Victor Hugo aveva dedicato loro appena una pagina in quell’opera monumentale che è il suo I Miserabili. Due uomini al comando di due immense barricate, «due spaventosi capolavori della guerra civile», tali da risultare indimenticabili.
Poi una breve notazione sul destino di questi due uomini: uno toglierà la vita all’altro, in esilio passata la Manica, in quello che sarà l’ultimo duello mortale, all’ultimo sangue, in Inghilterra.
Da queste scarne ma precise note parte la curiosità di Olivier Rolin che alla vita di questi due uomini ha dedicato un bellissimo libro: All’ultimo sangue, pubblicato in Italia da Settecolori.
Un libro capace di intrecciare letteratura e storia, che si muove con maestria e rispetto, nelle vicende dei due personaggi e delle vicende storiche delle rivoluzioni francesi del XIX secolo, oltre che delle due città protagoniste del libro, Parigi che agita le rivolte, Londra che accoglie esuli e sconfitti di quelle rivoluzioni.
Ma partiamo dalle Barricate e per quale delle molte rivoluzioni dell’ottocento che segneranno la capitale francese saranno erette. È il giugno del 1848 quando i due mostri di masserizie e ingegno umano sbarreranno la strada agli assalti, la rivoluzione è quella, sociale, che scuoterà l’Europa, quella compulsata da Marx nella speranza di un divampare generale e che leggerà come primo dispiegarsi della lotta di classe a conferma del proprio pensiero.
Hugo ripartirà proprio da quelle barricate, da quel giugno del 1848 in cui «l’estate non abdica» per riprendere il lavoro del suo libro Le miserie che presto cambierà il suo titolo nel definitivo Les miserables. Hugo esiliato nell’isola di Guernsey dopo la presa di potere di Napoleone III però ambienta il suo romanzo nel 1832 quando altre barricate sorgeranno tra le vie di Parigi, e dunque quella del 1848 è una digressione dalla trama e dai personaggi del romanzo. Una digressione che, con tutta probabilità, ne cela un’altra e altre barricate, quelle seguenti al colpo di stato di Luigi Bonaparte, e che vedranno il pari di Francia Hugo combattere per la Repubblica, lui fino ad allora monarchico convinto.
È questa progressione di lotte e barricate, questa teoria di sconfitti, Gavroche, i due protagonisti del libro Emmanuel Barthélemy e Frédéric Cournet, e lo stesso Hugo che prende vita nelle pagine di Rolin. L’autore insegue i protagonisti prima e dopo le loro lotte, li vede scappare dalla repressione, li descrive nell’esilio inglese, quello protetto e isolato nell’isola del canale per Hugo, quello talvolta misero e spesso infelice londinese dei due protagonisti.
Ogni tanto anche l’autore fa capolino nelle pagine del libro. Una presenza in punta di piedi nella ricerca dei segni rimasti intatti, nel nostro presente, delle vicende del libro, dai punti di appoggio delle barricate sui palazzi parigini alle locande inglese in cui prese forma l’odio dei due protagonisti fino al loro duello, mortale almeno per uno dei due. L’unica deviazione che si concede Rolin al suo ruolo, rispettoso, di cronista è quando ripensa alla sua di rivolta, quel maggio ’68 in cui non si eressero barricate preferendo cercare il mare sotto i sampietrini.
Difficile catalogare All’ultimo sangue; non si tratta di un romanzo perché i fatti, tutti i fatti, narrati nel libro giura l’autore sono realmente accaduti e quando documenti e ricerche non consentono di ricostruire qualche curva della storia, con somma onestà, Rolin ce lo comunica e rinuncia ad inventare. Non è però un libro di storia propriamente detto, mancando di un apparato di note e possedendo invece un ritmo di racconto e una musicalità di lingua (resa benissimo nella traduzione italiana da Daniela De Lorenzo). L’autore nell’incontro fiorentino di presentazione a Testo lo ha definito un reportage e ci atterremo alla sua definizione.
In ogni caso si tratta di un libro magnifico, in cui l’intreccio dei tanti racconti non fa mai perdere lucidità alla storia, e la capacità di descrizione di Rolin ci cala nelle strade di Parigi e Londra, sia di quelle dell’800 che quelle attuali, mentre la descrizione del duello nella foschia della campagna inglese ha i toni del miglior Conrad.
Olivier Rolin, All’ultimo sangue: Intorno ad una pagina dei Miserabili, Settecolori, 2024. Traduzione di Daniela De Lorenzo.
Mai come oggi l’adagio «una risata vi seppellirà» potrebbe risultare azzeccato, salvo il fatto che l’accezione con cui era stato concepito si è completamente ribaltata.
È infatti la risata, o meglio il ghigno beffardo, di Joker quella che rischia di seppellirci e non solo metaforicamente. Almeno così pare pensarla Guido Vitiello che ha appena dato alle stampe per Gramma Feltrinelli “Joker scatenato. Il lato oscuro della comicità”, in cui partendo dal personaggio dei fumetti DC poi trasposto in quasi tutti i capitoli della saga cinematografica di Batman, ci mostra come il giullare cattivo abbia preso il potere nelle nostre società.
Certo il primo Joker che ci salta in mente nelle cronache quotidiane è il Trump che già nel suo primo mandato aveva mostrato tratti di somiglianza col cattivo dai capelli verdi e che oggi quasi ad ogni tweed dispiega tratti da Jocker e che non si stupirebbe se si presentasse vestito di viola scuro.
Intanto come nota Vitiello Joker non ride, usa la risata per uccidere certo, ma lui di per sé al massimo ghigna e il suo perenne sorriso è un taglio o autoinflitto o frutto di sevizie o operazioni finite male a seconda delle leggende sulle origini del Joker stesso. Anche Trump non ride mai se ci fate caso, ghigna, al più sorride ma non lo si vede mai ridere di gusto.
Tuttavia quello di Vitiello non è un libro su Trump, anzi. È un libro che, come ci ha ben abituato l’autore, mette insieme fili invisibili, spaziando dai fumetti, al cinema, dall’antropologia alla letteratura e al teatro. Vitiello ripercorre le origini del Joker e degli archetipi che hanno prodotto il personaggio dei fumetti cercandone radici nel cinema espressionista tedesco a sua volta debitore diretto di Victor Hugo. Collega la stand up comedian con i giullari di corte soprattutto del mondo anglosassone, con le ricerche etnografiche e antropologiche sul riso e il suo collegamento con il mostrare i denti.
Il Joker raccontato nel libro ha assunto sempre più, soprattutto nelle incarnazioni cinematografiche nei Batman di Nolan o nel film a lui dedicato di Todd Phillips, la figura di un miscuglio tra il comico senza successo e il terrorista nichilista divenendo l’incarnazione perfetta tra comicità e distruzione.
