per l’effetto nostalgia) ma molto di più per chi Berlinguer non l’ha conosciuto e ne racconta la fase cruciale più innovativa e coraggiosa. Per questo non hanno senso le critiche come quella di Giuliano Ferrara sul Foglio di una passione per Berlinguer in quanto “perdente di lusso”. Quantomeno per questo film tale critica non si pone perché Segre, a mio avviso intelligentemente, sceglie di raccontare il Berlinguer che non si è ancora “spento” quello che avrebbe potuto farcela, seppur nel film la responsabilità della sconfitta non sia mai, nemmeno in parte, sua ma sempre di agenti altri: dalle BR, ai Russi o agli americani.
Scegliendo però l’arco narrativo 1973-1978 Segre si sottrae al giudizio storico su Berlinguer: la deriva “morale” dopo il fallimento del compromesso storico e la lunga apnea del PCI negli anni ottanta che la prematura morte nel 1984 sottrarrà al pensiero e all’azione di Berlinguer.
In questa sospensione temporale e di giudizio il film consente quindi, magari anche furbescamente, di non doversi esprimere, lasciando allo spettatore e alla sua inclinazione di declinare quello che dopo accadrà, limitandosi, si fa per dire, a una ricostruzione didascalica di un’intuizione, di un’azione e di un primo risultato negativo.
Non mancano infine alcune chicche della politica politicienne come dicono i francesi, come quando Berlinguer giubila Cossutta da responsabile dei rapporti con Mosca promuovendolo agli enti locali o quando spiega a Ingrao, il dirigente più critico alla politica di governo con la DC, che l’accordo con Moro aveva come primo risultato la presidenza di una camera per i comunisti e che il nome che il PCI avrebbe fatto era proprio quello di Ingrao. Inquadrando quindi il “grande idealista” nel contesto della sua professione di segretario e non “solo” di pensatore, raccontandoci che la politica era fatta da persone di livello, di pensiero ma anche di mestiere. Ed è anche questo uno dei meriti, non marginale, del film.
Articolo apparso su CulturaCommestibile n. 551 del 2 novembre 2024