Il passaggio dalla fiction alla realtà si realizza facendo diventare la comicità un’arma (talvolta viene da pensare la principale arma) nella lotta politica delle nostre democrazie. Sempre più spesso leader, populisti o no, di destra e di sinistra, adottano stili da comici, utilizzano la battuta, lo scherno come atto politico, con l’efficacia di un decreto esecutivo. Il confine tra motto di spirito e insulto si assottiglia, sulla falsa riga della comicità caustica dei migliori stand up comedian. Il risultato per citare Vitiello stesso è l’«apoteosi odierna, in cui il Re e il Buffone si divertono a cambiarsi di posto, affollando il pianeta di presidenti che si comportano da clown e clown che si candidano a presidenti». E vengono eletti, aggiungiamo noi.
Il tempo dei Joker, il tempo in cui viviamo, è dunque il tempo in cui il Carnevale è morto, o meglio in cui la morte rituale del Carnevale, attraverso la Quaresima non presuppone una rinascita l’anno successivo. Il Carnevale e la Quaresima si confondono non trovando soluzione di continuità, la funzione catartica del rovesciamento del senso viene meno con la morte degli Dei. La secolarizzazione comporta questo prezzo, sembra ammonirci Joker.
Vitiello poi si spinge anche a trovare un’origine istintiva del legame tra riso e aggressività, suggerendo come la risata possa avere origini in comportamenti aggressivi, come mostrare i denti, e come questo aspetto sia stato rimosso nella nostra società ossessionata dal divertimento e dissezionata dalla rete e dai social network, dove la risata decontestualizzata e isolata torna a spaventare come il clown malvagio di It.
Non spaventi però l’erudizione e la molteplicità di fonti che l’autore mette a disposizione anche in una bibliografia amplissima ma posta in forma di suggerimento e riflessione, perché Vitiello come sempre è capace e agile, discorsivo e mai saccente.
In sintesi quello di Vitiello è uno scorcio, il sorriso del Gatto del Cheshire, per rimanere ad uno dei punti affrontato nel libro, che illumina il nostro tempo, ci fornisce una chiave di lettura inedita e che non avremmo saputo da soli intravedere e che invece al termine della lettura ci appare quasi inevitabile.
Guido Vitiello, Joker scatenato. Il lato oscuro della comicità. Feltrinelli, 2025.
«Ma che storia triste, avevo aspettative basse» canta Willie Peyote e va detto che pure noi rispetto alla seconda presidenza Trump non ci aspettavamo molto, anche se quello che avviene in queste settimane appare ben peggio delle nostre già basse aspettative.
Tuttavia il fenomeno Trump aveva già dato modo di farci immaginare che questa volta sarebbe stato ben peggio di quanto avevamo visto nella sua precedente presidenza e nelle tre campagne elettorali presidenziali da lui sostenute. Segni che già il bel volume di Andrew Marantz, Antisocial (Viking 2019, non tradotto in Italia) metteva in evidenza nella prima campagna elettorale presidenziale vinta da Trump insieme alla presa d’atto della fine del sogno dell’internet liberale e libertario.
Questi sospetti su Trump, potevano facilmente venire seguendo la sua comunicazione ed in particolare quella social dell’immobiliarista americano. Almeno questa è una delle linee di lettura che si possono individuare in “Come parla un populista”, agile libello pubblicato da David Allegranti che ripercorre la comunicazione di Trump e il ruolo dei media nel diffonderla o contrastarla fino alla campagna elettorale del 2024.
Certo né il libro né l’autore, per quanto sagace, potevano immaginare il video orribile e inquietante su Gaza o l’agguato in diretta tv e social a Zelenskyy nello studio ovale. Tuttavia la comunicazione di Trump, inteso nel libro come Populista in chief, è sempre stata dirompente, violenta e insultante.
Il libro dunque è un agile strumento (l’autore precisa con ironia che non si tratta di un manuale) per capire la comunicazione di Trump ma più in generale la comunicazione dei populisti o, per meglio dire, la comunicazione populista. Infatti nel primo capitolo del libro, quello appunto dedicato ai populisti e al loro modo di comunicare, Allegranti dimostra, esempi alla mano, che quel tipo di comunicazione è appannaggio anche di politici non prettamente populisti o demagoghi. Con effetti dirompenti per loro stessi ma soprattutto per la conquista, si direbbe egemonica, di quel tipo di linguaggio nella comunicazione politica, ma ci sia permesso di aggiungere, non solo in quella.
Allegranti non si spinge ad affermare che questa sia stata l’unica risposta che i ceti dirigenti abbiano messo in campo alla loro delegittimazione ma in parte ciò è intuibile. Di più verrebbe da pensare: alla spinta alla disintermediazione, allo svilimento prima simbolico e poi pratico dei corpi intermedi, che veniva in prima istanza dal mondo economico (i lacci e lacciuoli all’impresa di berlusconiniana memoria) le classi politiche dell’occidente hanno risposto entusiasticamente preparando il terreno al populismo dal basso (come i 5 stelle da noi) e quello dall’alto dei magnati che si fanno capopopolo, finendo per far la figura dei tacchini che festeggiano il giorno del ringraziamento.
Trump quindi come continuità di un fenomeno oramai trentennale nato nel dopo guerra fredda, ma anche anomalia nella sua potenza di fuoco e negli esiti imprevedibili e potenzialmente devastanti.
È questa la seconda parte del libro quella in cui analizzando la comunicazione di Trump su Twitter, ora X, Allegranti mostra come il Presidente americano prenda la comunicazione populista e la ingigantisca all’ennesima potenza: uso della menzogna, o post verità, sistematico e non giustificato, insulto come modo di rapportarsi a nemici interni e esterni e uso del tweet come atto politico con conseguenze dirette. Un excutive order di 140 caratteri.
Ed è quella della brevità e della fretta comunicativa, unita a una sovrapproduzione di contenuti, un altro elemento che i populisti, e Trump in particolare, hanno colto come elemento determinante sui social. In altre parole il media social è perfetto per dire balle, farle passare in cavalleria sommergendo il ricevente di mille altre notizie e insultare. Già perché la rissa, anche verbale, non ha bisogno di complessità, di argomenti. L’insulto è il claim più efficace che esista.
Infine l’ultima parte del libro è una riflessione che l’autore, oramai giornalista di lunga esperienza, pone ai colleghi dei media mainstream. Una riflessione su come raccontare Trump e il populismo e così facendo sopravvivere alla crisi di credibilità e stima che colpisce la stampa tanto quanto la politica.
Forse questa ultima parte è quella più interessante del libro, anche perché più personale e seppur Allegranti abbia l’accortezza e l’intelligenza di non spiegarci “che fare?”, ha in sé elementi di salutare dubbio e possibili proposte.
Forse, se ci è permesso interloquire con l’autore, manca un passaggio tra la prima e la terza parte, il prendere coscienza che la crisi della politica e la crisi del giornalismo sono parte di una più generale crisi delle elites. L’occidente, la democrazia come la conosciamo in questa parte di mondo, sono il frutto storico, in larga parte, della borghesia e delle sue lotte (intese come conquiste e resistenze ai nemici), economiche sociali e politiche, pensare che l’attacco sia soltanto a parte di esse è forse l’errore più grande che abbiamo di fronte. Non si tratta di rispolverare il concetto di lotta di classe ma di capire che l’attacco, interno ed esterno, al nostro sistema economico, sociale e politico, non è un attacco separato alla nostra società, alle nostre istituzioni e alle nostre economie ma un’unica messa in discussione di una storia e di una costruzione storica che, almeno dal 1789, sembrava inarrestabile.
David Allegranti, Come parla un populista. Donald Trump i social media e i fatti alternativi, Mimesis, 2024.
La settimana che arriva, per alcuni (ed io tra questi) è l’equivalente musicale della settimana santa, sia detto con tutto il rispetto. Si svolgerà infatti la settantacinquesima edizione del festival della canzone italiana, più semplicemente noto come Festival di Sanremo, cioè una sospensione collettiva della realtà che funziona spesso più di un censimento per registrare persistenze (di ampia magnitudine) e mutazioni (lente e talvolta impercettibili) non tanto della musica popolare italiana ma della società italiana nel suo complesso.
Capiamoci, Sanremo non è uno specchio del Paese, né nel bene né nel male; Sanremo è un fenomeno italiano, in cui tutto e il contrario di tutto passa sul palco del teatro Ariston, in quella settimana in cui persino il campionato di calcio si accomoda in secondo piano. Sanremo è spettacolo e finzione, a partire dal gigantismo del palco che sembra immenso dalla televisione di casa, grazie al sapiente mestiere di scenografi e maestranze che trasformano un cinema/teatro di provincia nel palco per eccellenza, scale vertiginose comprese.
Insomma il Festival è un pezzo della storia del nostro Paese, aldilà della storia del costume, senza sminuire il peso della storia del costume in un Paese che, diceva Churchill, perde le guerre come fossero partite di pallone e partite di pallone come fossero guerre.
Dunque il festival entra in noi, parafrasando Rilke citato da Gianni Cuperlo, molto prima che avvenga e anche chi si sente assolto non può dirsi non coinvolto. Infatti lo snobismo pseudo intellettuale di chi “io no, non guardo Sanremo” vacilla alla prova del ritornello della canzone vincitrice, come quella scena di Chi ha incastrato Roger Rabbit, in cui il coniglio non resiste a completare la canzoncina “ammazza la vecchia col flit…” tanto da sfondare il muro dietro cui si è nascosto.
La cosa vale anche per i cantanti, tutti o quasi, non sanno resistere al palco del festival. Possono finirci sopra direttamente anche se tutta la loro produzione musicale è distantissima dall’immaginario sanremese. Come dimenticare, tra questi, Sergio Caputo che, dopo aver dedicato a Sanremo uno dei versi più belli di Sabato italiano (la radio mi pugnala col festival dei fiori) va a Sanremo nel 1987 con Il Garibaldi innamorato, pezzo dalle armonie sudamericane, in cui tenta la connessione tra due colonne dell’italianità Garibaldi e il festival per l’appunto. Risultato modesto, finì ventunesimo su 24 partecipanti. Altro partecipante atipico Davide Van de sfroos, che si presenta nel 2011 con Yanez in cui un altro “mito” fondativo del fare gli italiani, Salgari, viene usato col suo personaggio più famoso Sandokan. Infine nel 2000 è la volta dei Subsonica con Tutti i miei sbagli in cui riescono a far passare una canzone che parla di dipendenze per una canzone d’amore. Pezzo bellissimo con gran fortuna di vendite ma che nell’implacabile legge del festival si piazza solo undicesima.
Caso diverso invece per giovani che usano il festival per farsi conoscere ma poi prederanno strade lontanissime dall’Ariston, Zucchero e Vasco Rossi su tutti.
Qualcuno si domanderà perché in questo gruppo non abbia, ancora, citato Elio e le storie tese ma loro al festival hanno rappresentato un’altra “quota” protetta del festival: gli irriverenti, il momento ironico trasgressivo, la linea comica. Fenomeno che ha caratterizzato in modo particolare le edizioni pippobaudesche del festival con un copione quasi immutabile in cui vincevano giovani bravi nelle nuove proposte, nei big trionfavano le canzoni d’amore, Toto Cutugno arrivava immancabilmente secondo ma c’era sempre uno o talvolta un gruppo che rompeva la triade sole, cuore amore con un pezzo “ironico”. Non che mancasse la qualità soprattutto se la “quota” la rappresentava Enzo Jannacci per ben tre volte in gara al festival e che nel 1985 sale sul palco con un pezzo tra i più belli e tragici del cantautore milanese Se me lo dicevi prima.
Poi ci sono quelli che al festival non ci vanno ma magari il festival lo vincono pure, come autori. È il caso di Gianna Nannini autrice di Colpo di Fulmine che vinse nel 2008 interpretata da Gio di Tonno e Lola Ponce, reduci dal successo del musical Notre Dame le cui canzoni erano scritte da Riccardo Cocciante che Sanremo lo vinse invece nel 1991 con Se stiamo insieme (e qui vi vedo che state canticchiando il ritornello struggente).
Si ma qualcuno mi dirà, gente seria come De Gregori, al festival non c’è mai andata. E invece persino Francesco De Gregori non sfugge alla legge di Sanremo. Intanto il principe ha scritto un pezzo, Festival, che racconta del suicidio di Tenco che avvenne proprio durante la partecipazione di Tenco al Festival del 1967 dopo una fredda accoglienza del suo pezzo, bellissimo, Ciao Amore ciao. Fu “la notte in cui presero il vino e ci lavarono la strada”. Dopodiché nel 1980 De Gregori fu autore del testo di Marilù, con musiche di Ron, portato in gara da Gianni Morandi che si piazzò al quarto posto per finire, senza rimpianti, nel dimenticatoio.
Insomma a Sanremo non si sfugge, è vana ogni resistenza, e se chiedete di dirvi un valido, serio e razionale motivo per cui ci apprestiamo, come sempre, a fare le due per una settimana, ad ascoltare canzoni che nel resto dell’anno ci farebbero premere il tasto skip sul nostro smartphone o girare la manopola (per noi boomer) dell’autoradio e cambiare stazione, potremo rispondervi soltanto cantando la sigla per eccellenza del festival, quella di Pippo Baudo e del Maestro Pippo Caruso: “perché Sanremo è Sanremo”. Ta da da.
Esce nelle sale questa settimana Berlinguer la grande ambizione di Andrea Segre. Abbiamo avuto l’opportunità di vederlo in anteprima alla cineteca di Bologna all’interno della Biennale dell’economia cooperativa organizzata da Legacoop alla presenza dell’autore e del protagonista Elio Germano. È stata dunque l’occasione per una riflessione non solo sul film ma sulla “presenza” di Berlinguer nel dibattito politico e storiografico e di come si trasmetta la sua memoria.
Joseph Buttiegieg che fu il traduttore dei Quaderni dal Carcere di Gramsci in lingua inglese scrisse che non bisognava fare del pensatore comunista una “reliquia intoccabile”. Per Gramsci, anche grazie alla fortuna oltreoceano del suo pensiero che la traduzione di Buttiegieg ha aiutato, probabilmente questo rischio è stato in parte evitato mentre il timore è stato e rimane altissimo per un altro comunista sardo: Enrico Berlinguer.
Erano già gli anni 2000, infatti, quando ancora bastava nelle riunioni del partito che già si discostava dal PCI di 10 anni e di due cambi di nome e ragione sociale, citare il nome del segretario comunista per ridestare un uditorio un po’ distratto o ottenere un applauso su un passaggio delicato. Ed è storia, e giusto omaggio, dei nostri giorni lo sguardo di Berlinguer sulla tessera del partito democratico.
In questi anni poi si sono moltiplicati i libri anche pregevoli, compreso quello di due redattori di questa rivista, i documentari, una bella e partecipatissima mostra e tante altre iniziative dedicate ad una delle figure più importanti non soltanto per la sinistra italiana. Una mole di produzioni che ha amplificato, talvolta stuzzicato, sia l’effetto nostalgia, sia il rischio “vita dei santi”.
Un rischio che anche il film di Andrea Segre Berlinguer la grande ambizione, si trova di fronte e prova a evitare da un lato con un rigore “citazionista” quasi filologico, lasciando al minimo le parti di pura invenzione drammaturgica, e dall’altra con un ritratto di Berlinguer che mischia l’uomo politico, l’uomo pubblico, con il Berlinguer privato quello della dolcezza con i figli e la moglie.
Un’operazione, quella di Segre, rischiosissima e coraggiosa e che non aveva avuto, almeno a memoria di chi scrive, precedenti in campo di opere cinematografiche non documentaristiche e che ci restituisce un ritratto del politico negli anni centrali della sua segreteria, quelli che vanno dal colpo di stato cileno del settembre 1973 all’assassinio di Aldo Moro nel maggio 1978. La grande ambizione del titolo (che si rifà a una citazione di Gramsci) è infatti quella dell’approdo del PCI al governo del Paese attraverso da un lato libere elezioni (in continuità con l’impostazione che dal rientro di Togliatti da Mosca nel 1944 aveva caratterizzato il PCI come gli altri partiti comunisti dell’Europa occidentale) e dall’altro la partecipazione di tutte le forze democratiche e popolari al governo, DC compresa. Ed è proprio questo secondo punto il centro della novità e del disegno berlingueriano che, attraverso il cosiddetto “compromesso storico” (Moro più enigmaticamente parlava invece di “convergenze parallele”) doveva portare prima ai governi della “non sfiducia” e poi alla partecipazione al governo dei comunisti.
Questo disegno, interrotto dal sequestro e dall’assassinio di Moro da parte delle Brigate Rosse, è l’ambizione interrogata e raccontata nel film di Segre, che accompagna Berlinguer, interpretato con grande delicatezza da Elio Germano, tra riunioni del comitato centrale del PCI, assemblee con la “base” del partito, viaggi a Mosca, gli incontri “clandestini” con Moro ma anche i momenti di intimità con la famiglia del segretario.
Segre fa muovere Germano e gli altri attori su un sentiero rigido, reinterpretando al minimo passi di diari dei protagonisti o dei verbali delle riunioni conservati all’Istituto Gramsci e dunque restituendoci una ricostruzione storicamente appurata anche se tutta proveniente da una delle parti in causa, quella del gruppo dirigente del PCI.
Questo rigore se ha il pregio di rendere “solido” il film pone però almeno due problemi: da un lato piega alcuni avvenimenti al raggiungimento della grande ambizione; questo avviene in almeno due momenti: nella ricostruzione del referendum sul divorzio che viene raccontato come un’occasione per i comunisti di dimostrare alla DC che il Paese era pronto a uno sviluppo progressista che poteva portare all’alleanza tra le forze popolari. Se è vero che questa sarà la pronta lettura che il gruppo dirigente comunista darà dell’esito della consultazione referendaria, non va però dimenticato che il PCI era assolutamente contrario al fatto che si tenesse il referendum e Berlinguer in particolare, questo dicono i verbali del comitato centrale, era convinto che il voto si sarebbe rivelato in un trionfo del sì e della DC. Questa parte nel film è invece affidata ad una piccola scena di passaggio in cui Nilde Iotti convince il segretario della bontà del referendum criticando il “maschilismo” dei quadri del partito. Problema che era certo presente nel partito e che la Iotti conosceva bene anche per le proprie vicende personali.
Il secondo punto in cui il film piega la ricostruzione degli eventi al fine della grande ambizione è in una scena “moscovita” in cui Berlinguer parlando con il responsabile dei rapporti col PCUS, Gianni Cervetti fa intuire che il momento sia propizio per interrompere i finanziamenti “straordinari” di Mosca al partito. Così lo spettatore meno preparato può pensare che quella riflessione portò effettivamente all’interruzione di quel canale di finanziamento che invece proseguì e per molti anni, come ricorda lo stesso Cervetti nel suo “l’oro di Mosca”.
L’altro problema che questa impostazione filologica e rigida pone è che il Berlinguer di Germano non ha mai un dubbio, né nella parte pubblica (cosa che vista l’aura del segretario ci può stare) né nella parte privata. Ora è improbabile che, per esempio, di fronte alla volontà di autonomia dei comunisti italiani rispetto a Mosca, non fosse altro che per il prestigio dei comunisti sovietici agli occhi di chi aveva vissuto la Rivoluzione di Ottobre e la sconfitta del nazismo, non venisse nella solitudine della propria cameretta il dubbio di aver fatto la cosa giusta. Dubbio che in un’opera di fiction poteva ben essere rappresentato, rendendo più completo, più umano il personaggio. E invece anche il Berlinguer/Germano privato risponde sempre fermamente ai dubbi dei figli difendendo la propria posizione, pur “senza perdere la tenerezza”.
È questa la parte del film in cui il rischio agiografico non viene del tutto risolto ed è un peccato perché il film complessivamente si muove bene, non appare un prodotto pensato per la generazione dei “berlingueriani” (e dunque creato per l’effetto nostalgia) ma molto di più per chi Berlinguer non l’ha conosciuto e ne racconta la fase cruciale più innovativa e coraggiosa. Per questo non hanno senso le critiche come quella di Giuliano Ferrara sul Foglio di una passione per Berlinguer in quanto “perdente di lusso”. Quantomeno per questo film tale critica non si pone perché Segre, a mio avviso intelligentemente, sceglie di raccontare il Berlinguer che non si è ancora “spento” quello che avrebbe potuto farcela, seppur nel film la responsabilità della sconfitta non sia mai, nemmeno in parte, sua ma sempre di agenti altri: dalle BR, ai Russi o agli americani.
Scegliendo però l’arco narrativo 1973-1978 Segre si sottrae al giudizio storico su Berlinguer: la deriva “morale” dopo il fallimento del compromesso storico e la lunga apnea del PCI negli anni ottanta che la prematura morte nel 1984 sottrarrà al pensiero e all’azione di Berlinguer.
In questa sospensione temporale e di giudizio il film consente quindi, magari anche furbescamente, di non doversi esprimere, lasciando allo spettatore e alla sua inclinazione di declinare quello che dopo accadrà, limitandosi, si fa per dire, a una ricostruzione didascalica di un’intuizione, di un’azione e di un primo risultato negativo.
Non mancano infine alcune chicche della politica politicienne come dicono i francesi, come quando Berlinguer giubila Cossutta da responsabile dei rapporti con Mosca promuovendolo agli enti locali o quando spiega a Ingrao, il dirigente più critico alla politica di governo con la DC, che l’accordo con Moro aveva come primo risultato la presidenza di una camera per i comunisti e che il nome che il PCI avrebbe fatto era proprio quello di Ingrao. Inquadrando quindi il “grande idealista” nel contesto della sua professione di segretario e non “solo” di pensatore, raccontandoci che la politica era fatta da persone di livello, di pensiero ma anche di mestiere. Ed è anche questo uno dei meriti, non marginale, del film.
Sono andato a vedere la mostra di Massimo Listri – Firenze Kyiv andata e ritorno (Sala d’arme di Palazzo Vecchio fino all’8 marzo) – mentre leggevo Diario di un’invasione di Andrei Kurkov (Keller editore) e l’effetto stereofonico di immagini e libro mi è rimbombato dentro in modo nettissimo.
Partiamo dalla mostra. Listri ha fotografato Kyev in guerra ma le immagini che troverete visitando la mostra sono ben diverse da quelle che potreste aspettarvi da un teatro bellico. Listri fotografa bellezze, artistiche e architettoniche. Le sue sono immagini colorate, che riportano il gusto un bel po’ barocco dell’architettura pubblica presovietica, delle chieste ortodosse. Ma anche il brutalismo sovietico, come nel caso della biblioteca nazionale di Kiev, abbellito da una pittura muraria anch’essa coloratissima al pari delle vetrate delle cattedrali. Qua e là, nelle foto, la guerra però appare. Sotto forma di sacchi di sabbia, per esempio, nella foto della scala d’onore del palazzo presidenziale.
Ai miei occhi Listri fotografa quello che non vorremmo perdere, quello che stiamo difendendo e che dovremmo difendere. Un punto di vista capovolto rispetto alle di distruzione, sventramento e tragedia che siamo soliti associare alle foto scattate in zone di conflitto. Non il bello che ci salverà ma quello da salvare. L’effetto è amplificato (come le videoproiezioni immense alle pareti della Sala d’Arme) dal luogo in cui siamo. Lo nota mio figlio. Il contrasto dei palazzi del potere ucraini minacciati e il luogo del “potere” della mia città, che non avrei mai immaginato, fino a due anni fa, potesse essere minacciato da una guerra; mentre oggi il pensiero, con annesso brivido, mi prende.
Veniamo quindi al libro. Sono le note che lo scrittore ucraino, di doppio passaporto inglese, ha redatto appena prima e subito dopo l’invasione russa del 24 febbraio 2022. Note in cui la guerra, prima minacciata, poi reale, irrompe in una quotidianità così simile alla nostra: la polemica, proprio nel febbraio del 2022, sulla riforma dei menù delle mense scolastiche, mentre centinaia di migliaia di russi incombono alle frontiere; i gruppi facebook sulla birra che arriva nella bottega del Paese, dove l’autore ha una casa di campagna, mentre lui è sfollato al confine occidentale del Paese e i razzi russi devastano larga parte della nazione.
Come si può vivere sotto un’invasione, con le bombe che fischiano, con la paura per sé e per i suoi cari. Come possiamo immaginare, anche qui, l’inimmaginabile per noi almeno fino a quel febbraio di 2 anni fa.
Ma anche domandarsi come si farà a ridurre tutto l’odio che da allora si è creato, cosa potrà essere, quando sarà, la pace.
La guerra in Ucraina, non è più speciale o più importante di altre, ma forse è la più “trasferibile” per noi (di sicuro per me), per la similitudine di luoghi e situazioni. Questo dovrebbe forse spingerci a capire il senso di minaccia che si porta dietro e il senso di un impegno a difesa di Kyiv da un lato e dall’altro lato, dovrebbe consentirci di trasportare questa urgenza anche sugli altri conflitti in corso, a partire da quello mediorientale, per annullare, almeno, l’indifferenza.
La poderosa biografia che Peter Longerich – ben 890 pagine – ha dedicato a Joseph Goebbels è un tutto fuorché un mattone noioso. La minuziosa ricostruzione della vita del ministro della propaganda del Reich è, innanzitutto, un viaggio per comprendere come, un piccolo borghese con evidenti insicurezze al limite del patologico, è potuto diventare, insieme an accozzaglia non meno disturbata, uno dei padroni della Germania. Un viaggio nella mente di Goebbels che però non è un trattato di psichiatria ma un libro di storia con un imponente apparato critico ed una adeguata bibliografia. Certo è che la gioventù di Goebbles, complice anche la pressoché totale assenza di fonti, è indagata dall’autore molto più sui probabili processi psicologici che lo muovono che sulla semplice ricostruzione dei fatti. Per l’autore i complessi di inferiorità, fisica ma soprattutto sociale, sono la molla che spingono il neo laureato, scrittore fallito, a intraprendere la via della politica. Una strada che lo porta a trovare la sua guida, il suo idolo, in Adolf Hitler. Goebbels, questa la tesi, è sempre stato alla ricerca di un redentore – della sua posizione sociale, delle sue aspirazioni intellettuali che finisce per identificare in quelle dell’intera nazione tedesca – provando a immaginarsi egli stesso in tale posizione, per poi abbandonarsi alla figura di Hitler che riuscirà a mitizzare con la sua propaganda proprio perché lui per primo, lo considererà indispensabile.
Un processo di ricerca dell’approvazione del Fuhrer che segnerà e determinerà la vita privata del ministro della propaganda che, dopo una gioventù sentimentalmente tormentata, finirà per sposare Magda e con la quale instaurerà un ménage di cui Hitler sarà parte integrante e nel quale il dittatore finirà per prendere le decisioni significative (matrimonio, possibile divorzio) e che sosterrà anche economicamente.
Una simbiosi così profonda e perversa che porterà al tragico epilogo finale in cui i Goebbles, compresi i sei bambini, si toglieranno la vita dopo che Hitler avrà posto fine alla propria esistenza.
Ma la biografia, soprattutto dalla nascita del Goebbles politico sino alla tragica fine è una preziosa ricostruzione storica in cui si racconta dall’interno l’ascesa del nazismo, le lotte di potere, la frantumazione e il conflitto tra i gerarchi per finire con la condotta di guerra. Utilizzando i voluminosi diari del Ministro della propaganda, altro segno del suo egotismo, Longerich riesce a ricostruire e demolire l’immagine di potenza di Goebbles mostrandoci come almeno prima della fase finale del regime, Hitler giocasse con lui come il gatto col topo, lo escludesse dalle decisioni importanti convincendolo però del suo, successivo, ruolo fondamentale. O di come Goebbles provasse a sistematizzare posizioni autonome – la visione sociale del nazismo, il no all’alleanza con i conservatori per andare al governo, la sopravvivenza delle SA o la guerra totale – che venivano demolite dal Fuhrer facendo diventare il Ministro il più fervente sostenitore delle tesi a lui, fino a quel momento, opposte.
C’è poi Goebbles convinto antisemita nella suo progressivo passaggio da un antisemitismo borghese ad una ferocia non solo comunicativa indescrivibile; tuttavia cosciente che quegli atti, quelli della soluzione finale, significavano anche l’impossibilità per i nazisti e la Germania di tornare indietro, di salvarsi in qualche modo. Oppure il Goebbles che prova a imporre la propria idea di cultura nazionalsocialista finendo poi per ammettere, seppur nel solo privato dei diari, il fallimento nel creare una letteratura, un teatro, una musica e soprattutto, un cinema rispondente al regime.
Ne esce il ritratto di un uomo debole, tutt’altro che infallibile e onnipotente, incapace di una propria autonomia di pensiero, concentrato anche mentre tutto intorno rovina a ottenere l’approvazione del mondo e del suo capo. Una visione molto diversa da quella che il ministro era riuscito a conservare, nonostante il disastro finale, e che ci restituisce un altro pezzetto, non certo il più piccolo, della banalità del male e dei maligni.
Peter Longerich, Goebbles. Una biografia, Einaudi, 2016. Traduzione di Valentina Tortelli.
Come ogni anno gli auguri per l’anno nuovo li faccio con i libri che più mi hanno segnato nell’anno che sta per finire. Come sempre un’opera di narrativa ed un saggio, tra i numerosi libri letti per piacere e per CulturaCommestibile. Va detto che per il 2023 è stato molto difficile scegliere ma alla fine ha prevalso il cuore per Martin Amis e il suo libro testamento, e il cuore per un saggio storico, ahimè non tradotto in Italiano, sulla solidarietà, il mutuo soccorso del primo movimento operaio.
Il futuro si diceva una volta ha radici antiche e, aggiungo io, per affrontarlo serve un po’ di cattiveria alla Amis. In ogni caso vi auguro un 2024 da passare insieme a chi vi vuol bene e in compagnia di ottimi libri, ottima musica e begli spettacoli.
En attendant, toujours, la prochaine révolution, qui di seguito le recensioni ai due volumi uscite sulla rivista.
L’ultimo applauso per Martin Amis
Dovessi definire La storia da dentro, ultimo romanzo di memorie di Martin Amis, uscito nell’edizione italiana Einaudi appena tre giorni dopo la notizia della scomparsa dell’autore, direi che si tratta di un libro di fantasmi.
Certo non siamo di fronte a quelle ghost stories che raccoglievano le edizioni Oxford e una cui vecchia edizione campeggia fiera nella mia libreria. Quello di Amis è una autobiografia attraverso la perdita di alcuni amici e autori che hanno accompagnato la sua vita. Persone che nel libro diventano fantasmi perché l’autore ne racconta il percorso verso la morte: il poeta Larkin, il saggista Hitchens e il romanziere Bellow.
Amis indaga il rapporto con il decadimento, fisico per Larkin e Hitchens, mentale per Bellow. Impossibile non pensare che mentre scrive quelle pagine sta anche egli affrontando quel destino, peraltro anche lui come Larkin e Hitchens, scomparirà per un tumore all’esofago.
Figure paterne quelle di Larkin e Bellow, amicale (nel senso emblematico dell’amicizia) quella Hitchens. Larkin è il padre per contrasto al padre reale Kingsley. Uno poeta, l’altro romanziere. Uno impacciato, misogino attorniato da poche donne prepotenti, l’altro istrionico, grande conquistatore, infedele seriale, sempre insieme a donne bellissime. Bellow è invece il padre supplente, quello che forse non solo letterariamente Amis avrebbe voluto (affiancato all’altro fantasma che aleggia nel libro, quello di Nabokov), un modello letterario ma anche umano, a cui alla morte dell’ingombrante genitore naturale, confessa il bisogno di considerarlo padre eriditario.
Infine Hitchens l’amico geniale. Il compagno di sbornie, il fratello scelto. Quell’alchimia che solo chi ha avuto in sorte di trovare un amico così, comprende. L’amico che pensi di avere sempre al tuo fianco e che non ti capaciti, non vuoi credere, che perderai presto.
Sono pagine struggenti. Dolorose. Non fatico ad ammettere che più volte ho dovuto interrompere la lettura perché mi faceva male quello che trovavo sulla pagina, per poi tornare avidamente con il bisogno di avere ancora e ancora pagine scritte in quel modo bellissimo e affilato che era una delle cifre dell’autore. Eppure non c’è mai pietismo, mai retorica. Amis rimane il cattivo di sempre, il cinico spietato che abbiamo sempre amato, ma in questo romanzo autobiografico la gravità supera la maestria anche se quest’ultima rimane ai livelli altissimi di sempre.
Tuttavia i fantasmi del libro non sono solo quelli che scompaiono fisicamente, sono una vecchia fiamma o ossessione, personaggio di fantasia che racchiude le donne del passato o forse più correttamente la dissolutezza dell’autore. La madre, bellissima e forse fedifraga, contrappunto non solo del “pesantissimo” padre (al cui rapporto dedica l’altro romanzo autobiografico Esperienza del 2000) ma anche del poeta Larkin, e ancora di più la matrigna Elizabeth Jane Howard che Amis riconosce come la vera dante causa del suo essere scrittore. C’è anche un tentativo di riconciliarsi con lei, il dimostrarle riconoscenza e devozione, persino amore, il chiederle perdono per la sua, infantile, reazione all’abbandono da parte di lei del padre.
Solo le mogli e i figli in questo libro paiono non essere fantasmi. La seconda moglie di Amis, Isabel Fonseca e la moglie di Hitchens Carol Blue, personaggi destinati a salvarsi rispetto ai loro sposi. Presenze “normali”, numi tutelari, figure quasi senza macchia come mai se ne trovano nei romanzi di Amis. Testimoni dell’amore, quello che dimostrano e quello che i loro compagni testimoniano nonostante tutto. Di fronte a queste figure le maschere dei cinici due amici, tornano quelle di due imbranati qualunque, di due uomini normali con le loro paure e le loro incertezze.
Infine, come poteva essere altrimenti, la vita da dentro è anche un libro sulla scrittura, sulla tecnica, sull’uso della lingua, sull’essere intellettuali, impegnati, schierati. Quasi un manuale per lo scrittore, nella pagina ma anche nelle note (che sono a loro volta un romanzo nel romanzo), ma forse ancor di più un manuale per il lettore. Una guida consapevole del valore degli esempi citati, Bellow e Nobokov su tutti, ma anche dei propri mezzi. Amis sa, o almeno afferma sapere, della sua bravura, della sua tecnica eccellente. Non la nasconde, come l’attore che consapevole della sua bravura, mette una pausa giusto per aspettare l’applauso.
Amis probabilmente era consapevole che quello che gli avrebbe tributato il suo fedelissimo pubblico, sarebbe stato l’ultimo applauso; nel nostro caso l’applauso è arrivato, per pochi giorni postumo, ma ciò non toglie che si meritasse, non solo per questo libro, un’ovazione.
Martin Amis, La storia da dentro, Einaudi, 2023. Traduzione di Gaspare Bona.
Proletari di tutto il mondo aiutatevi tra di voi!
C’è stato un tempo in cui la classe operaia non si opponeva alla globalizzazione ma pensava di poterla sfruttare per il suo riscatto, per avere migliori condizioni di vita e di lavoro e per sviluppare la solidarietà di classe oltre le frontiere delle nazioni.
Si muove da questa premessa l’opera di Nicolas Delalande La Lutte et L’Entraide (la Lotta e il mutuo soccorso) che ha per tema la solidarietà operaia ai tempi delle due prime Internazionali fino al primo conflitto mondiale con una breve escursione finale fino agli anni 70 del novecento.
Fondata nel 1864 l’Associazione Internazionale dei Lavoratori (poi passata alla storia come prima Internazionale) aveva per scopo quello di unificare il neonato movimento operaio aldilà delle frontiere nazionali. Le successive tensioni tra anarchici e socialisti la faranno poi scomparire negli anni ’70 dell’ottocento per poi rinascere come Seconda internazionale (questa volta soltanto socialista) nel decennio successivo.
Uno degli obiettivi delle due organizzazioni era per l’appunto, la solidarietà operaia che Delalande in questo libro ci fa scoprire attraverso non tanto i proclami e i grandi discorsi ma le azioni pratiche, dalla raccolta fondi, la gestione delle sottoscrizioni, gli scandali. Scopriamo così come si esercitava in concreto quella solidarietà, quali limiti (taluni ideali, talaltri molti pratici) erano posti nell’inviare denaro, nel decidere, in base anche alla possibilità di riuscita, quali scioperi erano da assistere e quali invece non meritavano il supporto. Uno studio che mostra anche i rapporti di forza nella prima Internazionale tra i potenti sindacati inglesi e le organizzazioni più movimentiste (ma anche molto più povere) del continente, per poi raccontare il progressivo dispiegarsi anche economico dei socialdemocratici tedeschi e scandinavi al tempo della seconda internazionale.
Un lavoro minuzioso che segue il corso del denaro raccolto dai lavoratori, donato ma molto più spesso prestato (poiché il prestito impone una responsabilizzazione del ricevente), in occasioni di scioperi, manifestazioni e serrate padronali. Un sforzo mondiale che vede coinvolto non solo il continente europeo ma anche le organizzazioni nordamericane e australiane.
Naturalmente il volume mostra anche come le divisioni, tra socialisti e anarchici, tra sindacati di mestiere e organizzazioni orizzontali dei lavoratori, influiranno non soltanto sull’elaborazione teorica del movimento operaio ma avranno ricadute concrete sulla vita degli operai in lotta e sulle loro famiglie che, in occasione degli scioperi, potevano contare soltanto sugli aiuti internazionali o, laddove sviluppate, sulle prime cooperative operaie.
Analogo destino, di aiuto ma anche di diffidenza e contrasto, sarà riservato anche agli esuli della Comune parigina, prima oggetto dell’aiuto indiscriminato, per poi diventare, in alcuni casi e in particolare per alcuni sindacati inglesi, un peso o comunque “poco riconoscenti” visto che non modificavano le loro posizioni per renderle più vicine ai modi di lotta dei loro benefattori.
Un libro decisamente originale nel suo campo di ricerca che mette in luce certo le contraddizioni del movimento operaio, ma contemporaneamente dimostra la sua “potenza” e capacità di stare nelle dinamiche economiche dell’epoca provando a piegarle a proprio favore invece che di opporsi sterilmente ad esse.
Nicolas Delalande, La Lutte et l’Entraide. L’age des solidarités ouvrières, Seuil, 2019.
Fino a quest’anno ho mantenuto la tradizione di inviare la newsletter di questo vecchio blog con gli auguri di Natale. Un’unico invio all’anno con un’immagine e una frase d’augurio. Non credo nessuno se l’aspettasse ma era un piccolo rito per me. Però i sistemi anti spam ogni anno bloccavano quasi tutta la posta, il Regolamento (sacrosanto) sulla privacy mi imponeva o di sostenere un costo per l’invio utilizzando servizi efficienti o di passare molto tempo dietro l’invio di quell’unico messaggio, così quest’anno non ci sarà nessun invio e, lo ammetto la cosa mi spiace abbastanza, ma in fondo le cose devono cambiare e noi dobbiamo farcene una ragione.
Insomma tutto questo inutile pippone solo per dirvi che gli auguri ve li faccio così, con questa immagine generata dall’IA, e con la speranza di un sereno Natale e sopratutto di un 2024 finalmente in pace e felicità.
Non ci si dovesse vedere #auguri a voi e famiglia!
Se cercate in rete una foto di Claudia Goldin ne troverete molte con lei in posa accanto ad uno dei suoi Golden Retriver che ha appena ricevuto un premio. Il premio che invece ha ricevuto questa professoressa americana che insegna ad Harvard è decisamente diverso e fa molto più rumore. La Reale Accademia delle Scienze di Svezia ha, infatti, lunedì scorso, deciso di attribuirle il premio Nobel per l’economia.
La motivazione scarna, che accompagna il paper di illustrazione dei meriti della vincitrice, recita così: “per aver migliorato la nostra comprensione del mercato del lavoro femminile”. Chi si è occupato in questi anni di storia dell’economia, di politiche del lavoro, di superamento delle ineguaglianze, sa che questo è solo un pezzo del contributo che Claudia Goldin ha dato alla ricerca e ai decisori politici.
Claudia Goldin ha innanzitutto cambiato il metodo di analisi dei fenomeni economici legati al mercato del lavoro applicando il metodo storico all’analisi dei dati. Lavorando sul mercato del lavoro femminile negli Stati Uniti è stata quindi in grado di rovesciare le interpretazioni fino ad allora maggiormente condivise e di proporre ricostruzioni dei fenomeni molto più accurate e corrette.
Oltre all’uso del metodo storico, la Goldin, ha effettuato un’altra rivoluzione per analizzare il lavoro femminile: ha messo al centro della ricerca, la donna.
Questo ha voluto dire prendere i dati del lavoro femminile del XIX e XX secolo e scoprire che, a differenza di quanto postulavano gli studi (pressoché tutti maschili) precedenti, il progresso delle donne nel mondo del lavoro non è stato un lento ma incessante progresso ma la sua dinamica formava una curva ad U. In estrema sintesi l’apporto delle donne al mercato del lavoro Statunitense era stato, per il XIX secolo, sottostimato nelle analisi non tanto per la mancanza di dati ma perché i pregiudizi di genere avevano impedito agli studiosi di andare oltre i dati finora raccolti, di andare oltre la dicitura “wife” che compariva nei registri dei censimenti della popolazione. Goldin lavorando su più serie di fonti ha dimostrato che nell’economia rurale e mercantile dell’America dell’800 le donne lavoravano eccome e che le cifre finora pubblicate sottostimavano l’apporto femminile di circa il 7%.
L’altra grande scoperta fu quella che il processo si interruppe con il passaggio tra economia rurale ed industrializzazione. Fu a questo punto che la curva ad U iniziò la sua discesa. Ma il calo non fu un’interruzione brusca: le donne partecipavano ancora al mercato del lavoro ma ne uscivano al momento del matrimonio e della nascita dei figli.
Dunque il processo di espulsione era sia legato all’innovazione tecnologica del processo produttivo, ma anche (e non in maniera irrilevante) allo stigma sociale e alla non flessibilità del mercato del lavoro rispetto al lavoro di cura familiare.
Un processo che si interrompe solo nei tardi anni ’40 del XX secolo, quando la nuova fase dell’industrializzazione post bellica richiama al lavoro anche le donne sposate. Tuttavia questo processo che inverte la curva della U è un processo che le donne subiscono e sulle quali hanno pochissimi strumenti (sociali, normativi, educativi e culturali) per incidere. In più, ecco un’altra delle grandi intuizioni di Goldin, questa condizione subalterna non fu patita soltanto dalle spose che rientravano nel mercato del lavoro ma anche dalla generazione delle loro figlie, in quanto questo rientro avvenne quando molte delle scelte educative delle giovani ragazze erano state già fatte.
Ecco un altro punto fondamentale: il mercato del lavoro si modifica molto lentamente, in archi generazionali e per coorti di popolazione.
Questo ci introduce al secondo campo di indagine sul mercato del lavoro americano: le differenze salariali.
Questo ingresso ritardato ha infatti creato le condizioni per una minore competenza professionale della manodopera femminile in confronto a quella maschile disponibile negli anni ’50 e nei primi anni ’60. Questo perché la costruzione delle potenzialità professionali avviene all’interno dei processi educativi e nei primi anni lavorativi.
Il processo si invertirà quindi soltanto nelle coorti successive che avranno avuto la possibilità di scegliere i propri percorsi educativi e lavorativi. A questo va aggiunta la contemporanea trasformazione del mercato del lavoro con l’espansione dei lavori impiegatizi che saranno in grado di assorbire questa massa occupazionale femminile preparata e qualificata.
L’altro elemento che consentirà di affrontare la ripida risalita della U, accanto ad una modificazione culturale (e di conseguenza normativa), è un’innovazione tecnologica che si rivelerà fondamentale: la pillola anticoncezionale.
L’arrivo di un anticoncezionale che pone in mano alla donna la gestione della propria fertilità, e dei tempi della propria educazione e formazione, fu un elemento decisivo per l’affermazione delle donne anche nei segmenti medio alti del mercato del lavoro.
A questo processo di ingresso e consolidamento numerico si affiancò un percorso di incremento reddituale che, anche in questo caso, non fu lineare ma ebbe lunghi periodi di stagnazione: negli anni ‘30 e ‘40 dove la bassa presenza femminile rendeva il loro potere contrattuale minore e negli anni ’80 dove la lenta rincorsa delle donne istruite raggiunge la parità salaria nominale ma non quella effettiva.
Infatti, sempre il lavoro di Goldin, dimostra che nel corso del XX secolo si sarebbe passati da una differenza “tra” professioni ad una differenza “all’interno” delle professioni. Tale differenza non è però una differenza nominale ma una vera e propria discriminazione. Le donne infatti, e siamo arrivati ai nostri giorni, hanno lo stesso salario nominale degli uomini ma hanno minori possibilità di progressione di carriera, di accesso alla dirigenza di impresa e di monte ore lavorative. In particolare tale “discriminazione” interviene al momento della nascita di un figlio. Fino a quel momento le carriere di uomo e donna procedono pressoché appaiate, poi il meccanismo si inceppa. Questo ha cause sia culturali che di processo: la non flessibilità del mercato del lavoro rispetto al lavoro di cura familiare. Una stortura che nella maggior parte dei casi determina strutture di welfare compatibili con questo modello e non ad esso antinomiche, soprattutto nella società americana in cui i due principali modelli di welfare sono quello “privato” e quello legato alle confessioni religiose.
Questo lavoro focalizzato sugli Stati Uniti sarà poi, nel corso della carriera di Goldin, esteso a livello internazionale scoprendo da un lato che gli USA erano stati anticipatori di fenomeni che si sarebbero verificati in tutto il mondo (in modo particolare in quello occidentale), ma anche che il peso delle specificità culturali e soprattutto dell’accesso all’educazione delle donne avrebbero determinato esiti molto diversi nei singoli mercati del lavoro nazionali.
Seppur l’accademia di Svezia abbia preso in considerazione il lavoro di Goldin sul mercato del lavoro femminile (che comunque rappresenta la parte più rilevante del suo lavoro), soprattutto negli ultimi anni la professoressa, ha allargato il campo delle sue ricerche all’insieme più generale delle disuguaglianze nel mercato del lavoro, analizzando il ruolo degli immigrati, del peso dell’educazione e del rapporto tra educazione e tecnologia.
Anche se Goldin non ha mai avuto un approccio normativo nei suoi lavori, è evidente che grazie alle sue ricerche e al suo lavoro molti decisori politici ed economici possono (sempre che lo vogliano) far discendere politiche di contrasto alla disuguaglianza davvero efficaci e capaci di un orizzonte temporale lungo. Da un lato quindi investimenti in welfare e politiche di conciliazione dei tempi di vita e lavoro, a partire dalla genitorialità condivisa, ma soprattutto porre al centro delle politiche del lavoro l’educazione come vero fattore competitivo e di crescita per tutte le componenti delle nostre società. Perché l’inclusione, dimostra sempre Goldin, produce (oltre a società più giuste), anche società molto più ricche.